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Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 24 luglio 2023, n. 1253 – contratti di leasing, usura, interessi moratori, TAEG, chiarezza e precisione del contenuto del contratto, clausola penale, non applicabilità della mediazione obbligatoria ex art. 5 D.Lgs. 28/2010 al leasing immobiliare

Anche ai contratti di leasing immobiliare può farsi applicazione del principio di diritto espresso per i contratti bancari secondo cui il tasso annuo effettivo globale (TAEG) non rientra nel novero dei tassi, prezzi e altre condizioni la mancata indicazione scritta dei quali rende parzialmente nullo il contratto bancario, con conseguente sostituzione automatica delle relative previsioni ex art. 117, D. Lgs. 385/1993. Ciò, in quanto il TAEG è solo un indicatore sintetico del costo complessivo dell’operazione, che comprende anche gli oneri amministrativi e di gestione. Nondimeno, l’applicazione, relativamente al TAEG, di condizioni più sfavorevoli di quelle pubblicizzate può dar luogo a responsabilità contrattuale o precontrattuale della banca, determinando da parte sua la violazione di regole di condotta (Cass. n. 4597/2023).

Anche gli interessi moratori sono suscettibili di essere qualificati come usurari. Pertanto, allorquando gli stessi siano convenuti a un tasso che superi la soglia di usura, non saranno dovuti. La misurazione di tale tasso-soglia deve effettuarsi sulla base del tasso medio statisticamente rilevato negli appositi decreti ministeriali vigenti all’epoca della stipula del relativo contratto. La dichiarazione del superamento del tasso-soglia di usura determina la non-debenza dei soli interessi del tipo di interessi che hanno infranto tale soglia sicché, ove l’interesse corrispettivo sia lecito e quello moratorio sia usurario, solamente quest’ultimo sarà illecito e non dovuto. In ogni caso, caduta la clausola degli interessi moratori, permane un danno per il creditore insoddisfatto, d’onde questi avrà diritto a percepire comunque interessi di mora nella stessa misura di quelli corrispettivi, ai sensi dell’articolo 1224 c.c., purché essi siano stati lecitamente convenuti (Cass. SS.UU. n. 19597/2020).

È indirizzo pacifico quello per cui le liti in materia di leasing immobiliare non siano soggette all’obbligo di esperire un tentativo di mediazione ai sensi dell’art. 5, D. Lgs. 28/2010.

I princìpi esposti sono stati espressi in relazione a una controversia riguardante la stipulazione, da parte di una società, di un contratto di leasing immobiliare. La società concedente, per mezzo di una mandataria, aveva agito in giudizio ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c. per ottenere il rilascio dell’immobile attesa l’intervenuta scadenza del contratto e il mancato esercizio, da parte dell’utilizzatrice, del relativo diritto di acquisto finale. Costituitasi nel giudizio, l’utilizzatrice eccepiva l’improcedibilità della domanda per omesso esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione. Nel merito, l’utilizzatrice eccepiva l’eccessività degli importi pattuiti a titolo di penale, dei quali chiedeva la riduzione, e denunciava l’usurarietà degli interessi moratori convenzionali. Accolta con ordinanza la domanda della concedente – seppur sul presupposto, non allegato da alcuna delle parti, dell’intervenuta risoluzione del contratto – e condannata l’utilizzatrice al rilascio dell’immobile, quest’ultima impugnava il provvedimento domandando il rigetto delle domande proposte in prime cure e, in via subordinata, la riduzione della penale ai sensi dell’art. 1384 c.c., reiterando altresì la propria eccezione di usurarietà degli interessi di mora. Nel dettaglio, l’impugnante spiegava plurime doglianze e, segnatamente: (i) reiterava l’eccezione preliminare di omesso esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione; (ii) denunciava la violazione da parte del Giudice di prime cure del principio dispositivo, nella misura in cui questi aveva pronunciato la risoluzione del contratto pur in assenza di specifica domanda; (iii) l’usurarietà degli interessi moratori convenuti nel contratto in contesa; (iv) l’assenza di una chiara e precisa indicazione del TAEG nel testo del contratto; (v) l’eccessività della penale pattuita, della quale la concedente avrebbe preannunciato di volersi valere in un separato giudizio. La Corte, respinta l’eccezione preliminare e rettificata la decisione di prime cure dichiarando l’estinzione del contratto (non per risoluzione, bensì) per naturale scadenza, ha comunque rigettato le doglianze di merito ritenendo non provato né allegato il pagamento di interessi moratori da parte dell’utilizzatore, rilevando la non contestazione della scadenza del contratto e la genericità delle allegazioni fattuali in materia di usurarietà degli interessi.

(Massime a cura di Leonardo Esposito)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 22 luglio 2023 – s.s., esclusione del socio




Corte di Appello di Brescia, sentenza del 20 luglio 2023, n. 1241 – credito ai consumatori, mediazione obbligatoria, TAEG, piano di ammortamento c.d. “alla francese”, anatocismo

Il credito ai consumatori è regolato dagli artt. 121 ss. del Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (D. lgs. 1° settembre 1993, n. 385 – c.d. T.U.B.) ed è quindi riconducibile alla materia dei “contratti bancari e finanziari” di cui all’art. 5, comma 1 bis, del D. lgs. 4 marzo 2010, n. 28 (nella formulazione vigente ratione temporis e sostanzialmente “trasfusa” dal D. lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, c.d. “Riforma Cartabia”, nell’art. 5, comma 1, del citato D. lgs. 4 marzo 2010, n. 28) per la quale sussiste l’obbligo di esperimento della mediazione obbligatoria. L’insegnamento giurisprudenziale è, infatti, orientato nel senso di ritenere il riferimento ai “contratti bancari e finanziari” come un chiaro richiamo, non altrimenti alterabile, alla disciplina dei contratti bancari contenuta nel codice civile e nel T.U.B., nonché alla contrattualistica involgente gli strumenti finanziari di cui al D. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, c.d. T.U.F. (cfr. Cass. n. 30520/2019; Cass. n. 15200/2018).

In un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, il mancato esperimento della mediazione obbligatoria va eccepito, a pena di decadenza, ovvero rilevato dal giudice, entro la prima udienza ed a seguito della decisione ex art. 648 o 649 c.p.c. circa la concessione ovvero la sospensione dell’esecuzione provvisoria. Ove l’improcedibilità non sia eccepita o rilevata entro tale termine è da intendersi sanata.

Il TAEG (o ISC) è solo un indicatore sintetico del costo complessivo dell’operazione di finanziamento, che comprende anche gli oneri amministrativi di gestione e, come tale, non rientra nel novero dei tassi, prezzi ed altre condizioni la cui mancata pattuizione nella forma scritta è sanzionata con la nullità, seguita dalla sostituzione automatica ex art. 117 del D. lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (Cass. n. 4597/2023).

Nei contratti di mutuo ad ammortamento c.d. alla francese caratterizzati dalla previsione di rate ciascuna delle quali è composta da una quota di capitale, via via crescente nel tempo e da una quota di interessi, via via decrescente, si deve escludere di poter ritenere aprioristicamente sussistente il fenomeno anatocistico in quanto, la previsione di un simile piano restitutorio configura una mera modalità di adempimento delle due obbligazioni poste a carico del mutuatario e, segnatamente, la restituzione della somma ricevuta in prestito e la corresponsione degli interessi correlati al suo godimento (cfr. Cass. n. 11400/2014).

Princìpi espressi nell’ambito di un giudizio di appello promosso da due mutuatari-consumatori i quali, inter alia, contestavano (i) che il giudice di prime cure avesse erroneamente escluso la necessità di esperire il tentativo di mediazione obbligatoria nell’ambito di una controversia inerente ad un contratto disciplinato dal T.U.B. (pur non avendo eccepito tempestivamente tale circostanza); (ii) che il contratto di finanziamento sarebbe stato nullo attesa l’erronea indicazione del TAEG; (iii) che la previsione di un ammortamento c.d. alla francese determinasse ex se un’implicita ed occulta capitalizzazione degli interessi a carico del mutuatario in violazione del divieto di anatocismo ex art. 1283 c.c.

(Massime a cura di Giulio Bargnani)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 19 luglio 2023, n. 686 – consorzio, cause e procedimento di esclusione del consorziato

Ove il consorzio non sia costituito in forma di società in forza dell’art. 2615-ter c.c., la normativa che presiede all’impugnazione delle delibere delle società di capitali e delle cooperative per azioni non può essere trasposta automaticamente al settore dell’impugnazione delle delibere consortili. In particolare, all’azione cautelare volta a ottenere la sospensione dell’efficacia della delibera di esclusione dal consorzio, si applica la disciplina di cui all’art. 700 c.p.c., secondo il procedimento delineato dall’art. 2606, c. 2, c.c., e non quella prevista dall’art. 2378, c. 3, c.c. (cfr. Trib. Matera 10.11.2001).

Tra le delibere impugnabili entro il termine decadenziale di trenta giorni di cui all’art. 2606 c.c., sebbene i riferimenti testuali della disposizione menzionata alla “maggioranza dei consorziati” e ai “consorziati assenti” evochino lo schema assembleare, rientrano anche le deliberazioni assunte dal consiglio direttivo, come sembra ragionevolmente intendersi dalla genericità della rubrica di tale articolo e dal richiamo, al primo comma, alle delibere relative “all’attuazione dell’oggetto del consorzio”.

La comunicazione della delibera di esclusione svolge la mera funzione di informare il consorziato delle ragioni ritenute in concreto dall’organo deliberante giustificative dell’esclusione; rispetto a tali motivazioni, il giudice dovrà verificare la coerenza con le previsioni di legge e di statuto, oltre ad accertarne la congruità (cfr. Trib. Venezia, 2.2.2023).

Princìpi espressi in un’ordinanza di rigetto di una istanza cautelare, promossa in pendenza di una causa di merito, finalizzata alla sospensione dell’efficacia della decisione di esclusione del ricorrente da un consorzio pronunciata dal consiglio direttivo del consorzio stesso. Il Tribunale ha rigettato il ricorso per l’inosservanza del termine di decadenza di cui all’art. 2606, c. 2, c.c., rilevando altresì la carenza del fumus boni iuris e del periculum in mora nel caso di specie.

(Massime a cura di Giovanni Gitti)




Tribunale di Brescia, sentenza del 18 luglio 2023, n. 1840 – impugnazione delibera approvazione bilancio

Qualora, in pendenza di un giudizio di impugnazione di una delibera di approvazione di un bilancio di esercizio, la società formi un nuovo bilancio che recepisce le cesure di parte attrice e lo stesso venga approvato dall’assemblea dei soci, si determina la cessazione della materia del contendere fra le parti. Tale circostanza deve essere valutata, secondo il criterio della soccombenza virtuale, ai soli fini della regolazione delle spese di lite.

È configurabile, accanto alla mediazione ordinaria, una mediazione negoziale cd. atipica, fondata su contratto a prestazioni corrispettive, con riguardo anche ad una soltanto delle parti interessate (cd. mediazione unilaterale), qualora una parte, volendo concludere un singolo affare, incarichi altri di svolgere un’attività volta alla ricerca di una persona interessata alla sua conclusione a determinate e prestabilite condizioni. L’esercizio dell’attività di mediazione atipica, quando l’affare abbia ad oggetto beni immobili o aziende, ovvero, se riguardante altre tipologie di beni, sia svolta in modo professionale e continuativo, resta soggetta all’obbligo di iscrizione all’albo previsto dall’art. 2 della l. n. 39 del 1989, ragion per cui, il suo svolgimento in difetto di tale condizione esclude, ai sensi dell’art. 6 della medesima legge, il diritto alla provvigione (cfr. Cass. SS.UU. 19161/2017). La nullità di tale contratto comporta l’insussistenza del diritto alla provvigione del mediatore non iscritto, con conseguente necessità di non indicare nel (e, se indicato, di escludere dal) bilancio la relativa voce di debito.

A fronte dell’emissione da parte di uno studio professionale di note proforma relative alle prestazioni eseguite (che risultano essere state regolarmente registrate nella contabilità), il bilancio della società debitrice deve tener conto di tali registrazioni e riportare nel bilancio il debito corrispondente. 

In assenza della prova del conferimento di specifico incarico professionale e dell’effettiva esecuzione dello stesso, la società non può esporre in bilancio alcun debito verso un professionista per il pagamento di tali prestazioni; se esposto tale debito deve essere stornato.

Il contributo previdenziale integrativo esposto in una nota-proforma emessa da un professionista (nella fattispecie a favore di Inarcassa) non è credito cedibile nell’ipotesi in cui, a fronte del pagamento di tale credito, la fattura venga emessa dalla cessionaria che è una società non iscritta al relativo Albo bensì al Registro delle Imprese (nella fattispecie con oggetto sociale l’acquisto e la vendita, la permuta e la locazione di beni immobili ed altre attività tipicamente di stampo imprenditoriale). Invero, il contributo integrativo viene riscosso dal professionista iscritto ad una cassa di previdenza e da questi periodicamente riversato all’ente di appartenenza, unitamente al contributo soggettivo calcolato sul reddito professionale (adempimento a cui non è tenuta la società cessionaria). Pertanto, tale importo non deve essere esposto a bilancio quale credito e, se esposto, deve essere stornato.

Princìpi espressi agli esiti di un giudizio in cui sono state parzialmente accolte le censure mosse da alcuni soci di una s.r.l. dirette a ottenere la declaratoria di nullità o la pronuncia di annullamento di due delibere dell’assemblea dei soci di approvazione di un bilancio di esercizio (la prima aveva adottato il bilancio, mentre la seconda aveva approvato una versione emendata del medesimo bilancio al fine di recepire alcune delle censure formulate da parte attrice).

(Massime a cura di Giada Trioni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 18 luglio 2023, n. 1843 – uso non autorizzato del marchio, contratto di licenza d’uso

L’art. 1591 c.c., non rappresenta un principio generale, almeno riferibile ai beni immateriali, poiché manca una pluralità di norme dalle quali potrebbe emergere l’esistenza di una norma generale che le accomuna. Inoltre, tale norma non può trovare applicazione analogica al contratto di licenza d’uso di un marchio per due ragioni principali. In primo luogo, nel contratto di licenza d’uso, che riguarda lo sfruttamento di diritti economici su beni immateriali, manca la ratio del contratto di locazione o affitto, che richiede la restituzione della cosa materiale come presupposto per concedere il diritto di sfruttamento, ben potendo coesistere l’utilizzo del medesimo bene immateriale contemporaneamente in capo a più soggetti. In secondo luogo, l’applicabilità analogica dell’art. 1591 c.c. è ammissibile solo quando la fattispecie non è disciplinata da una norma specificamente prevista, purché non sussista incompatibilità con la normativa speciale. (cfr. Cass. n. 2306/200). Nel caso del contratto di licenza d’uso, l’ordinamento fornisce una tutela speciale contro l’utilizzo non autorizzato del marchio. 

In particolare, nel contratto di licenza d’uso, avente ad oggetto lo sfruttamento di diritti economici su beni immateriali, al fine di impedire che l’utilizzo della privativa industriale si protragga, in modo non autorizzato, oltre i termini in cui lo sfruttamento è consentito, è prevista la possibilità per l’avente diritto di promuovere l’azione inibitoria ovvero l’azione risarcitoria ex art. 125 c.p.i. 

Principi espressi nell’ambito del giudizio promosso dal fallimento di una società a responsabilità limitata, che ha convenuto in giudizio una società per azioni lamentando l’inadempimento negoziale del contratto di licenza d’uso e l’utilizzo indebito di segni identici o simili a quello oggetto di privativa. In particolare, a fondamento della propria domanda, l’attrice deduceva di essere divenuta titolare del marchio a seguito della modifica dell’accordo di licenza d’uso, riconoscendo alla società convenuta l’esclusiva nello sfruttamento del marchio per una durata di dieci anni, verso pagamento di royalties.

(Massime a cura di Simona Becchetti)




Tribunale di Brescia, sentenza del 18 luglio 2023, n. 1841 – contatto di appalto pubblico, raggruppamento temporaneo di imprese, inadempimento adempimento contrattuale, restituzione dell’anticipazione contrattuale prevista dall’art. 35 comma 18 del D.lgs. 50/2016 nell’ipotesi dell’impossibilità di eseguire i lavori, compensazione

In presenza di un mandato collettivo con rappresentanza da parte di un raggruppamento temporaneo di imprese (RTI) per la realizzazione di un appalto, l’appaltante è liberata dagli obblighi di pagamento verso le singole società partecipanti al RTI qualora abbia versato quanto dovuto alla mandataria-rappresentante. A tal fine, non rilevano i rapporti interni ed eventuali inadempienze tra i partecipanti al RTI. 

L’anticipazione contrattuale prevista dall’art. 35, comma 18, del decreto legislativo n. 50/2016, ha l’esclusiva natura e funzione di finanziare l’esecuzione dei lavori oggetto dell’appalto, con la conseguenza che se viene meno la possibilità di eseguire i lavori, come nel caso del sopravvenuto fallimento della società appaltatrice, l’impresa estromessa dall’esecuzione dell’appalto non ha alcun diritto di trattenere detta anticipazione ed è consentito all’appaltante, al fine di recuperare l’importo erogato, operare la compensazione tra tale suo credito e il debito per i lavori fino a quel momento svolti.

Le spese di giudizio sostenute dal terzo chiamato in garanzia, una volta che sia stata rigettata la domanda principale, vanno poste a carico della parte che, rimasta soccombente, abbia provocato e giustificato la chiamata in causa, trovando tale statuizione adeguata giustificazione nel principio di causalità, che governa la regolamentazione delle spese di lite, anche se l’attore soccombente non abbia formulato alcuna domanda nei confronti del terzo, salvo che l’iniziativa del chiamante si riveli palesemente arbitraria (cfr. Cass. n. 10364/2023).

Princìpi espressi agli esiti di un giudizio in cui è stata respinta la domanda avanzata dal fallimento di una società, facente parte quand’era in bonis (quale mandante) di un raggruppamento temporaneo di imprese (RTI) che si era aggiudicato un appalto, con cui si chiedeva di condannare la committente a pagare direttamente al fallimento le somme risultanti dallo stato di avanzamento dei lavori, contestando la compensazione operata dalla committente tra tale debito e il credito relativo alla restituzione dell’anticipazione contrattuale disposta a favore del RTI e versata alla mandataria.

(Massime a cura di Giada Trioni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 14 luglio 2023, n. 1825 – titolarità del marchio d’impresa, trasferimento del marchio, “preuso” del marchio

Solo colui che si vanta avente diritto alla registrazione può contestare la titolarità del marchio in capo a colui che lo ha originariamente registrato. Analogamente, la registrazione del trasferimento del marchio può essere contestata solo da colui che prova di esserne titolare.

Il fatto che determinati negozi giuridici siano conclusi al fine di eludere le ragioni dei creditori, non costituisce una causa di nullità dei contratti stessi ma, al più, motivo di revocatoria.

La scadenza di uno (solo) dei (molteplici) marchi che declinano, o ricomprendono, un determinato nome non determina la dismissione di tutti i marchi connessi a quel nome, ad opera del soggetto titolare di altri marchi che declinano lo stesso termine.

Non costituisce “preuso” di un marchio, ossia l’utilizzo di un marchio non registrato prima della sua registrazione ad opera di terzi, il suo impiego non per contraddistinguere i propri prodotti ma in ragione di licenza o su autorizzazione della licenziante. Infatti, per “preuso” bisogna intendersi l’utilizzo di un marchio come segno distintivo dei propri prodotti o servizi e, non di quelli di terzi.

Principi espressi nell’ambito di un procedimento volto a far accertare e dichiarare la contraffazione di marchi d’impresa con conseguente richiesta di ordine di inibitoria, condanna al risarcimento dei danni e pubblicazione della sentenza.

(Massime a cura di Edoardo Compagnoni)




Tribunale di Brescia, sentenza dell’11 luglio 2023, n. 1791 – s.p.a., compenso dell’amministratore, eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. 

Nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, il sinallagma alla cui tutela è predisposto il rimedio di cui all’art. 1460 c.c. va considerato separatamente per ogni singola prestazione in cui si articola il contratto perché l’esecuzione ha luogo per coppie di prestazioni da eseguirsi contestualmente e con funzione corrispettiva. Ogni prestazione eseguita costituisce un adempimento integrale e completo cui deve conseguire una controprestazione corrispondente, senza possibilità di sollevare un’eccezione di inadempimento, che non esiste in relazione a quella coppia specifica di prestazione-controprestazione. Ne deriva che l’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 c.c. può essere utilmente fatta valere solo allorché attenga temporalmente e logicamente alla prestazione di riferimento, rispetto alla controprestazione richiesta all’eccipiente (cfr. Cass. n. 4225/2022 e Cass. n. 7550/2012)

In materia di compenso spettante all’amministratore di società di capitali, esiste un nesso sinallagmatico di tipo contrattuale (sia pure originato all’interno di un rapporto di natura associativa) tra adempimento dei doveri dell’amministratore (la cui violazione è altresì fonte di responsabilità) e diritto al relativo compenso, pertanto la società può sollevare l’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 c.c. per opporsi alla richiesta del suo ex amministratore di ottenere il pagamento del compenso, allegando l’inadempimento o il non corretto adempimento degli obblighi dal medesimo assunti. In tal caso il giudice è tenuto a procedere ad una valutazione comparativa dei comportamenti delle parti contrapposte, tenendo conto non solo dell’elemento cronologico, ma anche dei rapporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute e della loro incidenza sulla funzione economico-sociale del contratto (cfr. Cass. n. 29252/2021; Cass. n. 12978/2002). Ne consegue che il rifiuto della società di pagare il compenso dell’ex amministratore sollevando l’eccezione di inadempimento è ammissibile limitatamente al corrispettivo maturato nel periodo relativamente al quale sussistono i lamentati inadempimenti.

Princìpi espressi nell’ambito di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo promosso da una società per contestare la richiesta di pagamento del compenso formulata in sede monitoria dal suo ex amministratore sollevando l’eccezione di cui all’art. 1460 c.c. L’opposizione è stata rigettata in quanto gli inadempimenti allegati dall’opponente consistevano in condotte realizzate nel corso dell’esercizio precedente rispetto a quello in cui erano maturati i compensi oggetto di ingiunzione, sicché è stato ritenuto insussistente il rapporto sinallagmatico tra detti inadempimenti e l’obbligazione di pagamento degli emolumenti azionati dall’ex amministratore. 

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni) 




Tribunale di Brescia, sentenza del 5 luglio 2023, n. 1687 – responsabilità organi societari, risarcimento del danno

L’annotazione nel registro IVA acquisti di fatture false, la successiva presentazione di crediti IVA inesistenti, nonché il loro (parziale) utilizzo in compensazione integrano condotte di chiara rilevanza penale e gravi violazioni dei doveri che incombono sugli amministratori anche in vista della conservazione dell’integrità del patrimonio sociale. Pertanto, dei danni alla società e ai creditori sociali che ne siano conseguenza ne sono responsabili indubbiamente gli amministratori che hanno in concreto posto in essere tali operazioni.

Con riferimento al professionista incaricato dalla società della materiale trasmissione della dichiarazione IVA, lo stesso può concorrere nell’illecito dell’amministratore nel caso in cui sia consapevole dell’inesistenza del credito attestato o nel caso in cui, in presenza di circostanze tali da concretizzare seri indizi di insussistenza delle operazioni dichiarate, non abbia colpevolmente rilevato tale inesistenza, pertanto, nell’ipotesi in cui la propria condotta, quantomeno colposa, abbia concorso – rendendola possibile – all’operazione illecita posta in essere dall’organi amministrativo. Ciò in considerazione del fatto che, l’apposizione del visto di conformità e l’accertamento demandato al professionista ai sensi dell’art. 35 d. lgs. n. 241/1997 non può avere carattere meramente formale – pena lo svuotamento delle norme in esame e la completa inutilità del controllo richiesto finalizzato a semplificare le procedure legate alla richiesta dei rimborsi IVA e ad agevolare l’amministrazione finanziaria nella selezione delle posizioni da controllare – implicando lo stesso la verifica della regolare tenuta e conservazione delle scritture contabili obbligatorie ai fini delle imposte sui redditi e delle imposte sul valore aggiunto, della corrispondenza dei dati esposti nelle dichiarazioni alle risultanze di tali scritture contabili e di queste ultime alla relativa documentazione.

In materia di azione di responsabilità promossa ex artt. 2393 e ss. c.c. contro una pluralità di soggetti, la transazione raggiunta tra la società (o la curatela ex art. 146 L.F.) e alcuni tra i convenuti riguardante le quote di debito delle parti transigenti ha l’effetto di sciogliere, per tali quote, anche il vincolo di solidarietà passiva e, dunque, il debito, dei convenuti rimasti in causa (la cui esposizione va, pertanto, ridotta in misura corrispondente alla quota di coloro che hanno transatto), sì da rendersi necessario determinare le quote di responsabilità dei vari condebitori solidali mediante accertamento che deve necessariamente riferirsi, in via incidentale, anche alle condotte tenute dalle parti transigenti (cfr. Cass. n. 7907/2012).

La natura di debito di valore dell’obbligazione risarcitoria impone che sui relativi importi vadano conteggiati gli interessi compensativi del danno derivante dal mancato tempestivo godimento dell’equivalente pecuniario del bene perduto. Tali interessi decorrono a partire dalla produzione dell’evento di danno sino al tempo della liquidazione e si calcolano sulla somma via via rivalutata nell’arco del tempo suddetto e non sulla somma già rivalutata.

Principi espressi nell’ambito del giudizio di promosso dal fallimento a tutela del credito risarcitorio vantato ex artt. 146 L.F., 2476 e 2043 c.c. nei confronti degli ex amministratori della società fallita, in concorso con i relativi professionisti, in conseguenza degli illeciti di natura fiscale contestati agli stessi (indebita compensazione di un inesistente credito IVA) che hanno comportato l’irrogazione in capo alla fallita di una sanzione amministrativa da parte dell’amministrazione finanziaria e dell’ente previdenziale.

(Massime a cura di Giorgio Peli)