Sentenza del 27 gennaio 2021 – Presidente: Dott. Donato Pianta – Consigliere relatore: Dott.ssa Vittoria Gabriele

La
responsabilità solidale delle società derivate da scissione rispetto ai debiti
della società scissa, prevista dall’art. 2506 quater, ultimo comma, cod.
civ., presuppone la prova, da parte del creditore, che i crediti vantati si
siano effettivamente originati in un periodo antecedente all’atto della
scissione.

Principio espresso all’esito del giudizio di appello promosso
dalla società derivata da scissione societaria, la quale impugnava la sentenza
di primo grado che l’aveva condannata al pagamento dei debiti contratti dalla
società scissa, ai sensi dell’art. 2506
quater,
ultimo comma, cod. civ.

(Massima a cura di Lorena Fanelli)




Sentenza del 26 gennaio 2021, n. 180 – Giudice designato: Dott. Davide Scaffidi

Il TAEG – in via
generale previsto per i contratti stipulati con il consumatore – è divenuto di
obbligatoria indicazione nei rapporti contrattuali con soggetti diversi dai
consumatori (calcolato secondo i medesimi criteri e ridenominato indicatore
sintetico di costo – ISC) per effetto della Circolare 29 luglio 2009, ma in
nessun caso può comunque trovare applicazione per i contratti di locazione
finanziaria: l’estensione è infatti dettata per “i mutui, le anticipazioni
bancarie, i contratti riconducibili alla categoria “altri finanziamenti” e le
aperture di credito in conto corrente offerte a clienti al dettaglio
”,
laddove il riferimento agli “altri finanziamenti” non può intendersi
comprensivo del leasing finanziario.

Dalla difformità tra
tasso indicato e il tasso effettivamente applicato non potrebbe mai derivare la
nullità parziale del contratto ai sensi dell’art. 117 TUB, ma potrebbe, se del
caso, ravvisarsi (in caso di significativa difformità) responsabilità civile
per inadempimento dell’obbligazione di trasparenza, ove l’utilizzatore alleghi
e provi, ad esempio, che qualora il tasso leasing fosse stato
correttamente rappresentato egli non avrebbe stipulato il contratto o lo
avrebbe stipulato altrove a più favorevoli condizioni.

Nel
caso in cui il tasso di interesse è individuato negozialmente mediante rinvio
alla legge, il medesimo è per definizione insuscettibile di ricadere nell’area
di illiceità.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso
da una s.r.l., in qualità di utilizzatrice, e da due persone fisiche, in
qualità di fideiussori, nei confronti della società concedente con la quale la
prima aveva concluso un contratto di
leasing,
al fine di domandare la rideterminazione dei rapporti dare/avere tra le parti
in ragione dei profili di invalidità del contratto e della dedotta violazione
delle regole di correttezza da parte della concedente.

A fondamento delle proprie pretese, parte attrice deduceva
l’indeterminatezza delle condizioni contrattuali discendente dall’omessa
indicazione del TAEG, dalla difformità tra tasso
leasing pattuito e indicato, con conseguente
applicabilità del tasso sostitutivo bot
ex art. 117 T.U.B., nonché
l’usurarietà del tasso di mora pattuito, da cui sarebbe derivata la gratuità
del negozio
ex art. 1815 c.c.

(Massime a cura di
Marika Lombardi)




Sentenza del 22 gennaio 2021 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

Il messaggio di posta elettronica (c.d. e-mail)
costituisce un documento elettronico che contiene la rappresentazione
informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti che, seppure privo
di firma, rientra tra le riproduzioni informatiche e le rappresentazioni
meccaniche di cui all’art. 2712 c.c. e, pertanto, forma piena prova dei fatti e
delle cose rappresentate se colui contro il quale viene prodotto non ne
disconosca la conformità ai fatti o alle cose medesime (conf. Cass. n.
11606/2018). Tale disconoscimento tuttavia deve essere chiaro, circostanziato
ed esplicito, dovendosi concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti
la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta (conf. Cass. n.
19155/2019).

I requisiti ai fini della protezione delle
informazioni aziendali possono essere così puntualizzati: a) novità, in
quanto l’informazione non deve essere generalmente nota ovvero agevolmente
accessibile da terzi; b) valore economico, idoneo ad attribuire un
vantaggio competitivo, che viene meno laddove l’informazione sia resa pubblica,
con la precisazione che tale requisito presuppone l’effettuazione di uno sforzo
economico per ottenere (ovvero duplicare) tali informazioni; c)
segretezza, intesa come sottoposizione delle informazioni a misure
ragionevolmente adeguate alla protezione, di ordine fisico (es. password)
e giuridico (es. non disclosure agreement), con la precisazione che la
segretezza non equivale ad una assoluta inaccessibilità (condizione, peraltro,
di difficile se non impossibile verificazione), bensì presuppone che
l’acquisizione delle informazioni segrete richieda da parte del terzo non
autorizzato sforzi non indifferenti, con la conseguenza che non possono essere
tutelate informazioni soggette, per loro natura ovvero in ragione di altre
circostanze, a diffusione incontrollata o incontrollabile.

Il difetto di allegazione in punto di
descrizione del know-how asseritamente sottratto è tale da precludere
non soltanto la concessione della tutela ex art. 98 c.p.i., ma finanche
la stessa identificazione delle informazioni riservate di cui si lamenta
l’altrui sfruttamento.

I principi sono stati espressi nel giudizio
promosso da una s.n.c. operante nel settore della carpenteria meccanica nei
confronti di una s.r.l. concorrente e dei due ex dipendenti, attuali soci e
amministratori della società concorrente convenuta. In particolare, parte
attrice lamentava la commissione a propri danni dei seguenti atti di
concorrenza sleale: i) lo sfruttamento indebito di
know-how tecnico (disegni e progetti) e
commerciale (tempi, offerti, prezzi) da parte degli ex dipendenti, già assunti
come impiegati tecnici, attuato mediante la sottrazione dei
file
contenuti nella casella aziendale
dropbox, finalizzato ad agganciare la
clientela dell’attrice; ii) lo sviamento di clientela, posto in essere in
costanza di rapporto di lavoro. Alla luce delle suddette circostanze, la
società attrice chiedeva l’inibitoria delle condotte anticoncorrenziali
descritte, con fissazione di penale per l’eventuale violazione e pubblicazione
del provvedimento, oltre che il risarcimento dei danni subiti.

(Massime a cura di Marika Lombardi)




Sentenza dell’8 gennaio 2021 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice estensore: Dott. Lorenzo Lentini

Il socio che abbia partecipato, con voto determinante, all’adozione di una deliberazione assembleare poi impugnata da un altro socio è portatore di un interesse ad intervenire in giudizio per appoggiare le ragioni della società al fine di evitare che siano posti nel nulla gli effetti di un atto alla cui formazione egli ha contribuito (e che deve, pertanto, presumersi conforme alle sue scelte), interesse non già di mero fatto, bensì giuridicamente qualificato dalla condizione stessa di socio, il quale, per un verso, è titolare di diritti partecipativi che lo abilitano (nei limiti proporzionali della sua quota) ad influenzare secondo i propri intenti il processo decisionale dell’assemblea, e, per altro verso, è sì vincolato alle deliberazioni da quest’ultima adottate, ma sul presupposto che dette delibere (se prese nel rispetto della legge e dello statuto) vincolino allo stesso modo anche gli altri soci (conf. Cass. n. 4929/2003).

Con riferimento alle società di persone, salvo quanto diversamente previsto dallo statuto, non trova applicazione la disciplina legale in materia di metodo assembleare, tipica delle società di capitali, dovendosi fare riferimento ai principi generali sugli atti negoziali plurilaterali. Al riguardo, l’eventuale censura della decisione dei soci fondata sull’identità del soggetto che ha curato l’invio ai soci degli “avvisi di convocazione” non può trovare accoglimento, trattandosi di comunicazione non prescritta dalla legge.

In tema di impugnazione della decisione di trasformazione della società, il disposto dell’art. 2500-bis c.c. (“eseguita la pubblicità di cui all’art. 2550 c.c., l’invalidità dell’atto di trasformazione non può più essere pronunciata”) osta all’accoglimento di ogni domanda tesa alla dichiarazione di nullità ovvero all’annullamento dell’atto di trasformazione oggetto dell’impugnazione medesima, i cui effetti sono da ritenersi irreversibili una volta che siano stati pacificamente eseguiti gli adempimenti pubblicitari previsti dalla disciplina in materia di trasformazione di società.

In ipotesi di impugnazione della decisione di trasformazione della società fondata sulla mancata condivisione con i soci di minoranza della perizia di stima ex art. 2500-ter c.c., tale impugnazione non può trovare accoglimento non sussistendo alcun obbligo di informazione preventiva in favore dei soci finalizzato all’assunzione della decisione.

In ipotesi di impugnazione della decisione di trasformazione della società fondata sulla pretesa nullità dell’atto di trasformazione per la violazione di norme imperative derivante dalla difformità dei valori della perizia di stima ex art. 2500-ter c.c. rispetto ai valori patrimoniali recepiti in bilancio, la domanda non può trovare accoglimento attesa la manifesta diversità di funzioni e tenuto conto della considerazione per cui si tratta di documenti sottoposti a criteri di redazione distinti.

Il socio che esprime voto favorevole alla propria nomina come amministratore non versa per ciò solo in una situazione di conflitto di interesse con la società rilevante ai fini dell’art. 2373 c.c.

In tema di deliberazioni di nomina (o revoca) dei componenti dell’organo amministrativo, deve rilevarsi che: a) ciascun socio è libero di nominare amministratori di propria fiducia e gradimento, senza che ciò comporti, di regola, il perseguimento di un interesse “personale antitetico a quello sociale”; b) gli amministratori nominati dall’assemblea della società debbono, a loro volta, adempiere il loro mandato nel rispetto di precisi obblighi e responsabilità stabiliti nell’interesse della società amministrata (conf. Trib. Brescia, 9 aprile 2008). Da ciò ne consegue che tali deliberazioni possono ritenersi viziate per abuso della regola di maggioranza solo in casi del tutto particolari (si pensi, esemplarmente, al caso di nomina di un amministratore del tutto privo delle necessarie conoscenze tecniche, ispirata al fine di avvantaggiare una impresa concorrente alla quale è interessato il socio di maggioranza, o di un amministratore in palese e insuperabile conflitto di interesse con la società, sempre al fine di perseguire un interesse extra sociale della maggioranza), essendo la nomina delle persone cui affidare l’amministrazione naturalmente rimessa alla volontà della maggioranza, trattandosi di scelta che poggia tipicamente sull’elemento fiduciario.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso con atto di citazione dai soci di minoranza di una società in accomandita semplice con cui impugnavano le decisioni adottate dai soci di maggioranza di trasformazione della società medesima da s.a.s. in s.r.l. e di nomina ad amministratore unico di uno dei soci della società, con voto unanime dei presenti. Gli attori precisavano di non avere presenziato alle decisioni oggetto di impugnazione e, quanto alle censure poste a fondamento della impugnazione medesima, contestavano:

a) l’invalidità delle decisioni impugnate per “mancanza assoluta di informazione” e vizi di convocazione, lamentando la mancata ricezione dell’avviso di convocazione nel termine di legge e “senza il rispetto dei 10 giorni previsto dallo statuto”, la convocazione da parte di soggetti “privi del potere di convocazione dell’assemblea in quanto soggetti non amministratori” e la mancata condivisione preventiva della perizia di stima ex art. 2500-ter c.c. “nonostante le richieste in tal senso” della minoranza;

b) l’annullabilità delle delibere a causa della sussistenza (i) di un “conflitto di interessi per interesse personale extrasociale ex art. 2373 c.c.” in capo al nuovo amministratore della società e agli altri soci di maggioranza, nonché (ii) dell’abuso posto in essere dalla maggioranza ai danni della minoranza, affermando che l’operazione, inutile e costosa, sarebbe stata ideata ed eseguita al solo fine di esautorare il precedente amministratore della s.a.s. e affidare la gestione della s.r.l. al socio in conflitto di interesse, nominato nuovo amministratore;

c) l’illiceità delle delibere per contrarietà a norme imperative “alla luce dei dati contabili posti alla base dell’assemblea” con cui i soci hanno successivamente approvato il bilancio di esercizio e deliberato la ricapitalizzazione della società, considerata la difformità dei valori di cui alla perizia di stima ex art. 2500-ter c.c. rispetto ai valori patrimoniali recepiti in bilancio, con la conseguenza che “occorrerà verificare a mezzo di c.t.u. se alla data di efficacia della trasformazione esistevano i presupposti di legge (art. 2500-ter c.c.) per procedere con la trasformazione”.

Dichiarata la nullità ovvero pronunciato l’annullamento delle delibere oggetto di impugnazione, gli attori domandavano il risarcimento dei danni conseguenti alle delibere.

La società si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto delle domande attoree. Si costituivano in giudizio altresì i soci di maggioranza spiegando intervento adesivo dipendente in favore della società, la cui ammissibilità veniva contestata dagli attori.

(Massime a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza dell’8 gennaio 2021 – Giudice designato: Dott. Lorenzo Lentini

In tema di sequestro
conservativo, il requisito del periculum in mora
può essere integrato, in via anche alternativa, sia da elementi oggettivi,
riguardanti la consistenza del patrimonio del debitore sotto il profilo
qualitativo (ad esempio la liquidità dei beni ivi inclusi) e quantitativo, in
rapporto all’entità del credito fatto valere, sia da elementi soggettivi,
connessi al comportamento del debitore, laddove quest’ultimo agisca con
modalità tali da accrescere il ragionevole rischio di depauperamento del
patrimonio ovvero da evidenziare la sua intenzione di sottrarsi all’adempimento.

I principi sono stati espressi
nel giudizio volto ad ottenere la concessione del sequestro conservativo nei
confronti dei sindaci di una s.p.a. per l’asserita responsabilità concorrente
di costoro in relazione a condotte omissive poste in essere dall’amministratore
unico della predetta società, conseguenti al mancato versamento di imposte e
contributi previdenziali.

(Massime a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 5 gennaio 2021 – Giudice designato: Dott. Stefano Franchioni

Ai sensi dell’art. 67, comma 2, l.f. sono revocati i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili compiuti entro sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento, se la curatela dimostra che l’altra parte conosceva lo stato d’insolvenza del debitore e, laddove alla domanda di concordato preventivo sia seguita la dichiarazione di fallimento, l’art. 69 bis, comma 2, l.f. prevede la retrodatazione del termine iniziale di decorrenza del c.d. “periodo sospetto” al giorno della pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese. 

Rappresentano circostanze che consentono di fondare l’accertamento della scientia decoctionis la mancanza di contestazioni da parte della debitrice circa l’esistenza dei crediti azionati, l’accettazione da parte della creditrice di pagamenti rateali del debito a fronte della disponibilità di un titolo giudiziale esecutivo, l’inadempimento della debitrice rispetto ai primi due piani di rientro accordati ed il pagamento del terzo piano di rientro mediante cambiali (conf. Cass. n. 24937/2007). 

La prova della scientia decoctionis non è ricavabile dalla mera esistenza di esecuzioni individuali in quanto non soggette a forme pubblicitarie. Siffatta prova può essere raggiunta attraverso la dimostrazione della diffusione di notizie sulla situazione di dissesto in cui versa una società di rilevanti dimensioni in considerazione dell’elevatissimo numero di procedure esecutive incardinate tra gli operatori del settore territorialmente contigui (conf. Cass. n. 5256/2010).

Principi espressi in caso di accoglimento della domanda ex art 67 l.f., con la quale il fallimento ha agito per la revoca di pagamenti eseguiti dalla società in bonis nel semestre anteriore alla pubblicazione nel registro delle imprese del ricorso per concordato preventivo c.d. “con riserva” presentato dalla società poi fallita. 

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Ordinanza del 23 dicembre 2020 – Giudice designato: Dott. Lorenzo Lentini

Nella società semplice, la mancata deliberazione in sede assembleare dell’esclusione del socio non costituisce circostanza idonea a determinare l’invalidità della decisione stessa (conf. Cass. n. 153/1998), in quanto, in assenza di formale previsione di un organo assembleare nella società semplice, a tal fine risulta idonea la raccolta delle singole manifestazioni di volontà dei soci (non direttamente interessati dal provvedimento) in numero sufficiente a formare la maggioranza richiesta per l’esclusione.

Nell’ipotesi in cui dalle circostanze concrete debba ritenersi che l’obbligazione di conferimento in capo ai soci dovesse essere eseguita mediante la concessione in godimento alla società di determinati beni, laddove detti beni siano concessi dagli stessi soci in affitto ad un terzo, pur essendo tale facoltà legittima ai sensi delle norme generali che regolano i rapporti di comodato (con cui i soci avevano concesso i beni oggetto del conferimento in godimento alla società), tale condotta appare astrattamente idonea ad integrare un’ipotesi di grave inadempienza del socio di cui al primo comma dell’art. 2286 c.c., pertanto suscettibile di fondare la conseguente decisione di esclusione. Infatti, se l’esclusione è consentita anche nei confronti di soci del tutto incolpevoli (salva l’ipotesi di “perimento del bene” per causa imputabile agli amministratori), a maggior ragione pare ammissibile l’esclusione nell’ipotesi in cui il perimento del bene (ovvero l’indisponibilità sopravvenuta del godimento da parte della società) derivi dall’esercizio di una facoltà del socio che, per quanto legittima, si risolva in un pregiudizio alla società, nella misura in cui rende meno agevole per quest’ultima il conseguimento dello scopo sociale (conf. Cass. n. 153/1998).

I principi sono stati espressi nel giudizio cautelare promosso con ricorso dai soci di una società semplice per l’opposizione, ai sensi dell’art. 2287 c.c., alla deliberazione con cui sono stati esclusi dalla società medesima.

Con il ricorso gli attori chiedevano la sospensione degli effetti della deliberazione di esclusione, lamentando: (i) da un lato, l’invalidità della decisione essendo stata assunta dalla maggioranza dei soci in spregio al metodo assembleare; e (ii) dall’altro, l’infondatezza nel merito della decisione, fondata sull’asserita distrazione da parte dei soci esclusi di beni sociali, costituiti da terreni agricoli (concessi in comodato alla società), mediante la loro concessione, da parte degli stessi soci esclusi, in affitto ad un terzo.

(Massime a cura di Marika Lombardi)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 23 dicembre 2020 – s.s., sospensione delibera esclusione soci




Decreto del 24 gennaio 2020 – Presidente relatore: Dott. Raffaele Del Porto

Lo strumento previsto dall’art. 2409 c.c. è apprestato dall’ordinamento per una pronta reazione a gravi irregolarità degli organi sociali purché dotate di attuale potenzialità lesiva e, avendo natura cautelare “lato sensu”, non può essere diretto a censurare fatti decisamente remoti (quali i compensi aggiuntivi ai componenti del c.d.a. in misura eccessiva e la mancata distribuzione di utili a favore dei soci) e radicalmente privi di potenzialità lesiva (quale l’accantonamento degli utili).

La censura, relativa alla mancata distribuzione degli utili, risulta palesemente estranea all’alveo delle irregolarità suscettibili di denuncia ex art. 2409 c.c., essendo tale decisione affidata all’assemblea della società e, pertanto, non costituisce “grave irregolarità” degli amministratori, i quali, al più, proponendo le modalità di impiego degli utili, contribuiscono in tale ruolo alla formazione della volontà assembleare.

L’accantonamento degli utili, volti ad incrementare il patrimonio della società (eventualmente in danno del socio, che si vede privato della relativa distribuzione), difetta palesemente della “potenzialità lesiva” tipica dell’art. 2409 c.c., disponendo il socio del rimedio dell’impugnazione della deliberazione per far valere la sua illegittimità (in sostanza, per abuso di potere). Si tratta di un rimedio impugnatorio specifico e diretto a caducare la deliberazione (asseritamente) viziata, idoneo, dunque, a costituire adeguato strumento di tutela (a differenza del ricorso alla denuncia ex art. 2409 c.c.) della propria pretesa.    

Principi espressi rigettando il ricorso ex art. 2409 c.c. volto ad ottenere la censura di vicende sociali relative a gravi irregolarità nella gestione della società risalenti nel tempo (circa 9 anni prima del deposito del ricorso). È stata infatti ritenuta la inammissibilità del ricorso al rimedio di cui all’art 2409 c.c. per il difetto di tempestiva adozione da parte del ricorrente di specifici mezzi di impugnazione idonei a contestare la validità delle delibere assembleari o ad invocare la responsabilità degli amministratori per pretese condotte illecite.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza dell’1 giugno 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Davide Scaffidi

L’interesse ad agire per la declaratoria di nullità di un titolo brevettuale altrui non può essere identificato in un mero interesse al rispetto della legalità di cui un qualsiasi soggetto si affermi titolare. Deve piuttosto ribadirsi che l’esperimento della domanda di nullità di una privativa industriale mira ad eliminare un titolo ostativo al libero esercizio dell’attività di impresa e, laddove esso sia effettivamente nullo, alla rimozione degli effetti ad esso connessi con la correlativa possibilità di condurre liberamente quella l’attività nel campo ricoperto dal titolo brevettuale dichiarato nullo (conf. Trib. Milano n. 10518/2015).

Ai sensi dell’art. 100 c.p.c. e dell’art. 122 c.p.i., l’interesse ad agire non può essere costituito da un interesse di mero fatto, non assistito dai requisiti di concretezza ed attualità, che sono comunemente richiesti dall’ordinamento affinché possa ritenersi integrata l’apposita condizione, che giustifica l’ammissibilità di una domanda di accertamento quale è per l’appunto la domanda di accertamento dell’invalidità di una privativa altrui. 

Ai sensi dell’art. 100 c.p.c. e dell’art. 122 c.p.i., deve ritenersi che l’interesse ad agire difetta quando l’attore promuove un’azione soltanto al fine di scongiurare l’eventualità di ulteriori e futuri procedimenti e la domanda di nullità dei titoli brevettuali avanzata dall’attrice è sorretta esclusivamente da generiche ed astratte esigenze di certezza dei rapporti tra le due imprese, non ponendosi, in concreto, il problema di dover eliminare una situazione di incertezza, obiettiva e pregiudizievole, in ordine alla portata di diritti e obblighi delle parti rispetto ai titoli brevettuali oggetto di censura. 

Principi espressi dichiarando il difetto di interesse ad agire della società in relazione alle domande proposte volte alla declaratoria di nullità di due brevetti di titolarità della società convenuta e dei quali l’inventore era stato il legale rappresentate della prima. La società attrice, non avendo allegato possibili profili di interferenza potenziale tra i manufatti realizzati dalla stessa e l’oggetto dei brevetti della convenuta, non ha, conseguentemente, dimostrato come i diritti vantati sui titoli brevettuali potessero costituire un ostacolo attuale e concreto al libero esercizio della propria libertà imprenditoriale.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)