Tribunale di Brescia, ordinanza del 23 dicembre 2020 – s.s., sospensione delibera esclusione soci




Decreto del 24 gennaio 2020 – Presidente relatore: Dott. Raffaele Del Porto

Lo strumento previsto dall’art. 2409 c.c. è apprestato dall’ordinamento per una pronta reazione a gravi irregolarità degli organi sociali purché dotate di attuale potenzialità lesiva e, avendo natura cautelare “lato sensu”, non può essere diretto a censurare fatti decisamente remoti (quali i compensi aggiuntivi ai componenti del c.d.a. in misura eccessiva e la mancata distribuzione di utili a favore dei soci) e radicalmente privi di potenzialità lesiva (quale l’accantonamento degli utili).

La censura, relativa alla mancata distribuzione degli utili, risulta palesemente estranea all’alveo delle irregolarità suscettibili di denuncia ex art. 2409 c.c., essendo tale decisione affidata all’assemblea della società e, pertanto, non costituisce “grave irregolarità” degli amministratori, i quali, al più, proponendo le modalità di impiego degli utili, contribuiscono in tale ruolo alla formazione della volontà assembleare.

L’accantonamento degli utili, volti ad incrementare il patrimonio della società (eventualmente in danno del socio, che si vede privato della relativa distribuzione), difetta palesemente della “potenzialità lesiva” tipica dell’art. 2409 c.c., disponendo il socio del rimedio dell’impugnazione della deliberazione per far valere la sua illegittimità (in sostanza, per abuso di potere). Si tratta di un rimedio impugnatorio specifico e diretto a caducare la deliberazione (asseritamente) viziata, idoneo, dunque, a costituire adeguato strumento di tutela (a differenza del ricorso alla denuncia ex art. 2409 c.c.) della propria pretesa.    

Principi espressi rigettando il ricorso ex art. 2409 c.c. volto ad ottenere la censura di vicende sociali relative a gravi irregolarità nella gestione della società risalenti nel tempo (circa 9 anni prima del deposito del ricorso). È stata infatti ritenuta la inammissibilità del ricorso al rimedio di cui all’art 2409 c.c. per il difetto di tempestiva adozione da parte del ricorrente di specifici mezzi di impugnazione idonei a contestare la validità delle delibere assembleari o ad invocare la responsabilità degli amministratori per pretese condotte illecite.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza dell’1 giugno 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Davide Scaffidi

L’interesse ad agire per la declaratoria di nullità di un titolo brevettuale altrui non può essere identificato in un mero interesse al rispetto della legalità di cui un qualsiasi soggetto si affermi titolare. Deve piuttosto ribadirsi che l’esperimento della domanda di nullità di una privativa industriale mira ad eliminare un titolo ostativo al libero esercizio dell’attività di impresa e, laddove esso sia effettivamente nullo, alla rimozione degli effetti ad esso connessi con la correlativa possibilità di condurre liberamente quella l’attività nel campo ricoperto dal titolo brevettuale dichiarato nullo (conf. Trib. Milano n. 10518/2015).

Ai sensi dell’art. 100 c.p.c. e dell’art. 122 c.p.i., l’interesse ad agire non può essere costituito da un interesse di mero fatto, non assistito dai requisiti di concretezza ed attualità, che sono comunemente richiesti dall’ordinamento affinché possa ritenersi integrata l’apposita condizione, che giustifica l’ammissibilità di una domanda di accertamento quale è per l’appunto la domanda di accertamento dell’invalidità di una privativa altrui. 

Ai sensi dell’art. 100 c.p.c. e dell’art. 122 c.p.i., deve ritenersi che l’interesse ad agire difetta quando l’attore promuove un’azione soltanto al fine di scongiurare l’eventualità di ulteriori e futuri procedimenti e la domanda di nullità dei titoli brevettuali avanzata dall’attrice è sorretta esclusivamente da generiche ed astratte esigenze di certezza dei rapporti tra le due imprese, non ponendosi, in concreto, il problema di dover eliminare una situazione di incertezza, obiettiva e pregiudizievole, in ordine alla portata di diritti e obblighi delle parti rispetto ai titoli brevettuali oggetto di censura. 

Principi espressi dichiarando il difetto di interesse ad agire della società in relazione alle domande proposte volte alla declaratoria di nullità di due brevetti di titolarità della società convenuta e dei quali l’inventore era stato il legale rappresentate della prima. La società attrice, non avendo allegato possibili profili di interferenza potenziale tra i manufatti realizzati dalla stessa e l’oggetto dei brevetti della convenuta, non ha, conseguentemente, dimostrato come i diritti vantati sui titoli brevettuali potessero costituire un ostacolo attuale e concreto al libero esercizio della propria libertà imprenditoriale.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza dell’11 dicembre 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice estensore: Dott. Lorenzo Lentini

Il mantenimento dei valori delle immobilizzazioni al “costo storico”, pur in presenza di una perizia che attribuisce “valori attuali” di importo superiore, non può essere, almeno di regola, censurato, nella misura in cui risulta coerente con il principio generale di prudenza (art. 2423-bis c.c.) che governa la redazione del bilancio.

La perizia ex art. 2500-ter c.c. ed il bilancio di esercizio hanno manifesta diversità di funzioni: pertanto, il divario tra i valori contabili degli immobili e quelli di cui alla perizia, potendosi ritenere fisiologico e giustificabile, nell’ottica della prudenza, non implica necessariamente una violazione del principio di continuità nei criteri di valutazione, poiché detta violazione deve essere riscontrata attraverso l’esame del caso concreto.

La domanda di annullamento della delibera sociale per abuso della maggioranza, fondata sul presupposto delle perdite fittizie, è priva di fondamento, laddove nel caso concreto dette perdite non vengano riscontrate e venga constatato il perseguimento di un effettivo interesse sociale.

La decisione è stata resa in occasione dell’impugnazione delle delibere sociali di approvazione del bilancio e di azzeramento e ricostituzione del capitale sociale, delle quali i soci di minoranza chiedevano l’annullamento per due motivi: da un lato, per illiceità dell’oggetto (violazione del principio di continuità dei criteri di valutazione contabile nonché di quelli di verità, chiarezza e correttezza del bilancio), rilevando il divario tra i valori contabili degli immobili indicati nel bilancio d’esercizio e quelli di cui alla perizia di stima ex art. 2500-ter c.c. effettuata in sede di precedente trasformazione della società da società in accomandita semplice a società a responsabilità limitata; dall’altro, per abuso della maggioranza, per aver rilevato perdite fittizie e ricostituito il capitale nell’auspicio che i soci di minoranza non fossero in grado di sottoscrivere il nuovo capitale.

(Massime a cura di Lorena Fanelli)




Decreto del 3 dicembre 2020 – Presidente: Dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice estensore: Dott. Stefano Franchioni

Il credito vantato da Banca del Mezzogiorno-Mediocredito Centrale, quale gestore del Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese istituito con l. 662/96, art. 2, comma 100, lett. a), è assistito dal privilegio di cui all’art. 9, comma 5, del d.lgs. n. 123/1998 (con collocazione in privilegio rispetto a ogni altro titolo di prelazione da qualsiasi causa derivante, ad eccezione del privilegio per spese di giustizia e di quelli previsti dall’articolo 2751-bis c.c.) non solo nelle ipotesi di erogazione diretta del finanziamento ma anche qualora abbia prestato la garanzia (fideiussoria) prevista ex lege e la stessa sia stata escussa dall’ente di credito garantito a seguito dell’inadempimento del mutuatario e della conseguente revoca del mutuo da parte della banca. Ciò sulla base di un’interpretazione che valorizza la ratio fondante la richiamata previsione, che mira a recuperare il sacrificio patrimoniale che il sostegno pubblico ha in concreto sopportato in funzione dello sviluppo delle attività produttive anche per procurare la provvista per lo svolgimento di ulteriori e futuri sostegni allo sviluppo delle medesime (Cass. Civ. n. 14915/2019).

L’intervento di sostegno a mezzo di garanzia personale ai sensi del d.lgs. 123/1998 si apprezza, per qualità, in un tipo di rischio imprenditoriale non diverso da quello proprio della concessione dei mutui o comunque delle erogazioni dirette di somme all’impresa beneficiaria della protezione accordata dalla legge in discorso, con obbligo di restituzione delle somme medesime. Irrilevante si presenta la diversa conformazione strutturale delle due fattispecie, posto che l’assunzione di un impegno diretto da parte del garante nei confronti del terzo viene a determinare una posizione di rischio omologa a quello della consegna diretta delle somme nelle mani del mutuatario.

Al riconoscimento che gli interventi di sostegno pubblico in forma di concessione di garanzia godono del privilegio ex art. 9, comma 5, d.lgs. 123/1998 non è di ostacolo la constatazione che di tale privilegio non viene a disporre il creditore che ha erogato il mutuo (ovverosia, la banca mutuataria) e che è avvantaggiato dalla garanzia. Non vi è infatti alcuna necessità – sotto il profilo strutturale, come pure sotto quello logico – che la posizione del creditore garantito si avvantaggi di un privilegio, perché di un privilegio possa disporre il garante: la posizione del creditore, cioè, non si pone come un medio logico inevitabile in proposito. Conformemente alla regula iuris dell’art. 2745 c.c., l’art. 9, comma 5, del d.lgs. 123/1998 riconosce il privilegio in ragione del sostegno pubblico che viene dato alle attività produttive consegnandolo al garante, che ha pagato la banca garantita (per il credito che questa vanta verso il debitore principale), in quanto destinatario finale del depauperamento patrimoniale connesso all’estinzione della relativa obbligazione: sarebbe disparità del tutto non giustificata, perciò, se l’intervento di garanzia non si giovasse del privilegio che pur assiste, nel contesto normativo del d.lgs. n. 123/1998, le altre forme di intervento poste a sostegno pubblico delle attività produttive (Cass. Civ. n. 2664/2019; Cass. Civ. n. 8882/2020; Cass. Civ. n. 11122/2020).

L’art. 8-bis del d.l. 3/2015 (conv. in l. 33/2015), nel riconoscere il privilegio anche al diritto alle restituzioni spettanti ai terzi prestatori di garanzie, non va considerato nè come una disposizione di interpretazione autentica, e dunque retroattiva, nè come disposizione innovativa: si tratta semplicemente di una disposizione ripetitiva, e confermativa, del regime già vigente (Cass. Civ. n. 14915/2019).

Ai sensi dell’art. 2749 c.c. (richiamato dall’art. 54, comma 3, l. fall.), il privilegio accordato al credito si estende anche agli interessi dovuti per l’anno in corso alla data del pignoramento (ovvero, alla data del fallimento) e per quelli dell’anno precedente; trattandosi di privilegio generale, ai sensi dell’art. 54, comma 3, l.fall., il decorso degli interessi, nei limiti della misura legale, cesserà alla data del deposito del progetto di riparto nel quale il credito sarà soddisfatto anche se parzialmente. La misura legale, alla quale rinvia l’art. 2749, comma 2, c.c. ai fini dell’individuazione dei limiti della collocazione privilegiata del credito per interessi, deve intendersi riferita non già al saggio d’interesse stabilito dalla legge che disciplina il singolo credito, ma a quello previsto in via generale dall’art. 1284 c.c. (Cass. Civ. n. 13458/2014; Cass. Civ. n. 16084/2012).

Principi espressi in un giudizio di opposizione allo stato passivo promosso dall’Agenzia delle Entrate, per conto di Banca del Mezzogiorno-Mediocredito Centrale che, quale gestore del Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese istituito con l. 662/96 – art. 2, comma 100, lett. a) – aveva garantito per il 50% il finanziamento erogato da un intermediario bancario alla società fallita (all’epoca in bonis).

Il Tribunale, sulla scorta dei superiori principi e in riforma dell’originario provvedimento del Giudice Delegato, ha ammesso il credito in privilegio ex art. 9, comma 5 del d.lgs. n. 123/1998, collocando in pari grado anche agli interessi dovuti per l’anno in corso alla data del fallimento e per l’anno precedente nonché a quelli maturandi, nei limiti della misura legale, sino alla data del deposito del progetto di riparto nel quale il credito sarà soddisfatto anche solo parzialmente.

(Massime a cura di Filippo Casini)




Sentenza del 26 novembre 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice estensore: Dott. Lorenzo Lentini

La eventuale determinazione di un sovrapprezzo in sede di delibera assembleare di aumento del capitale rileva ai fini della potenziale lesione dell’interesse individuale di un socio, dato dal fatto di avere pagato un corrispettivo “eccessivo” rispetto al valore reale del complesso di azioni sottoscritte; non incide, però, su interessi generali tali da evocare la sanzione della nullità.

Essa rappresenta infatti un’ipotesi diversa dalla delibera di approvazione del bilancio, rispetto alla quale l’eventuale violazione dei criteri di valutazione previsti dall’art. 2426 c.c. potrebbe astrattamente rilevare sotto il profilo della nullità, investendo interessi di portata generale (i.e. l’affidamento dei terzi sulla veridicità delle poste di bilancio).

La funzione del sovrapprezzo nell’ambito degli aumenti di capitale è quella di adeguare il prezzo di emissione delle nuove azioni alla consistenza patrimoniale della società, rappresentando la differenza tra tale prezzo e il valore nominale dell’azione, precisandosi che la previsione di un sovrapprezzo è di regola eventuale, salva l’ipotesi di cui all’art. 2441, comma 6, c.c. Il processo di determinazione del sovrapprezzo è normalmente ancorato alla valutazione effettiva del patrimonio netto della società, a valori correnti di mercato, anche nelle ipotesi in cui l’applicazione di tale criterio porti a valori non pienamente coerenti con le risultanze contabili, discendenti da un regime normativo autonomo.

La fissazione, in sede di aumento di capitale, di un prezzo di emissione delle nuove azioni, che assume ipoteticamente un valore patrimoniale della società maggiore di quello reale, si risolve a beneficio di creditori e terzi, nella misura in cui comporta una maggiore patrimonializzazione della società, con un corrispondente incremento della riserva da sovrapprezzo delle azioni.

I principi sono stati espressi nel corso di un procedimento finalizzato a dichiarare la nullità di una delibera assembleare di aumento di capitale per violazione delle norme in materia di bilancio ed in particolare dell’art. 2426 c.c., in ragione della sopravvalutazione del principale bene all’attivo della società, la quale aveva conseguentemente determinato la sopravvalutazione del sovrapprezzo deliberato dall’assemblea nell’ambito della ricapitalizzazione della società.

(Massime a cura di Lorena Fanelli)




Ordinanza del 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

Nonostante l’art. 2378 c.c. consenta alla parte di depositare un atto di citazione contenente al proprio interno l’istanza cautelare, ovvero di depositare un ricorso unitamente all’atto di citazione, anche in copia; e nonostante sia generalmente ammessa la possibilità che il ricorso cautelare sia depositato successivamente all’introduzione della causa di merito, è essenziale che il fascicolo di causa contenga tanto l’atto di citazione (eventualmente in copia) quanto il ricorso, affinché il giudice designato per la trattazione della causa di merito possa disporre di tutti gli elementi informativi utili alla valutazione della domanda cautelare.

Decisione resa a seguito della presentazione di un atto di citazione recante l’intestazione “ricorso ex art. 700 c.p.c.” pur in concreto avendo tutti i requisiti dell’atto di citazione per impugnare le deliberazioni assembleari di cui all’art. 2378 c.c.: rileva nel senso dell’inammissibilità della domanda la circostanza che nel ricorso la parte si sia limitata a preannunciare l’intenzione di avviare il giudizio di merito, anticipando le relative conclusioni ma omettendo di produrre copia dell’atto di citazione.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)




Decreto del 2 novembre 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Davide Scaffidi

In difetto dei requisiti di attualità e di gravità delle irregolarità nella gestione dell’impresa, non può trovare accoglimento la domanda di revoca del liquidatore della società, in quanto non suscettibili di integrare le gravi violazioni che giustificherebbero, ai sensi dell’art. 2409 c.c., l’accoglimento di tale domanda. Invero, le irregolarità censurabili ai sensi dell’art. 2409 c.c. devono essere, oltre che attuali, anche potenzialmente dannose per il patrimonio sociale, e non direttamente per l’interesse dei soci.

I principi sono stati espressi nel procedimento di volontaria giurisdizione promosso dal socio di minoranza (titolare di una quota pari al 49% del capitale sociale) di una società a responsabilità limitata contro il socio di maggioranza (titolare di una quota pari al 51% del capitale sociale) al fine di ottenere la revoca di quest’ultimo in qualità di liquidatore volontario della società, in conseguenza del compimento di asserite irregolarità nella gestione dell’impresa, quali: (i) l’aver omesso di convocare l’assemblea; (ii) l’aver ostacolato il diritto del socio ricorrente di accedere alla documentazione societaria; e (iii) l’aver violato il dovere di fedeltà nei confronti della società, assumendo l’incarico di componente del consiglio di amministrazione di una società concorrente.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Decreto del 29 ottobre 2020 – Presidente: Dott. Gianluigi Canali – Giudice relatore: Dott. Stefano Franchioni

Posto che il decreto ingiuntivo acquista efficacia di giudicato formale e sostanziale solo nel momento in cui il giudice, dopo averne controllato la notificazione, lo dichiari esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c. e che tale operazione consiste in una vera e propria attività giurisdizionale di verifica del contraddittorio che si pone come ultimo atto del giudice all’interno del processo d’ingiunzione e a cui non può surrogarsi il giudice delegato in sede di accertamento del passivo, va esclusa l’opponibilità alla procedura fallimentare del decreto ingiuntivo non munito, prima del fallimento, della dichiarazione di esecutorietà ex art. 647 c.p.c., non rilevando l’avvenuta concessione della provvisoria esecutività ex art. 642 c.p.c. o la mancata tempestiva opposizione alla data della pronuncia di fallimento, eventualmente attestata dal cancelliere.

Il decreto ingiuntivo non munito, prima della dichiarazione di fallimento, del decreto di esecutorietà non è opponibile al fallimento, neppure nell’ipotesi in cui il decreto ex art. 647 c.p.c. venga emesso successivamente, tenuto conto del fatto che, intervenuto il fallimento, ogni credito deve essere accertato nel concorso dei creditori ai sensi dell’art. 52 l.f.

Se pure si concedesse che i titolari di un diritto d’ipoteca sui beni compresi nel fallimento costituiti in garanzia per crediti vantati verso debitori diversi dal fallito possano avvalersi del procedimento di verificazione dello stato passivo, l’accertamento avrebbe comunque ad oggetto esclusivamente la validità ed efficacia della garanzia ipotecaria e la misura di partecipazione al riparto delle somme ricavate dalla liquidazione dei beni gravati dall’ipoteca e non il credito del ricorrente ai fini della sua ammissione al passivo tra i creditori concorrenti.

Principi espressi nell’ambito di un procedimento di opposizione allo stato passivo in cui il creditore chiedeva il riconoscimento del privilegio ipotecario in mancanza di decreto ex art. 647 c.p.c. emesso in data anteriore al fallimento.

(Massime a cura di Giulia Ballerini)




Ordinanza del 21 ottobre 2020 – Giudice designato: Dott.ssa Alessia Busato

Anche lo storno di un solo dipendente è da considerarsi illecito allorché connotato dall’animus nocendi dello stornante oltre che dalla natura essenziale – cioè idonea ad avere ripercussioni traumatiche sull’organizzazione aziendale – dell’apporto lavorativo del dipendente stornato.

Può configurarsi un atto di concorrenza sleale in presenza di un trasferimento di un complesso di informazioni da parte di un ex dipendente che, pur non costituenti un vero e proprio diritto di proprietà industriale, costituiscano un complesso strutturato e organizzato di dati cognitivi, che superino la normale capacità mnemonica ed esperienza del dipendente. 

Principi espressi nell’ambito di un procedimento cautelare nel quale la ricorrente chiedeva l’inibizione dell’attività dei resistenti consistente in concorrenza sleale, in particolare da sviamento della clientela con rivelazione di segreti commerciali ex artt. 98 e 99 c.p.i. e storno di dipendenti.

(Massima a cura di Giovanni Maria Fumarola)