Ordinanza dell’11 giugno 2015 – Giudice designato: dott. Gianluigi Canali

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Ai fini dell’accoglimento dell’azione revocatoria fallimentare, il curatore è, tra l’altro, tenuto a provare che l’estinzione del debito pecuniario (scaduto ed esigibile) sia avvenuta con mezzo non normale, sicché in ipotesi in cui, come nel caso di specie, il pagamento sia avvenuto mediante datio in solutum, trattandosi pacificamente di mezzo non normale di adempimento rilevante ai sensi dell’art. 67, comma primo, l. fall., tale requisito deve ritenersi provato.

La consecutiotra procedure di cui all’art. 69-bis l. fall. si giustifica in quanto, di regola, il fallimento costituisce sviluppo della condizione di dissesto che ha dato causa alla precedente procedura concordataria (conf. Cass. n. 6031/2014); nondimeno, il fatto che tra le procedure sussista uno iato temporale non rileva di per sé, anche alla luce della riforma della legge fallimentare, che ha eliminato l’automatismo tra inammissibilità della proposta di concordato e fallimento. Ciò che rileva è, dunque, la continuità causale tra concordato e fallimento, che può ritenersi sussistente laddove, come nella fattispecie in esame, quest’ultimo sia stato dichiarato in base all’accertamento dell’evoluzione negativa dello stato di insolvenza che aveva condotto al deposito del ricorso inerente la prima procedura. Grava comunque su chi contesta la soluzione di continuità l’onere di provare che il debitore era uscito, medio tempore, dallo stato di illiquidità che aveva fondato la domanda di concordato.

Il soggetto convenuto in revocatoria non può limitarsi ad una prova meramente negativa, equivalente alla mancanza della prova positiva della conoscenza, dovendo invece dimostrare la sussistenza, al momento dell’atto revocando, di circostanze tali da far ritenere, ad una persona di ordinaria prudenza ed avvedutezza, che l’imprenditore si trovasse in una situazione di normale esercizio dell’impresa (conf. Cass. n. 10432/2005).

I principi sono stati espressi nel giudizio ex art. 702-bis c.p.c. promosso dalla curatela fallimentare di una s.r.l. ai fini della revoca ex art. 67, comma primo, n. 2, l. fall. dell’atto di cessione con cui la società (cedente), poi fallita, aveva trasferito beni immobiliari di sua proprietà ad altre società (cessionarie) a titolo di dazione in pagamento della somma risultante dalla rinuncia parziale al maggior credito vantato dalle cessionarie medesime nei confronti della fallita.

Sul punto il Tribunale, accertata la sussistenza dei presupposti necessari ai fini dell’azione revocatoria ex art. 67, co. 1, n. 2, l. fall., accertato il mancato assolvimento, da parte delle convenute, dell’onere di provare la mancata conoscenza dello stato di insolvenza al momento della cessione revocanda, ha accolto il ricorso dichiarando l’inefficacia dell’atto di cessione nei confronti del fallimento.

(Massima a cura di Marika Lombardi)