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Tribunale di Brescia, sentenza del 3 novembre 2022, n. 2656 – società, società a responsabilità limitata, invalidità delle decisioni dei soci

Il socio che ha impugnato il bilancio di esercizio per violazione dei principi inderogabili di rappresentazione chiara, veritiera e corretta ha interesse ad impugnare, per i medesimi vizi, anche le deliberazioni di approvazione dei bilanci relativi agli esercizi successivi. Tale interesse non dipende unicamente dalla frustrazione dell’aspettativa del socio  a percepire un dividendo o, comunque, un immediato vantaggio patrimoniale derivante da una diversa e più corretta formulazione del bilancio, ma anche dal fatto  che la poca chiarezza o la scorrettezza del bilancio non permette al socio di avere tutte le informazioni – destinate a riflettersi anche sul valore della singola quota di partecipazione – che tale documento contabile dovrebbe fornire, ed alle quali il socio impugnante legittimamente aspira attraverso la declaratoria di nullità e il conseguente obbligo degli amministratori di predisporre un nuovo bilancio emendato dai vizi del precedente..  Pertanto, sino a che gli amministratori non abbiano ottemperato all’obbligo di adottare i provvedimenti conseguenti all’accoglimento dell’impugnazione avente ad oggetto la deliberazione di approvazione del bilancio di esercizio precedente, il socio impugnante preserva il proprio interesse (con correlata facoltà) a esercitare l’azione di impugnazione delle delibere di approvazione dei bilanci successivi, ancorché le impugnazioni siano tutte fondate sui medesimi motivi.

Assolvendo il bilancio una funzione rappresentativa della situazione patrimoniale e finanziaria della società cui si riferisce, nonché del suo risultato economico al termine dell’esercizio, tale da fornire ai soci e ai terzi tutte le informazioni previste dagli artt. 2423 e ss. c.c., devono considerarsi irrilevanti, rispetto alle  domande di invalidità della delibera di approvazione del bilancio, deduzioni incentrate su illeciti perpetrati dagli amministratori – seppur lesivi dell’integrità e del valore del patrimonio sociale –in assenza di allegazioni con riguardo alla violazione di norme e principi che presiedono alla loro corretta rappresentazione in bilancio.

Al fine di garantire la veridicità e correttezza del bilancio devono essere osservate le norme di dettaglio che indicano per ciascuna voce le condizioni per la relativa appostazione e le disposizioni codicistiche in materia di bilancio, completate e integrate dai principi contabili di riferimento. La violazione delle predette disposizioni tuttavia determina la non veridicità del bilancio solo quando le conseguenze di tali irregolarità sono “rilevanti” e arrecano un effettivo pregiudizio alla funzione informativa del bilancio.

L’effettuazione di operazioni in conflitto di interessi, anche se non concluse a normali condizioni di mercato, non pregiudica la veridicità del bilancio qualora venga fornita adeguata informazione in nota integrativa.

I principi sono stati espressi nell’ambito di un giudizio promosso dal socio di una società a responsabilità limitata in stato di liquidazione, finalizzato ad accertare l’invalidità della deliberazione di approvazione del più recente bilancio di esercizio di detta società.

La società convenuta, costituendosi, innanzitutto ha eccepito la carenza di un interesse ad agire dell’attore sostenendo che lo stesso, avendo impugnato il bilancio di esercizio precedente per violazione dei principi inderogabili di rappresentazione chiara, veritiera e corretta, non  avesse un interesse giuridicamente rilevante ad impugnare, per i medesimi vizi, il bilancio relativo agli esercizi successivi e, in secondo luogo, ha contestato la genericità e l’indeterminatezza della domanda dell’attore, essendo la stessa diretta a contestare atti gestori asseritamente negligenti e dannosi piuttosto che la violazione dei principi contabili adottati dal redattore nella predisposizione del bilancio e la violazione delle norme di cui agli artt. 2423 s.s. c.c. Nel merito la convenuta contestava le allegazioni dell’attore e chiedeva il rigetto della domanda da questo formulata.

Il Tribunale, nel merito, ha rigettato in toto la domanda dell’attore rilevando, inter alia, la scarsa attinenza tra i fatti allegati in atto di citazione ed eventuali vizi del bilancio e, pertanto, lo ha condannato a tenere indenne la società convenuta delle spese di lite.

(Massime a cura di Giada Trioni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 31 ottobre 2022, n. 2649 –nullità del contratto per difetto di causa, errore su una qualità dell’oggetto della prestazione, esclusione, risoluzione del contratto per inadempimento reciproco, illegittimo aumento dei quorum costitutivi e deliberativi dell’assemblea di s.r.l. unipersonale in vista dell’ingresso di nuovo socio di maggioranza

Qualora una scrittura privata preveda, a favore e a carico delle parti, prestazioni di varia natura legate da vincolo di sostanziale corrispettività, la stessa non può essere dichiarata nulla – ai sensi dell’art. 1418, 2° co., c.c. – per assenza di causa sulla base di una valutazione negativa di convenienza economica dell’assetto dei rapporti congegnato dalle parti.

La mera valutazione negativa in merito alla convenienza economica degli accordi negoziali stipulati dalle parti non è idonea a fondare una richiesta di annullamento del contratto per vizio del consenso e, in particolare, per un errore essenziale su una qualità dell’oggetto della prestazione. Come pacificamente riconosciuto, il mero “errore sul valore” è inidoneo ad integrare un’ipotesi di errore essenziali ai sensi dell’art. 1429 c.c. (cfr. Cass. n. 17053/2021; n. 29010/2018 e n. 20148/2013).

In relazione ai contratti con prestazioni corrispettive, in caso di denuncia di inadempienze reciproche è necessario comparare il comportamento di entrambe le parti per stabilire quale di esse, con riferimento ai rispettivi interessi ed alla oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle violazioni maggiormente rilevanti ed abbia causato il comportamento della controparte, determinando la conseguente alterazione del sinallagma contrattuale (cfr. Cass. n. 19706/2020; n. 3455/2020; n. 13827/2019 e n. 13627/2017).

Nell’ipotesi di conferimento ad una delle parti in causa di un mandato finalizzato all’alienazione degli immobili oggetto di causa, la mancata collaborazione ovvero le condotte ostative dei mandanti non giustificano la risoluzione del contratto, a maggior ragione se le stesse si sono verificate in un lasso di tempo significativamente successivo alla scadenza del termine per il compimento dell’atto. Infatti, ci si può aspettare che le parti – in applicazione dei canoni fondamentali di correttezza e buona fede nell’esecuzione delle obbligazioni derivanti dal contratto (artt. 1175 e 1376 c.c.) – valutino le eventuali concrete proposte di acquisto del complesso immobiliare pervenute nei mesi immediatamente successivi alla scadenza del termine – non essenziale – concordato, ma non anche quelle giunte a distanza di anni dalla stessa. A nulla rileva un’eventuale successiva partecipazione delle parti alla prosecuzione delle trattative per la vendita degli immobili, collocandosi essa al di fuori delle previsioni contrattuali.

L’aumento dei quorum costitutivi e deliberativi dell’assemblea di una s.r.l. unipersonale, adottata dal socio e amministratore unico, in previsione dell’ingresso nella compagine sociale di un nuovo socio di maggioranza, è chiaramente diretta a pregiudicare le legittime aspettative di quest’ultimo, nonché ad attribuire al socio unico, destinato a divenire socio di minoranza, un sostanziale potere di veto, idoneo a paralizzare ogni decisione assembleare. Sebbene una delibera adottata al solo fine di pregiudicare e frustrare le aspettative di un socio entrante sia da ritenersi illegittima, il giudice, in difetto di tempestiva impugnazione della stessa, non può dichiararla nulla né può annullarla, non essendo ammesse ipotesi atipiche di pronunce costitutive, ai sensi dell’art. 2908 c.c.

I principi sono stati espressi nell’ambito dei giudizi riuniti promossi dalle parti di un complesso accordo contrattuale con il quale  queste avevano pattuito, per quel che qui interessa, di cedere a terzi la piena proprietà degli immobili in gestione, conferendo mandato a vendere al socio unico della s.r.l. titolare della nuda proprietà sui medesimi, e, in caso di mancata vendita entro il termine pattuito, di  trasferire alla menzionata società anche il diritto di usufrutto sugli immobili predetti, precedentemente in capo a un soggetto esterno alla stessa, destinato ad entrare nella compagine sociale della s.r.l. con una quota di maggioranza.

 A fronte di reciproche contestazioni di inadempienza, il Tribunale ha accertato la sola inadempienza del socio unico rispetto agli obblighi derivanti dall’accordo negoziale e ha accolto la domanda di esecuzione in forma specifica del contratto proposta dall’usufruttuario, ai sensi dell’art. 2932 c.c., rispingendo ogni ulteriore domanda.

(Massime a cura di Giada Trioni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 5 ottobre 2022, n. 2380 – s.r.l., cessione di quote, responsabilità contrattuale, responsabilità extra contrattuale e pre-contrattuale, responsabilità amministratore, art. 2476 c.c., art. 1453 c.c., art. 1497 c.c., art. 1337 c.c., art. 1440 c.c.

Le azioni (e le quote) delle società di capitali costituiscono beni di “secondo grado”, in quanto non sono del tutto distinte e separate dai beni compresi nel patrimonio sociale, e sono rappresentative delle posizioni giuridiche spettanti ai soci in ordine alla gestione ed alla utilizzazione di detti beni, funzionalmente destinati all’esercizio dell’attività sociale; pertanto, i beni compresi nel patrimonio della società non possono essere considerati del tutto estranei all’oggetto del contratto di cessione del trasferimento delle azioni o delle quote di una società di capitali, sia se le parti abbiano fatto espresso riferimento agli stessi, mediante la previsione di specifiche garanzie contrattuali, sia se l’affidamento del cessionario debba ritenersi giustificato alla stregua del principio di buona fede. Ne consegue che la differenza tra l’effettiva consistenza quantitativa del patrimonio sociale rispetto a quella indicata nel contratto, incidendo sulla solidità economica e sulla produttività della società, quindi sul valore delle azioni o delle quote, può integrare la mancanza delle qualità essenziali della cosa, che rende ammissibile la risoluzione del contratto ex art. 1497 c.c., ovvero, qualora i beni siano assolutamente privi della capacità funzionale a soddisfare i bisogni dell’acquirente, quindi “radicalmente diversi” da quelli pattuiti, l’esperimento di un’ordinaria azione di risoluzione ex art. 1453 c.c., svincolata dai termini di decadenza e prescrizione previsti dall’art. 1495 c.c.(cfr. Cass. 22790/2019)

A norma dell’art. 1497, comma secondo, c.c., il diritto di ottenere la risoluzione è soggetto alla decadenza e alla prescrizione stabilite dall’art. 1495 c.c. e per effetto del rinvio operato dall’art. 1497 c.c. alle disposizioni generali sulla risoluzione del contratto per inadempimento, il compratore può ottenere la risoluzione del contratto soltanto se il difetto di qualità della cosa venduta non sia di scarsa importanza; tuttavia, quando l’inadempienza non sia di tale gravità da giustificare la risoluzione del contratto, l’acquirente può sempre agire per il risarcimento del danno sotto forma di una proporzionale riduzione del prezzo corrispondente al maggior valore che la cosa avrebbe avuto, purché il difetto di questa non sia di trascurabile entità, precisandosi inoltre che tutte le azioni spettanti al compratore per i vizi o la mancanza di qualità della cosa venduta, ivi compresa, pertanto, l’azione di risarcimento del danno, prevista dall’art. 1494 c.c., sono soggette ai termini di decadenza e di prescrizione di cui all’art. 1495 c.c.. Il presente principio opera anche nel caso di esperimento di detta azione risarcitoria in via autonoma, rispetto all’azione di risoluzione del contratto o di riduzione del prezzo (cfr. Cass. n. 247/1981; n. 2322/1977 e n. 1874/1972).

Ai fini dell’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore di una società di capitali non è sufficiente invocare genericamente il compimento di atti di “mala gestio” e riservare una più specifica descrizione di tali comportamenti nel corso del giudizio, atteso che per consentire alla controparte l’approntamento di adeguata difesa, nel rispetto del principio processuale del contraddittorio, la “causa petendi” deve sin dall’inizio sostanziarsi nell’indicazione dei comportamenti asseritamente contrari ai doveri imposti agli amministratori dalla legge o dallo statuto sociale. Ciò vale tanto che venga esercitata un’azione sociale di responsabilità quanto un’azione dei creditori sociali, perché anche la mancata conservazione del patrimonio sociale può generare responsabilità non già in conseguenza dell’alea insita nell’attività di impresa, ma in relazione alla violazione di doveri legali o statutari che devono essere identificati nella domanda nei loro estremi fattuali.

L’operato dell’amministratore per motivi squisitamente di merito è insindacabile, alla stregua del noto principio della c.d. business judgement rule.

Principi espressi in ipotesi di rigetto della domanda volta ad accertare la responsabilità contrattuale dei venditori, a seguito della cessione della totalità delle quote di una s.r.l. avente quale asset una struttura turistica affetta da abusi edilizi, per effetto della garanzia prestata, ai sensi degli artt. 1453 e/o 1497 c.c., con conseguente condanna al risarcimento dei danni, nonché all’accertamento della responsabilità extra-contrattuale, sub specie di responsabilità pre-contrattuale e per dolo incidente ai sensi degli artt. 1337 e 1440 c.c., sempre con conseguente condanna al risarcimento dei danni nonché l’accertamento della responsabilità dell’amministratore di una s.r.l., ex art. 2476, comma terzo, c.c., con condanna dello stesso al risarcimento dei danni.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 29 marzo 2022, n. 756 – s.r.l., diritto di recesso, clausola di gradimento, clausola di prelazione impropria, limiti al trasferimento mortis causa

Qualora lo statuto di una s.r.l. contenga una clausola di gradimento non mero – tale da intendersi anche quella che subordina il trasferimento (inter vivos) di partecipazioni al preventivo gradimento dell’acquirente da parte del consiglio di amministrazione e di tutti gli altri soci, prevedendo però un chiaro limite soggettivo – il diritto di recesso non è riconosciuto per il solo fatto dell’esistenza di siffatta clausola, poiché ciò finirebbe per introdurre surrettiziamente una vera e propria facoltà di recesso ad nutum, in difetto di una chiara previsione statutaria in tal senso. Al contrario, alla luce di quanto disposto dall’art. 2469 c.c., in tale ipotesi il diritto di exit è accordato al socio solo in conseguenza del diniego ricevuto al fine di consentirgli di non rimanere prigioniero della società (cfr. Corte d’Appello Venezia n. 2158/2021).

Analoghe considerazioni debbono essere svolte con riguardo alle clausole di prelazione “a prezzo amministrato” che impongono al socio, qualora questi voglia cedere la propria partecipazione, di offrirla preventivamente e a parità di condizioni agli altri soci, cui viene altresì riconosciuto il diritto di sottoporre la determinazione del prezzo da corrispondere all’offerente a un arbitratore, nonché alle clausole di gradimento nei trasferimenti mortis causa, quando le medesime prevedono che – eccezion fatta per il trasferimento al successore o ai successori in linea retta del socio defunto – la partecipazione possa essere ceduta solo a soggetti graditi all’organo amministrativo della società. In entrambi i casi, non vi è diritto di recesso per la mera esistenza di un limite alla circolazione della partecipazione, qualora esso risulti in concreto inidoneo, in forza della sua effettiva applicazione, a determinare la definitiva compressione del diritto al trasferimento della partecipazione.

I princìpi sono stati espressi nell’ambito di un giudizio volto a dirimere una controversia sorta tra un socio di minoranza e una società a responsabilità limitata relativamente alla sussistenza del diritto di recesso dalla società in capo al primo. Nel caso di specie, infatti, la parte attrice aveva esercitato dapprima recesso parziale e poi, senza rinuncia esplicita al primo recesso, recesso per l’intera partecipazione. La società resistente adduceva, inter alia, l’insussistenza del diritto di recesso: i) nel difetto di una clausola statutaria “di mero gradimento”; ii) in ragione della clausola statutaria di prelazione impropria o “a prezzo amministrato”; iii) per la sola presenza di una clausola statutaria limitativa delle ipotesi di trasferimento mortis causa. Il Collegio ha statuito che non spettava alla parte attrice diritto di recesso, non avendo, tra l’altro, la medesima mai manifestato la propria intenzione di alienare a terzi (in tutto o in parte) la propria quota. Sono risultate perciò assorbite le ulteriori questioni relative alla ammissibilità di un recesso parziale, condizionato o esercitato dal solo nudo proprietario.

(Massime a cura di Chiara Alessio)