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Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 13 febbraio 2023, n. 258 – leasing, mancata indicazione del TAEG, indeterminatezza del contratto

La mancata indicazione del tasso leasing non determina di per sé la nullità del contratto per indeterminatezza, laddove esso rimanga comunque chiaramente determinato nei suoi elementi costitutivi. Piuttosto tale omissione consente l’esperimento di un’azione di responsabilità nei confronti della società di leasing, qualora sia ravvisabile un danno conseguente all’omessa informazione circa il tasso interno di attualizzazione.

L’indicazione del TAEG/ISC nei contratti di leasing finanziario non è obbligatoria, in quanto tale tipo contrattuale non rientra negli “altri finanziamenti” di cui al Provvedimento del Governatore della Banca d’Italia in materia di trasparenza delle operazioni e dei servizi degli intermediari finanziari del 25 luglio 2003.

Princìpi espressi in grado d’appello ove il tribunale ha respinto la domanda con cui l’appellante chiedeva di accertare l’indeterminatezza del contratto di leasing per omessa indicazione del Taeg da questi stipulato con la società di leasing appellata; nonché di condannare detta società a restituire le somme indebitamente corrisposte a titolo di canone di locazione finanziaria.

(Massime a cura di Edoardo Compagnoni)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 9 febbraio 2023, n. 240 – piano di ammortamento alla francese, determinatezza o determinabilità degli interessi, TAEG/ISC, interessi usurari

In relazione al piano d’ammortamento a rata costante, c.d. alla francese, la quota interessi essendo sempre calcolata sul capitale da restituire non genera alcun anatocismo. Tal sorta di ammortamento, così come tutte le forme di rimborso che prevedano il pagamento annuo degli interessi sul debito ancora esistente, configura una situazione equivalente a quella conseguente all’utilizzo dell’interesse composto, la cui formula viene impiegata per il solo calcolo dell’importo della rata costante. Ciò, tuttavia, non toglie che, una volta fissato l’importo della rata, gli interessi in essa ricompresi siano calcolati sempre e solo sul capitale residuo e non su interessi già maturati, escludendosi così ogni forma di anatocismo.

In merito alla determinatezza o determinabilità dell’oggetto dell’obbligazione accessoria relativa agli interessi, è indispensabile che gli elementi estrinseci o i parametri della determinazione degli interessi – ad un tasso diverso da quello legale – siano specifici. Pertanto, si ha indeterminatezza quando le clausole richiedono la necessità di una scelta applicativa tra più alternative possibili, ciascuna delle quali comportante l’applicazione di tassi di interessi diversi e, dunque, non determinate o determinabili nel loro oggetto come richiesto dagli artt. 1418 e 1346 c.c.; mentre la determinabilità è definibile come la possibilità di identificare chiaramente l’oggetto sulla base dagli elementi prestabiliti dalle parti.

Laddove il piano di ammortamento dia attuazione a criteri di calcolo difformi da quelli previsti in contratto o non risulti chiaro quali siano i criteri di calcolo e le varie componenti di determinazione della rata ovvero ancora nell’ipotesi di difformità tra entità del capitale finanziato e rata di ammortamento, ciò non comporta che il tasso risulti indeterminato, in quanto la determinatezza o meno va valutata ex ante e in riferimento alla clausola contrattuale. Pertanto, l’eventuale discrasia sulla modalità di calcolo della rata comporta una rimodulazione del piano di rimborso mediante la corretta determinazione della rata e dell’interesse.

In materia di TAEG/ISC, in quanto espressione in termini percentuali del costo complessivo del finanziamento, deve escludersi che esso costituisca una condizione economica direttamente applicabile al contratto e possa considerarsi un tasso, o prezzo, o condizione la cui erronea indicazione sia sanzionata dall’art. 117 t.u.b. Pertanto l’ISC/TAEG non ha alcuna funzione essenziale e non incide sul piano della validità del contratto (cfr. Cass. n. 24690/2020) né sul contenuto della prestazione a carico del cliente.

In materia antiusura, l’art. 1815, comma secondo, c.c. pur sanzionando la pattuizione degli interessi usurari, preserva anche il prezzo del denaro, facendo seguire la sanzione della non debenza di qualsiasi interesse limitatamente al tipo di interesse che quella soglia abbia superato. Infatti, laddove l’interesse corrispettivo sia lecito, e solo il calcolo degli interessi moratori applicati comporti il superamento della predetta soglia usuraria, ne deriva che solo questi ultimi sono illeciti e preclusi; ma resta l’applicazione dell’art. 1224 c.c., in quanto la nullità della clausola sugli interessi moratori non porta con sé anche quella degli interessi corrispettivi (cfr. Cass. n. 19597/2020).

Anche in caso di regolare svolgimento del rapporto, è riconosciuto al mutuatario – per una esigenza di certezza del diritto – un interesse ad agire per l’accertamento della nullità o inefficacia di una clausola, non essendo richiesta una lesione in atto del diritto stesso ed essendo sufficiente uno stato di incertezza; l’accertamento, tuttavia, non è automaticamente idoneo a valere in vista della futura applicazione di un interesse moratorio concreto, ma solo ad escludere che l’interesse sia dovuto.

Princìpi espressi, in grado di appello, nel giudizio promosso da una s.a.s. nei confronti di un ente di credito deducendo, con riferimento ad un mutuo con tasso variabile e un piano di ammortamento alla francese, l’indeterminatezza/indeterminabilità delle clausole relative agli interessi, l’usurarietà degli interessi ed oneri convenuti nonché l’applicazione di interessi anatocistici.

(Massime a cura di Simona Becchetti)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 6 febbraio 2023 – s.r.l., clausola compromissoria, azione di sospensione dell’esecuzione della delibera assembleare di approvazione del bilancio ex art. 2378 comma terzo c.c.

Tra i «diritti disponibili relativi al rapporto sociale» ai sensi dell’art. 34 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, suscettibili di tutela arbitrale laddove sia presente in statuto una valida clausola compromissoria, è compreso il diritto di impugnazione (ed eventualmente anche di sospensione dell’esecuzione) della delibera di approvazione del bilancio il cui iter di formazione sia viziato da un’asserita illegittima esclusione di un socio dal quorum costitutivo e deliberativo. Si tratta infatti di vizi attenenti al rapporto tra singolo socio e società, pertanto «disponibili» ai sensi dell’art. 34 del d.lgs. 17 gennaio 2003. Diversamente, i vizi attinenti al contenuto informativo del bilancio, legati cioè a una violazione dei requisiti di verità, chiarezza e precisione, trascendono l’interesse del singolo e coinvolgono diritti indisponibili ai sensi della norma summenzionata, poiché le norme imperative poste a presidio dei  detti requisiti sono dettate, oltre che a tutela dell’interesse di ciascun socio ad essere informato dell’andamento della gestione societaria, altresì a garanzia dell’affidamento di tutti i soggetti che con la società entrino in rapporto (cfr. Cass. n. 20674/2016; Cass. n. 13031/2014).

Il quinto comma dell’art. 35 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 consente la devoluzione in arbitrato di controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari e agli arbitri compete sempre il potere di disporre, con ordinanza non reclamabile, la sospensione dell’efficacia della delibera. Tale ultimo potere ha natura eccezionale in quanto costituisce una rilevante deroga alla regola generale di cui al combinato disposto degli artt. 818 c. p.c. e 669-quinquies c. p.c., per cui la domanda cautelare si propone al giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito.

Principi espressi nel contesto di un rigetto di un reclamo cautelare promosso dal reclamante avverso un’ordinanza in cui il giudice istruttore aveva dichiarato l’incompetenza del Tribunale – per la presenza in statuto di una valida clausola compromissoria – a pronunciarsi sul ricorso avente come petitum la sospensione dell’efficacia di una delibera di approvazione del bilancio. Il giudice di seconde cure conferma l’incompetenza del Tribunale adito e, inoltre, ravvisa in ogni caso la carenza del periculum in mora, a seguito della valutazione comparativa degli interessi del socio e della società richiesta dall’art. 2378, comma quarto, c.c.

(Massime a cura di Giovanni Gitti)




Tribunale di Brescia, sentenza del 2 febbraio 2023, n. 223 – responsabilità dell’intermediario per l’esecuzione di operazioni di investimento, forma degli ordini di investimento, inadeguatezza delle operazioni di investimento, obblighi informativi, art. 29 Reg. Consob n. 11522/1998

Le violazioni dei doveri di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni da parte dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario, che riguardino le operazioni di investimento o disinvestimento poste in essere in esecuzione del contratto quadro, possono dar luogo a responsabilità contrattuale e, eventualmente, condurre alla risoluzione del contratto. In assenza di un’esplicita previsione di legge, si esclude, tuttavia, che tali violazioni possano determinare la nullità, ai sensi dell’art. 1418 c.c., del contratto quadro o dei singoli atti negoziali posti in essere in esecuzione di questo (cfr. Cass. SS.UU n. 26724/2007). In particolare, ha natura contrattuale la responsabilità dell’intermediario che ometta di informarsi sulla propensione al rischio del cliente o di rappresentare a quest’ultimo i rischi dell’investimento ovvero ancora che compia operazioni inadeguate quando dovrebbe astenersene, posto che tali condotte integrano un non corretto adempimento di obblighi legali facenti parte integrante del contratto quadro intercorrente tra le parti (cfr. Cass. n. 12262/2015).

In tema di intermediazione finanziaria, la forma scritta è prevista dalla legge per il contratto quadro e non anche per i singoli ordini, a meno che non siano state le parti stesse a prevederla per la validità di questi ai sensi dell’art. 1352 c.c. (cfr. Cass. n. 16053/2017). Ove il contratto quadro preveda, ai sensi dell’art. 1352 c.c., la possibilità di dare all’intermediario ordini orali secondo quanto disposto dal Reg. Consob n. 11522/1998, la registrazione su nastro magnetico dell’ordine non costituisce un requisito di forma, sia pure ad probationem, degli ordini suddetti, ma un mero strumento atto a facilitare la prova, altrimenti più difficile, dell’avvenuta richiesta di negoziazione dei valori (così, Cass. n. 3087/2018; in senso sostanzialmente conforme alla precedente Cass. n. 612/2016). Sicché, qualora le parti abbiano convenuto che la forma scritta sia la forma abituale, ma non esclusiva, di esecuzione del contratto quadro, sono parimenti validi gli ordini impartiti all’intermediario in forma orale.

In materia di responsabilità della banca per l’esecuzione di operazioni di investimento, notorie ragioni di elementare prudenza impongono di ritenere non adeguate le operazioni che comportino l’impiego – soprattutto da parte dell’investitore non professionale – di una parte eccessiva delle proprie risorse nel solo settore azionario, la cui aleatorietà può incidere sensibilmente sul valore dei relativi prodotti finanziari, anche in assenza di imprevedibili eventi patologici a carico delle società emittenti. Pertanto, operazioni di acquisto che, seppur singolarmente non caratterizzate da importi particolarmente elevati, debbano ritenersi non adeguate sono soggette a risoluzione in caso di inadempimento da parte della banca degli obblighi di cui all’art. 29 del Reg. Consob n. 11522/1998.

I princìpi sono stati espressi nel corso di un giudizio teso a ottenere: (i) la declaratoria di nullità degli ordini di investimento impartiti oralmente da un investitore non professionale in attuazione di due contratti quadro redatti in forma scritta, conformemente a quanto previsto dalla normativa; nonché, in subordine, (ii) la risoluzione dei medesimi ordini, accertando la responsabilità della banca per l’inosservanza degli obblighi informativi previsti dall’art. 29 del Regolamento n. 11522/1998 della Consob, concernente la disciplina degli intermediari, nella formulazione pro tempore vigente. Più precisamente, le azioni erano dirette a conseguire la «restituzione e/o ripetizione» delle ingenti perdite subite (superiori al 75% del capitale investito) ovvero la risoluzione delle negoziazioni sopra richiamate per grave inadempimento della banca, con condanna al pagamento del medesimo importo a titolo di risarcimento dei danni.

La prima domanda è stata rigettata. Parte attrice, invero, non contestava di aver impartito gli ordini, ma la validità dei medesimi per difetto di forma scritta, ritenuta in chiave difensiva ad substantiam. Nel corso del giudizio è stato, invece, accertato che il contratto esprimeva una mera preferenza per tale forma, senza escludere che gli ordini potessero essere impartiti anche oralmente. 

La seconda domanda è stata parzialmente accolta. I contratti quadro davano atto della presa visione e dell’avvenuta consegna al cliente del documento informativo sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari. Tuttavia, il Tribunale ha ritenuto la banca parzialmente responsabile per la violazione degli obblighi di cui all’art. 29 del Reg. Consob n. 11522/1998 nel difetto di prova del loro assolvimento in relazione all’investimento in capitale di rischio (azioni) di una porzione ingente del proprio patrimonio da parte di un investitore privo di specifiche qualifiche e competenze nel settore finanziario. In ragione dell’elevata componente aleatoria degli investimenti in capitale di rischio, idonea a procurare ingenti perdite pur in assenza di imprevedibili eventi patologici a carico delle società emittenti, il Tribunale ha infatti ritenuto non adeguate – e ne ha, pertanto, pronunciato la risoluzione – le operazioni in esame nella misura in cui avevano impiegato somme eccedenti il 25% delle risorse finanziarie del cliente.

(Massime a cura di Giada Trioni)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 2 febbraio 2023 – s.n.c., sequestro giudiziario della quota, rigetto




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 30 gennaio 2023, n. 187 – vendita di strumenti finanziari, offerta fuori sede, forma del contratto, obblighi informativi

In tema di intermediazione mobiliare, nel caso di contratti di investimento stipulati fuori dalla sede dell’intermediario, ai sensi dell’art. 30 del d. lgs n. 58 del 1998, la circostanza che la sola sottoscrizione del contratto sia avvenuta presso l’abitazione dell’investitore non è sufficiente, di per sé, per qualificare l’offerta come avvenuta “fuori sede” dell’intermediario, occorrendo piuttosto che l’investimento sia stato sollecitato presso il domicilio dell’investitore da un promotore finanziario o da un dipendente della banca intermediaria tale da sospendere l’investitore ed indurlo ad aderire ad una proposta non meditata adeguatamente facendo ritenere dunque che la decisione di investimento sia stata assunta fuori sede.

Con riferimento al recesso di cui all’art. 30 del d. lgs n. 58 del 1998, la circostanza che l’operazione d’investimento si sia perfezionata al di fuori della sede dell’intermediario a rendere necessaria una speciale tutela, prevista dal diritto di recesso dell’investitore al dettaglio di cui all’articolo 30 t.u.f., in quanto l’investimento in tale ipotesi è stato sollecitato presso il domicilio dell’investitore da un promotore finanziario o da un dipendente della banca intermediaria e, pertanto, si può presumere che lo stesso non sia conseguenza di una premeditata decisione dello stesso investitore, ma il frutto della predetta sollecitazione. Pertanto, la ratio dello jus poenitendi previsto dalla citata norma, e, quindi, del differimento dell’efficacia del contratto, con la possibilità per il cliente di recedere nel frattempo dal contratto di investimento senza oneri è, dunque, quella di porre rimedio, a posteriori, a quella mancanza di adeguata riflessione preventiva che il perfezionamento fuori sede potrebbe aver causato. Tuttavia, anche se l’acquisto di titoli sia stato offerto al cliente dall’intermediario fuori dalla sede dell’istituto bancario e la volontà del cliente di effettuare l’investimento sia sorta in tale contesto, ove l’acquisto si sia perfezionato presso la sede dell’istituto di credito nei giorni successivi non si può ritenere che tale investimento sia frutto di un “effetto sorpresa” conseguente alla sollecitazione e, pertanto, non si ravvisano, pertanto, i presupposti che giustificano la tutela supplementare apprestata dall’articolo 30, commi 6 e 7, del t.u.f.

L’art. 23 del d.lgs. n. 58 del 1998, laddove impone la forma scritta a pena di nullità, per i contratti relativi alla prestazione di servizi di investimento, si riferisce ai contratti-quadro e non ai singoli ordini di investimento (o disinvestimento) che vengono poi impartiti dal cliente all’intermediario, la cui validità non è soggetta a requisiti formali, salvo diversa previsione dello stesso contratto quadro. Tali ordini, infatti, rappresentano un elemento di attuazione delle obbligazioni previste dal contratto di investimento del quale condividono la natura negoziale come negozi esecutivi, concretandosi attraverso di essi i negozi di acquisizione – per il tramite dell’intermediario – dei titoli da destinare ed essere custoditi, secondo le clausole contenute nel contratto quadro. In particolare, la previsione contenuta nel contratto quadro circa la registrazione degli ordini orali non costituisce un requisito di forma, sia pure “ad probationem”, degli ordini suddetti, ma uno strumento atto a facilitare la prova, altrimenti più difficile, dell’avvenuta richiesta di negoziazione dei valori, con il conseguente esonero da ogni responsabilità quanto all’operazione da compiere.

In assenza di un’esplicita previsione normativa, la violazione dei doveri di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario non può determinare l’invalidità del contratto quadro o dei singoli ordini di acquisto effettuati in base allo stesso, ma può dar luogo soltanto a conseguenze risarcitorie, costituendo fonte di responsabilità precontrattuale nel caso in cui detta violazione si verifichi nella fase antecedente o coincidente con la stipulazione del contratto di intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti, ovvero fonte di responsabilità contrattuale, nonché causa di risoluzione del contratto, ove le violazioni riguardino le operazioni di investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto quadro.

Il divieto di compiere operazioni inadeguate o in conflitto d’interessi e il dovere di informazione in capo all’intermediario attengono alla fase esecutiva del contratto di investimento, costituendo gli stessi una specificazione del primario dovere di diligenza, correttezza e professionalità nella cura degli interessi del cliente. Pertanto, i predetti obblighi sono da qualificare come obblighi di comportamento precontrattuali e contrattuali, a seconda del caso, e, pertanto, non possono giustificare il ricorso di tutela della nullità radicale del contratto (sia esso il contratto d’intermediazione finanziaria o i singoli negozi con cui a quello vien data esecuzione). Piuttosto il deficit informativo potrà rilevare in termini di inadempimento dell’intermediario a un obbligo a cui lo stesso è tenuto in vista del compimento dell’atto dispositivo e, ove nell’economia della singola operazione tale obbligo informativo assuma rilievo determinante essendo diretto ad assicurare scelte di investimento realmente consapevoli all’investitore al punto che in assenza di un consenso informato dell’interessato il sinallagma del singolo negozio di investimento manchi di trovare piena attuazione, l’investitore al dettaglio potrà ottenere la risoluzione del contratto per inadempimento dell’intermediario.

In tema di intermediazione finanziaria, l’obbligo informativo a carico dell’intermediario sussiste, anche al di fuori di una negoziazione diretta in contropartita, nel caso di negoziazione diretta per conto del cliente, rientrando tale operazione a pieno titolo tra “i servizi e attività di investimento” di cui all’art. 1, comma 5, lett. b) t.u.f. La violazione di tale obbligo non può ritenersi esclusa neanche in presenza di una segnalazione di non adeguatezza e di non appropriatezza, gravando sull’intermediario anche un autonomo obbligo di prestare all’investitore il corredo informativo relativo allo specifico strumento finanziario, evidenziandone le caratteristiche ed i rischi specifici.

L’adempimento degli obblighi informativi non può essere desunta in via esclusiva dalla sottoscrizione dell’avvenuto avvertimento dell’inadeguatezza dell’operazione in forma scritta, in quanto è necessario che l’intermediario, a fronte della sola allegazione contraria dell’investitore sull’assolvimento degli obblighi informativi, fornisca la prova positiva, con ogni mezzo, del comportamento diligente della banca: prova che può essere integrata dal profilo soggettivo del cliente o da altri convergenti elementi probatori, ma non può essere desunta soltanto da essi.

In materia di servizi di investimento mobiliare, l’intermediario finanziario è tenuto a fornire al cliente una dettagliata informazione preventiva circa i titoli mobiliari e, segnatamente, con particolare riferimento alla natura di essi ed ai caratteri propri dell’emittente, ricorrendo un inadempimento sanzionabile ogni qualvolta detti obblighi informativi non siano integrati e restando irrilevante, a tal fine, ogni valutazione di adeguatezza dell’investimento.

Gli obblighi informativi in capo all’intermediario relativi all’obbligo di verificare l’andamento dei titoli e gli obblighi di diligenza e trasparenza in capo all’istituto bancario non si esauriscano nella fase di negoziazione, ma si estendono a quella ulteriore dell’esecuzione delle operazioni. Pertanto, l’intermediario è tenuto a fornire al cliente informazioni sull’andamento del titolo non solo prima e all’atto della negoziazione, ma anche dopo il suo acquisto nella misura in cui ciò corrisponde ad un generale principio di correttezza e buona fede nel comportamento delle parti in pendenza di esecuzione del contratto.

I principi sono stati espressi nell’ambito del giudizio di appello promosso dalla banca nei confronti di un proprio cliente che aveva stipulato con la stessa diversi ordini di investimento finalizzato ad ottenere la riforma della sentenza di primo grado nella parte in cui ha risolto il contratto quadro che regola il servizio di consulenza in materia di investimenti e ha condannato la banca al risarcimento del danno nei confronti del clienti per l’inadempimento degli obblighi informativi in capo alla stessa derivanti dall’art. 21 t.u.f. e dall’art. 28, comma 2, Reg. Consob che impongono in capo all’intermediario l’obbligo di diligenza e trasparenza e, per l’effetto, dichiarare che non è dovuta alcuna somma a titolo di risarcimento del danno all’investitore. L’appellato, cliente investitore che aveva sottoscritto con la banca un contratto di investimento di strumenti finanziari, si costituiva proponendo a sua volta appello incidentale chiedendo di accertare, inter alia, la nullità del contratto quadro e dei successivi ordini di acquisto di titoli sia per (i) violazione della normativa in materia di offerta fuori sede di prodotti finanziari di cui agli artt. 30 e 31 t.u.f., (ii) per violazione della forma scritta ad substantiam degli ordini impartiti solo in forma verbale e (iii) per mancato assolvimento degli obblighi informativi.

La Corte d’Appello (i) ha rigettato l’appello principale proposto dalla banca e confermato la sentenza del Tribunale, integrata con la diversa motivazione conseguente all’accoglimento del motivo di appello incidentale relativo alla risoluzione per inadempimento degli obblighi informativi e (ii) ha rigettato l’appello incidentale proposto dall’investitore.

(Massime a cura di Roberta Ponzoni)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 23 gennaio 2023, n. 128 – contratto di conto corrente, invalidità del contratto o di singole clausole, imprescrittibilità dell’azione di accertamento di saldo di conto corrente quale conseguenza della nullità (anche parziale) del contratto, accertamento di un saldo più sfavorevole per il correntista e divieto di reformatio in peius, spese processuali e reformatio in peius

Quale conseguenza dell’imprescrittibilità dell’azione di nullità, totale o parziale, del contratto deve ritenersi imprescrittibile l’azione di accertamento del saldo dare-avere di un rapporto di conto corrente finalizzata ad accertare l’illegittimità degli addebiti derivanti dall’operatività di clausole contrattuali nulle. Pertanto, ai fini della determinazione del saldo di conto corrente, l’eccezione di prescrizione formulata dalla banca non può essere ritenuta preclusiva della domanda del correntista di accertamento dell’illegittimità degli addebiti derivanti dall’applicazione di clausole contrattuali nulle relative al medesimo rapporto di conto corrente. Accertata dunque la nullità contrattuale, anche solo parziale, ove riferita a singole clausole contrattuali del contratto di conto corrente (nel caso di specie, l’effettiva ed illegittima applicazione della capitalizzazione degli interessi), non si determina, infatti, un problema di ripetibilità o meno delle rimesse (nel caso di specie, era stata anche rinunciata la domanda restitutoria degli illegittimi addebiti) in quanto è necessario epurare il saldo dagli addebiti contra legem.

Se nel giudizio di appello promosso dal correntista il saldo di conto corrente viene rideterminato in senso più sfavorevole per il correntista rispetto a quanto accertato nel giudizio di primo grado, allora, in assenza di appello incidentale sul punto da parte della banca appellata, trova applicazione il divieto di reformatio in peius di cui agli artt. 329 e 342 c.p.c., con la conseguenza che non può essere modificato e riformato quanto statuito sul punto dalla sentenza di primo grado in forza dell’acquiescenza prestata al provvedimento di primo grado dall’appellato.

Se, nonostante l’accoglimento di un motivo di appello, il giudice di secondo grado pervenga, in definitiva, alle medesime statuizioni rese nella sentenza del Tribunale, allora, per effetto del divieto di reformatio in peius, la mancata riforma della sentenza di primo grado, in assenza di altre circostanze rilevanti, rileva anche ai fini della conferma del dispositivo sulle spese processuali del giudizio di primo grado.

I principi sono stati espressi nell’ambito del giudizio di appello promosso da un correntista e dalla sua garante avverso la sentenza di primo grado, nel quale la medesima correntista aveva convenuto l’istituto di credito con cui aveva stipulato un contratto di conto corrente, ancora efficace al momento dell’introduzione del giudizio, chiedendo: da un lato, di determinare il corretto ”dare ed avere” tra le parti in costanza del rapporto oggetto del giudizio, anche previo accertamento di molteplici contestate illegittimità (e, in particolare, l’illegittima applicazione: (i) degli interessi passivi, “ultralegali” ed usurari, (ii) dell’interesse anatocistico con capitalizzazione trimestrale in assenza di una valida convenzione anatocistica, (iii) della commissione di massimo scoperto, (iv) degli interessi per c.d. “giorni–valuta”,); e, dall’altro, di condannare la banca convenuta (i) alla restituzione delle somme indebitamente addebitate o riscosse, oltre interessi e rivalutazione (ii) al risarcimento dei danni subiti, da determinarsi in via equitativa, in conseguenza della violazione degli artt. 1337, 1337, 1366 e 1376 c.c. Nello specifico, nonostante l’attrice avesse richiesto l’accertamento della nullità, totale o parziale, del contratto di conto corrente e avesse altresì rinunciato all’azione di ripetizione dell’indebito, il Tribunale aveva ritenuto l’eccezione di prescrizione proposta dalla banca convenuta assorbente e/o preclusiva ai fini della determinazione del saldo dovuto.

La banca convenuta appellava a sua volta la sentenza di primo grado.

Con sentenza non definitiva, la Corte d’Appello accoglieva il motivo di appello formulato dalla correntista evidenziando che l’azione di accertamento della nullità, totale o parziale, del contratto di conto corrente è imprescrittibile così come quella di accertamento della determinazione del saldo di conto corrente quale conseguenza dell’operatività di clausole contrattuali nulle.

A seguito della rinnovazione dell’istruttoria emergeva, tuttavia, in concreto, un saldo di conto corrente più sfavorevole per la correntista rispetto a quanto accertato nella sentenza di primo grado, sicché la Corte d’Appello riteneva di doversi applicare il principio secondo cui non si può riformare la sentenza di primo grado con una statuizione peggiore rispetto a quella emessa in precedenza.

La Corte d’Appello ha accertato che il saldo del conto corrente ammonta ad un importo inferiore al saldo accertato con la sentenza e ha rigettato l’appello promosso dal correntista e ha compensato le spese legali.

(Massime a cura di Giovanbattista Grazioli)




Tribunale di Brescia, sentenza del 23 gennaio 2023, n. 126 – contratto di locazione finanziaria, fallimento dell’utilizzatore in pendenza del contratto e scioglimento dello stesso, obblighi restitutori

In caso di fallimento dell’utilizzatore di un contratto di locazione finanziaria, se il curatore fallimentare richiede lo scioglimento del contratto ai sensi del combinato disposto degli artt. 72 l. fall. comma primoe 72-quater comma primo, il concedente ha diritto alla restituzione del bene oggetto del contratto.

Non si può rimettere all’arbitrio del concedente la scelta se vendere o meno il bene restituito, rendendo così, nella seconda ipotesi, inapplicabile il dettato dell’art. 72-quater l. fall., frustrando di conseguenza il diritto del conduttore fallito e quindi della procedura.

Inoltre, il concedente è comunque obbligato a riconoscere al fallimento il valore indicato dall’art.  72-quater, comma terzo, l. fall., anche se la vendita o altre modalità di collocazione del bene non si sono verificate a causa della negligenza del concedente.

La finalità della procedura di realizzazione del valore di cui all’art. 72-quater, comma terzo, l. fall. è di operare una comparazione di valori tra il credito residuo del concedente ed il valore residuo del bene stesso, in quanto con tale differenza si intende sia soddisfare il credito residuo del concedente sia destinare al fallimento l’ulteriore somma che eventualmente dovesse rimanere. Pertanto, è del tutto irrilevante che tale disposizione non preveda un termine per la vendita, non potendo il concedente procrastinare arbitrariamente la vendita o collocazione del bene, specie in casi in cui il valore residuo del bene ecceda di gran lunga il credito residuo del concedente, poiché, altrimenti, impedirebbe al fallimento, con un comportamento contrario a buona fede, di esercitare il diritto garantito dalla disposizione a riscuotere la differenza.

Principi espressi nel corso di un giudizio in appello avviato da una società di leasing (concedente) per un’asserita errata interpretazione da parte del giudice di prime cure dell’art. 72 – quater, comma terzo, l. fall.

(Massime a cura di Giovanni Gitti)




Tribunale di Brescia, sentenza del 20 gennaio 2023, n. 125 – clausola compromissoria, controversie societarie, dimissioni volontarie, compenso degli amministratori

Gli amministratori sono legati alla società da un rapporto di immedesimazione organica, non riconducibile al rapporto di lavoro subordinato, né a quello di collaborazione coordinata e continuativa. Esso, piuttosto, deve essere ascritto all’area del lavoro professionale autonomo ovvero qualificato come rapporto societario tout court (Cass. n. 2759/2016). Partendo da tale assunto, l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità (cfr. anche Cass. n. 13956/2016, SS.UU. n. 1545/2017, Cass. n. 285/2019) ha chiarito la natura lato sensu societaria delle controversie che contrappongono la società al suo amministratore (o viceversa).

Di conseguenza, le controversie tra amministratori e società, anche se specificamente attinenti al profilo “interno” dell’attività gestoria ed ai diritti che ne derivano agli amministratori (quale quello alla spettanza del compenso), sono compromettibili in arbitri, ove nello statuto della società sia presente una clausola compromissoria in tal senso (Cass. n. 2759/2016).

Tale conclusione è corroborata anche dal criterio ermeneutico estensivo di cui all’art. 808-quater c.p.c., il quale sancisce che “nel dubbio, la convenzione d’arbitrato si interpreta nel senso che la competenza arbitrale si estende a tutte le controversie che derivano dal contratto o dal rapporto cui la convenzione si riferisce”.

I princìpi sono stati espressi nell’ambito di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, con il quale era stato ingiunto a una società, di cui la parte opponente era amministratore, di pagare a quest’ultimo una somma a titolo di residuo compenso, oltre a interessi e spese, per l’attività prestata sino alla data delle sue dimissioni. La società opponente ha eccepito l’incompetenza dell’autorità giudiziaria ordinaria – dalla quale sarebbe dipesa la nullità del decreto ingiuntivo da essa pronunciato – facendo rilevare la presenza nel proprio statuto di una clausola compromissoria. Detta clausola avrebbe imposto, oltre all’esperimento di un previo tentativo di conciliazione, la devoluzione in arbitri – inter alia – di qualsiasi controversia promossa da amministratori, liquidatori e sindaci, ovvero promossa nei loro confronti, avente ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale. Avendo l’amministratore opponente aderito all’eccezione di “competenza arbitrale”, il Tribunale di Brescia ha revocato il decreto ingiuntivo e, sempre per effetto della suddetta competenza arbitrale, ha dichiarato il suo difetto a conoscere ogni ulteriore domanda proposta nel merito.

(Massime a cura di Chiara Alessio)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 17 gennaio 2023 – s.n.c., sequestro conservativo a garanzia del diritto di credito per gli utili non versati