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Tribunale di Brescia, sentenza del 13 novembre 2023, n. 2895 – s.r.l., società a partecipazione pubblica, amministratore società, revoca amministratore, spoil system, gestione commissariale, giusta causa di revoca

Nel caso di società partecipate da ente pubblico, ferma l’autonomia tra i due soggetti (non essendo consentito all’ente di incidere unilateralmente sul suo svolgimento e sull’attività della società mediante l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare proprio a mezzo dei membri di nomina pubblica presenti negli organi della società), allorquando l’ente pubblico nomina e revoca gli amministratori della società, non esercita un potere a titolo proprio ma esercita l’ordinario potere dell’assemblea, ad essa surrogandosi, quale organo della società, per autorizzazione della legge o dello statuto (cfr. Cass. S.U. n. 7799/2005 e Cass. S.U. n. 16335/2019).

In tema di spoil system, il potere di revoca, esercitabile ad nutum al mutare del “quadro politico” dovuto a “nuove elezioni”, degli amministratori di una società controllata (ovvero di coloro che ne rivestono la carica apicale) si fonda sul rapporto di natura fiduciaria, fondato sull’intuitus personae. Infatti nella designazione, ancorché subordinata al possesso di determinati requisiti oggettivi, ha valenza preponderante la valutazione della attitudine dei prescelti a conformare le loro scelte imprenditoriali all’indirizzo politico espresso dall’ente, e di perseguire, secondo le priorità e le modalità da questo indicate, gli obiettivi di gestione della partecipata che l’amministrazione comunale si propone di raggiungere. Allorché, a seguito di nuove elezioni, venga a mutare il quadro politico- amministrativo, il rapporto fiduciario viene necessariamente meno. Attraverso le disposizioni in esame, il legislatore ha dunque inteso farsi carico della necessità della nuova amministrazione di poter contare sull’immediata disponibilità di soggetti che si rendano interpreti delle sue nuove linee di indirizzo e delle diverse finalità della gestione, senza dover sottostare ai tempi lunghi occorrenti per verificare se gli amministratori in carica, “eredità” del precedente governo cittadino, siano in grado di corrispondere a tali mutate esigenze (cfr. Cass. S.U. n. 16335/2019).

Non trova applicazione il c.d. spoil system qualora il provvedimento di revoca dell’amministratore venga emesso non già dal nuovo sindaco eletto, bensì dal commissario prefettizio nominato a seguito di sospensione degli organi comunali, in ragione delle “gravi inadempienze” riscontrate nell’operato dell’amministratore. In tale fattispecie, trovano infatti applicazione le ordine regole in tema di revoca dell’amministratore di società di capitali le quali prevedono che le ragioni che integrano la giusta causa, ai sensi dell’art. 2383, comma 3, c.c. devono essere specificamente enunciate nella delibera assembleare senza che sia possibile una successiva deduzione in sede giudiziaria di ragioni ulteriori (cfr. Cass. n. 21495/2020 e Cass. n. 2037/2018).

La sussistenza della giusta causa di revoca comporta l’accoglimento della domanda riconvenzionale avanzata dalla società convenuta, avente ad oggetto la ripetizione del compenso anticipato pagato all’amministratore revocato e dallo stesso indebitamente trattenuta.

I principi sono stati espressi nel rigetto di una domanda volta ad accertare l’assenza di giusta causa di un amministratore di una società totalitariamente partecipata da un comune i cui organi comunali erano stati sciolti, con contestuale nomina di un commissario prefettizio.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 3 ottobre 2023, n. 2466 – s.r.l., amministratore società, determinazione del compenso, responsabilità amministratore, mala gestio, condotte distrattive, inadempimento dell’amministratore e perdita del diritto al compenso

Il verbale di assemblea ordinaria di una società di capitali (che nel caso di specie ha determinato il compenso dell’amministratore) non rogato da notaio ha comunque efficacia probatoria poiché documenta quanto avvenuto in sede di assemblea (data in cui si è tenuta, identità dei partecipanti, capitale da ciascuno rappresentato, modalità e risultato delle votazioni, eventuali dichiarazioni dei soci) in funzione del controllo delle attività svolte anche da parte dei soci assenti e dissenzienti; non trattandosi però di atto dotato di fede privilegiata, i soci possono far valere eventuali sue difformità rispetto alla realtà effettuale con qualsiasi mezzo di prova; tuttavia, se i soci non assolvano a detto onere probatorio su di essi incombente, non possono mettere in discussione quanto documentato dal verbale (cfr. Cass. n. 33233/2019).

Qualora si contesti la veridicità di fatti e dichiarazioni che nel verbale di delibera assembleare ordinaria (non rogato da notaio) si attestino avvenuti, non deve essere proposta querela di falso, non trattandosi di atto dotato di fede privilegiata e potendo il documento essere contestato con libertà di mezzi.

La delibera di revoca di una precedente deliberazione, da un lato, implica e postula l’esistenza e l’efficacia dell’atto revocato, d’altro lato, che tale provvedimento non può spiegare effetti che per il futuro.

La delibera assembleare di riduzione del compenso annuo di un liquidatore di società di capitali, in assenza di accettazione da parte del liquidatore stesso, non può operare retroattivamente con riferimento a periodi antecedenti la data della decisione dei soci, non potendo incidere negativamente su diritti già acquisiti medio tempore dal liquidatore (cfr. Trib. Roma 16 aprile 2021).

Avendo la responsabilità dell’amministratore verso la società natura contrattuale, a fronte di somme o beni fuoriusciti dall’attivo della società (siano essi utili, compensi erogati, strumenti di lavoro, beni aziendali in genere), quest’ultima, nell’agire per il risarcimento del danno, può limitarsi ad allegare l’inadempimento, consistente nella distrazione di dette risorse, mentre compete all’amministratore la prova del corretto adempimento e dunque della destinazione del patrimonio all’estinzione di debiti sociali oppure allo svolgimento dell’attività sociale (cfr. Cass. n. 12567/2021).

La natura di debito di valore dell’obbligazione risarcitoria impone che su tali importi vengano conteggiati gli interessi compensativi del danno derivante dal mancato tempestivo godimento dell’equivalente pecuniario del bene perduto e decorrono dalla produzione dell’evento di danno sino al tempo della liquidazione essendo calcolati sulla somma via via rivalutata nell’arco di tempo suddetto e non sulla somma già rivalutata (cfr. Cass. n. 4791/2007).

In tema di compenso spettante all’amministratore di società a responsabilità limitata, la società può far valere quale eccezione riconvenzionale, ai sensi degli artt. 1218 e 1460 c.c., l’inadempimento o l’inesatto adempimento degli obblighi assunti dall’amministratore in osservanza dei doveri imposti dalla legge o dall’atto costituivo, la cui violazione integra la responsabilità ex art. 2476, comma 1, c.c., venendo in rilievo non il rapporto di immedesimazione organica, bensì il nesso sinallagmatico di tipo contrattuale tra adempimento dei doveri e diritto al compenso (cfr. Cass. n. 29252/2021 e Cass. n. 40880/2021).

Nei contratti a prestazioni corrispettive, l’eccezione “inadimplenti non est adimplendum” è soggetta al principio di buona fede e correttezza sancito dall’art. 1375 c.c., in senso oggettivo, che impone di verificare se la condotta della parte inadempiente, avuto riguardo all’incidenza sulla funzione economico-sociale del contratto, abbia influito sull’equilibrio sinallagmatico dello stesso, in rapporto all’interesse perseguito dalla parte, e perciò abbia legittimato, causalmente e proporzionalmente, la sospensione dell’adempimento dell’altra parte, l’eccezione in parola può, in concreto, essere ritenuta idonea a paralizzare il diritto al compenso dell’amministratore solo ove fondatamente basata su fatti collegati al periodo di carica (cfr. App. Milano n. 25.5.2021 e Trib. Milano 23.9.2020).

I princìpi sono stati espressi nel parziale accoglimento di una domanda promossa nei confronti dell’amministratore unico a seguito di numerosi atti di mala gestio, volta ad ottenerne la condanna al risarcimento dei danni cagionati alla società.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 16 maggio 2023, n. 1174 – s.r.l., dimissioni dell’amministratore, revoca dell’amministratore, assenza di giusta causa, risarcimento del danno

L’atto di dimissione dall’incarico di amministratore di società di capitali, poiché suscettibile di iscrizione nel registro delle imprese, deve assumere carattere rituale; la volontà di rinunciare all’incarico, dunque, deve essere espressa in atto scritto debitamente trasmesso alla società, ovvero risultare da una dichiarazione contenuta in un verbale dell’assemblea dei soci o del consiglio di amministrazione. La rinuncia non può essere desunta per fatti concludenti, ovvero ancora da dichiarazioni verbali da provarsi per testimoni.  

Nella società a responsabilità limitata, se l’amministratore è nominato a tempo indeterminato, in caso di revoca deliberata dall’assemblea in assenza di giusta causa, ai fini della sussistenza di un diritto al risarcimento del danno non si applica l’art. 2383, comma terzo, c.c. (non richiamato direttamente, del resto, dall’art. 2475 c.c.), ma l’art. 1725, comma secondo, c.c., sicché la società deve risarcire il danno all’amministratore revocato solo in mancanza di un congruo preavviso. 

Diversamente opinando, la società non potrebbe revocare l’amministratore nominato a tempo indeterminato in assenza di giusta causa senza l’insorgere di un contestuale obbligo di risarcimento del danno, in spregio al carattere fiduciario che contraddistingue tale incarico (cfr. Cass. n. 9482/1999). In mancanza di un’espressa norma in materia di società a responsabilità limitata che disciplini la fattispecie, bisogna dunque ricorrere – in virtù del condiviso carattere fiduciario dei due incarichi – all’applicazione analogica della disciplina in tema di risarcimento del danno conseguente alla revoca del mandato a tempo indeterminato (cfr. Cass. n. 9482/1999 e Cass. n. 3312/2000). 

Princìpi espressi nel contesto di un’azione di accertamento dell’illegittimità della delibera di revoca di un amministratore di società a responsabilità limitata nominato a tempo indeterminato e di condanna al risarcimento del danno per mancanza di giusta causa ai sensi dell’art. 2383, comma terzo, c.c. Il Tribunale ha accolto solo parzialmente la domanda di condanna, individuando però, quale fondamento dell’obbligo di risarcimento, non l’asserita assenza di una giusta causa di revoca ai sensi dell’art. 2383, comma terzo, c.c., bensì l’improvvisa interruzione del rapporto conseguente alla mancanza di un congruo termine di preavviso ex art. 1725, comma secondo, c.c. 

(Massime a cura di Giovanni Gitti) 




Tribunale di Brescia, ordinanza del 6 febbraio 2023 – s.r.l., clausola compromissoria, azione di sospensione dell’esecuzione della delibera assembleare di approvazione del bilancio ex art. 2378 comma terzo c.c.

Tra i «diritti disponibili relativi al rapporto sociale» ai sensi dell’art. 34 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, suscettibili di tutela arbitrale laddove sia presente in statuto una valida clausola compromissoria, è compreso il diritto di impugnazione (ed eventualmente anche di sospensione dell’esecuzione) della delibera di approvazione del bilancio il cui iter di formazione sia viziato da un’asserita illegittima esclusione di un socio dal quorum costitutivo e deliberativo. Si tratta infatti di vizi attenenti al rapporto tra singolo socio e società, pertanto «disponibili» ai sensi dell’art. 34 del d.lgs. 17 gennaio 2003. Diversamente, i vizi attinenti al contenuto informativo del bilancio, legati cioè a una violazione dei requisiti di verità, chiarezza e precisione, trascendono l’interesse del singolo e coinvolgono diritti indisponibili ai sensi della norma summenzionata, poiché le norme imperative poste a presidio dei  detti requisiti sono dettate, oltre che a tutela dell’interesse di ciascun socio ad essere informato dell’andamento della gestione societaria, altresì a garanzia dell’affidamento di tutti i soggetti che con la società entrino in rapporto (cfr. Cass. n. 20674/2016; Cass. n. 13031/2014).

Il quinto comma dell’art. 35 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 consente la devoluzione in arbitrato di controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari e agli arbitri compete sempre il potere di disporre, con ordinanza non reclamabile, la sospensione dell’efficacia della delibera. Tale ultimo potere ha natura eccezionale in quanto costituisce una rilevante deroga alla regola generale di cui al combinato disposto degli artt. 818 c. p.c. e 669-quinquies c. p.c., per cui la domanda cautelare si propone al giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito.

Principi espressi nel contesto di un rigetto di un reclamo cautelare promosso dal reclamante avverso un’ordinanza in cui il giudice istruttore aveva dichiarato l’incompetenza del Tribunale – per la presenza in statuto di una valida clausola compromissoria – a pronunciarsi sul ricorso avente come petitum la sospensione dell’efficacia di una delibera di approvazione del bilancio. Il giudice di seconde cure conferma l’incompetenza del Tribunale adito e, inoltre, ravvisa in ogni caso la carenza del periculum in mora, a seguito della valutazione comparativa degli interessi del socio e della società richiesta dall’art. 2378, comma quarto, c.c.

(Massime a cura di Giovanni Gitti)




Tribunale di Brescia, sentenza del 20 gennaio 2023, n. 125 – clausola compromissoria, controversie societarie, dimissioni volontarie, compenso degli amministratori

Gli amministratori sono legati alla società da un rapporto di immedesimazione organica, non riconducibile al rapporto di lavoro subordinato, né a quello di collaborazione coordinata e continuativa. Esso, piuttosto, deve essere ascritto all’area del lavoro professionale autonomo ovvero qualificato come rapporto societario tout court (Cass. n. 2759/2016). Partendo da tale assunto, l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità (cfr. anche Cass. n. 13956/2016, SS.UU. n. 1545/2017, Cass. n. 285/2019) ha chiarito la natura lato sensu societaria delle controversie che contrappongono la società al suo amministratore (o viceversa).

Di conseguenza, le controversie tra amministratori e società, anche se specificamente attinenti al profilo “interno” dell’attività gestoria ed ai diritti che ne derivano agli amministratori (quale quello alla spettanza del compenso), sono compromettibili in arbitri, ove nello statuto della società sia presente una clausola compromissoria in tal senso (Cass. n. 2759/2016).

Tale conclusione è corroborata anche dal criterio ermeneutico estensivo di cui all’art. 808-quater c.p.c., il quale sancisce che “nel dubbio, la convenzione d’arbitrato si interpreta nel senso che la competenza arbitrale si estende a tutte le controversie che derivano dal contratto o dal rapporto cui la convenzione si riferisce”.

I princìpi sono stati espressi nell’ambito di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, con il quale era stato ingiunto a una società, di cui la parte opponente era amministratore, di pagare a quest’ultimo una somma a titolo di residuo compenso, oltre a interessi e spese, per l’attività prestata sino alla data delle sue dimissioni. La società opponente ha eccepito l’incompetenza dell’autorità giudiziaria ordinaria – dalla quale sarebbe dipesa la nullità del decreto ingiuntivo da essa pronunciato – facendo rilevare la presenza nel proprio statuto di una clausola compromissoria. Detta clausola avrebbe imposto, oltre all’esperimento di un previo tentativo di conciliazione, la devoluzione in arbitri – inter alia – di qualsiasi controversia promossa da amministratori, liquidatori e sindaci, ovvero promossa nei loro confronti, avente ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale. Avendo l’amministratore opponente aderito all’eccezione di “competenza arbitrale”, il Tribunale di Brescia ha revocato il decreto ingiuntivo e, sempre per effetto della suddetta competenza arbitrale, ha dichiarato il suo difetto a conoscere ogni ulteriore domanda proposta nel merito.

(Massime a cura di Chiara Alessio)




Tribunale di Brescia, sentenza del 15 dicembre 2022, n. 3030 – s.r.l., cessione quote, incapacità naturale, art. 428 c.c., art. 1425 c.c., art. 1453 c.c., art. 1427 c.c., art. 2753 c.c.

Qualora l’attore impugni un contratto di cessione di quote allegando la propria incapacità naturale all’atto della stipula in ragione di un “rallentamento cognitivo”, l’omessa produzione della cartella clinica relativa al ricovero del medesimo impedisce ogni ulteriore valutazione sull’entità di tale “rallentamento cognitivo” e sulle relative cause. Inoltre, gli elementi emersi in corso di causa non confortano l’allegazione attorea in quanto il contratto per cui è causa risulta essere stato sottoscritto ad oltre un mese dalla dimissione e in ogni caso non vi è coincidenza tra “rallentamento cognitivo” e “incapacità di comprendere”.

Nei rapporti tra le parti la quietanza di pagamento ha valore di confessione stragiudiziale resa alla controparte; nel dettaglio la quietanza, rilasciata dal creditore al debitore all’atto del pagamento, ha natura di confessione stragiudiziale in ordine al fatto estintivo dell’obbligazione ai sensi dell’art. 2735 c.c., e, come tale, solleva il debitore dal relativo onere probatorio, vincolando il giudice circa la verità del fatto stesso, se e nei limiti in cui la stessa sia fatta valere nella controversia in cui siano parti, anche in senso processuale, l’autore e il destinatario di quella dichiarazione di scienza (cfr. Cass. n. 21258/2014).

L’obbligazione di pagamento del corrispettivo non può ritenersi adempiuta in quanto è noto che in tema di adempimento di obbligazioni pecuniarie mediante il rilascio di assegni bancari, l’estinzione del debito si perfeziona soltanto nel momento dell’effettiva riscossione della somma portata dal titolo, poiché la consegna dello stesso deve considerarsi effettuata, salva diversa volontà delle parti, “pro solvendo” (cfr. Cass. n. 14372/2018).

Princìpi espressi con riguardo al rigetto di una domanda volta all’annullamento dell’atto di trasferimento delle quote di una s.r.l. a causa dello stato di salute fisica e mentale della parte cedente che avrebbe costituito un grave vizio del consenso ex art. 1427 c.c. e a causa della falsa rappresentazione della realtà, perché il trasferimento della titolarità delle quote rappresentative del 95% del capitale della s.r.l. sarebbe stata effettuato senza il versamento del corrispettivo.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 5 ottobre 2022, n. 2380 – s.r.l., cessione di quote, responsabilità contrattuale, responsabilità extra contrattuale e pre-contrattuale, responsabilità amministratore, art. 2476 c.c., art. 1453 c.c., art. 1497 c.c., art. 1337 c.c., art. 1440 c.c.

Le azioni (e le quote) delle società di capitali costituiscono beni di “secondo grado”, in quanto non sono del tutto distinte e separate dai beni compresi nel patrimonio sociale, e sono rappresentative delle posizioni giuridiche spettanti ai soci in ordine alla gestione ed alla utilizzazione di detti beni, funzionalmente destinati all’esercizio dell’attività sociale; pertanto, i beni compresi nel patrimonio della società non possono essere considerati del tutto estranei all’oggetto del contratto di cessione del trasferimento delle azioni o delle quote di una società di capitali, sia se le parti abbiano fatto espresso riferimento agli stessi, mediante la previsione di specifiche garanzie contrattuali, sia se l’affidamento del cessionario debba ritenersi giustificato alla stregua del principio di buona fede. Ne consegue che la differenza tra l’effettiva consistenza quantitativa del patrimonio sociale rispetto a quella indicata nel contratto, incidendo sulla solidità economica e sulla produttività della società, quindi sul valore delle azioni o delle quote, può integrare la mancanza delle qualità essenziali della cosa, che rende ammissibile la risoluzione del contratto ex art. 1497 c.c., ovvero, qualora i beni siano assolutamente privi della capacità funzionale a soddisfare i bisogni dell’acquirente, quindi “radicalmente diversi” da quelli pattuiti, l’esperimento di un’ordinaria azione di risoluzione ex art. 1453 c.c., svincolata dai termini di decadenza e prescrizione previsti dall’art. 1495 c.c.(cfr. Cass. 22790/2019)

A norma dell’art. 1497, comma secondo, c.c., il diritto di ottenere la risoluzione è soggetto alla decadenza e alla prescrizione stabilite dall’art. 1495 c.c. e per effetto del rinvio operato dall’art. 1497 c.c. alle disposizioni generali sulla risoluzione del contratto per inadempimento, il compratore può ottenere la risoluzione del contratto soltanto se il difetto di qualità della cosa venduta non sia di scarsa importanza; tuttavia, quando l’inadempienza non sia di tale gravità da giustificare la risoluzione del contratto, l’acquirente può sempre agire per il risarcimento del danno sotto forma di una proporzionale riduzione del prezzo corrispondente al maggior valore che la cosa avrebbe avuto, purché il difetto di questa non sia di trascurabile entità, precisandosi inoltre che tutte le azioni spettanti al compratore per i vizi o la mancanza di qualità della cosa venduta, ivi compresa, pertanto, l’azione di risarcimento del danno, prevista dall’art. 1494 c.c., sono soggette ai termini di decadenza e di prescrizione di cui all’art. 1495 c.c.. Il presente principio opera anche nel caso di esperimento di detta azione risarcitoria in via autonoma, rispetto all’azione di risoluzione del contratto o di riduzione del prezzo (cfr. Cass. n. 247/1981; n. 2322/1977 e n. 1874/1972).

Ai fini dell’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore di una società di capitali non è sufficiente invocare genericamente il compimento di atti di “mala gestio” e riservare una più specifica descrizione di tali comportamenti nel corso del giudizio, atteso che per consentire alla controparte l’approntamento di adeguata difesa, nel rispetto del principio processuale del contraddittorio, la “causa petendi” deve sin dall’inizio sostanziarsi nell’indicazione dei comportamenti asseritamente contrari ai doveri imposti agli amministratori dalla legge o dallo statuto sociale. Ciò vale tanto che venga esercitata un’azione sociale di responsabilità quanto un’azione dei creditori sociali, perché anche la mancata conservazione del patrimonio sociale può generare responsabilità non già in conseguenza dell’alea insita nell’attività di impresa, ma in relazione alla violazione di doveri legali o statutari che devono essere identificati nella domanda nei loro estremi fattuali.

L’operato dell’amministratore per motivi squisitamente di merito è insindacabile, alla stregua del noto principio della c.d. business judgement rule.

Principi espressi in ipotesi di rigetto della domanda volta ad accertare la responsabilità contrattuale dei venditori, a seguito della cessione della totalità delle quote di una s.r.l. avente quale asset una struttura turistica affetta da abusi edilizi, per effetto della garanzia prestata, ai sensi degli artt. 1453 e/o 1497 c.c., con conseguente condanna al risarcimento dei danni, nonché all’accertamento della responsabilità extra-contrattuale, sub specie di responsabilità pre-contrattuale e per dolo incidente ai sensi degli artt. 1337 e 1440 c.c., sempre con conseguente condanna al risarcimento dei danni nonché l’accertamento della responsabilità dell’amministratore di una s.r.l., ex art. 2476, comma terzo, c.c., con condanna dello stesso al risarcimento dei danni.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 29 marzo 2022, n. 756 – s.r.l., diritto di recesso, clausola di gradimento, clausola di prelazione impropria, limiti al trasferimento mortis causa

Qualora lo statuto di una s.r.l. contenga una clausola di gradimento non mero – tale da intendersi anche quella che subordina il trasferimento (inter vivos) di partecipazioni al preventivo gradimento dell’acquirente da parte del consiglio di amministrazione e di tutti gli altri soci, prevedendo però un chiaro limite soggettivo – il diritto di recesso non è riconosciuto per il solo fatto dell’esistenza di siffatta clausola, poiché ciò finirebbe per introdurre surrettiziamente una vera e propria facoltà di recesso ad nutum, in difetto di una chiara previsione statutaria in tal senso. Al contrario, alla luce di quanto disposto dall’art. 2469 c.c., in tale ipotesi il diritto di exit è accordato al socio solo in conseguenza del diniego ricevuto al fine di consentirgli di non rimanere prigioniero della società (cfr. Corte d’Appello Venezia n. 2158/2021).

Analoghe considerazioni debbono essere svolte con riguardo alle clausole di prelazione “a prezzo amministrato” che impongono al socio, qualora questi voglia cedere la propria partecipazione, di offrirla preventivamente e a parità di condizioni agli altri soci, cui viene altresì riconosciuto il diritto di sottoporre la determinazione del prezzo da corrispondere all’offerente a un arbitratore, nonché alle clausole di gradimento nei trasferimenti mortis causa, quando le medesime prevedono che – eccezion fatta per il trasferimento al successore o ai successori in linea retta del socio defunto – la partecipazione possa essere ceduta solo a soggetti graditi all’organo amministrativo della società. In entrambi i casi, non vi è diritto di recesso per la mera esistenza di un limite alla circolazione della partecipazione, qualora esso risulti in concreto inidoneo, in forza della sua effettiva applicazione, a determinare la definitiva compressione del diritto al trasferimento della partecipazione.

I princìpi sono stati espressi nell’ambito di un giudizio volto a dirimere una controversia sorta tra un socio di minoranza e una società a responsabilità limitata relativamente alla sussistenza del diritto di recesso dalla società in capo al primo. Nel caso di specie, infatti, la parte attrice aveva esercitato dapprima recesso parziale e poi, senza rinuncia esplicita al primo recesso, recesso per l’intera partecipazione. La società resistente adduceva, inter alia, l’insussistenza del diritto di recesso: i) nel difetto di una clausola statutaria “di mero gradimento”; ii) in ragione della clausola statutaria di prelazione impropria o “a prezzo amministrato”; iii) per la sola presenza di una clausola statutaria limitativa delle ipotesi di trasferimento mortis causa. Il Collegio ha statuito che non spettava alla parte attrice diritto di recesso, non avendo, tra l’altro, la medesima mai manifestato la propria intenzione di alienare a terzi (in tutto o in parte) la propria quota. Sono risultate perciò assorbite le ulteriori questioni relative alla ammissibilità di un recesso parziale, condizionato o esercitato dal solo nudo proprietario.

(Massime a cura di Chiara Alessio)




Sentenza del 5 febbraio 2020 – Presidente: Dott. Donato Pianta – Consigliere relatore: Dott. Giuseppe Magnoli

Attesa
l’autonomia tra i giudizi civile e penale nonché la diversità del regime
probatorio e di responsabilità ivi operante (sia con riferimento al tema del
riparto dell’onere probatorio sia con riferimento alla responsabilità solo
dolosa, per l’imputazione in ambito penale, ed invece anche colposa, in sede
civile), l’accertamento contenuto nella sentenza penale in relazione alla
condotta tenuta dall’amministratore non costituisce un vincolo per il giudice
civile nella definizione della lite.

In
tema di responsabilità degli amministratori, a fronte dell’addebito
all’amministratore unico per non aver richiesto ed ottenuto dai soci il
versamento delle quote residue di capitale sociale, l’unica replica utile è
quella costituita dalla dimostrata sollecitazione in tal senso e dall’avvenuto
versamento, a quello e non ad altro titolo, delle somme di danaro ancora dovute
dai soci alla società. Né l’amministratore può sottrarsi alla responsabilità –
per il danno che ne è derivato alla società e soprattutto ai relativi
creditori, con riferimento alla ridotta consistenza del patrimonio sociale a
ciò conseguita – attribuendo l’imputazione che assume (soltanto) erronea
all’operato di dipendenti o collaboratori. E ciò sia perché l’amministratore
risponde anche dell’operato di questi ultimi, sia perché tra gli oneri di
diligenza a suo carico rientra certamente anche quello di controllare l’operato
dei suoi collaboratori, soprattutto in quanto relativo ad operazioni
riconducibili, in ultima istanza, all’amministratore stesso.

I principi sono stati espressi nel giudizio
di appello promosso dall’ex socio e amministratore unico di una s.r.l. in
liquidazione, poi fallita, avverso la sentenza del Tribunale che aveva accertato
la sua responsabilità, quale amministratore unico, in relazione alle seguenti
condotte: (i) mancata richiesta ai soci del versamento del residuo capitale
sottoscritto, onere aggirato contabilmente tramite scritture contabili
artificiose; (ii) irregolare tenuta delle scritture contabili e compimento di
ulteriori operazioni contabili non chiare né trasparenti.

(Massime
a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 5 marzo 2021 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

Il principio di rappresentazione veritiera
della situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società,
richiamato dall’art. 2423 c.c., non postula l’esistenza di una verità oggettiva
del bilancio, in quanto esso non può che
tendere a una verità “relativa” o “convenzionale”, nella misura in cui le
grandezze ivi rappresentate derivano da stime effettuate sulla base di metodi
di valutazione prescritti dalla normativa ovvero dalla best practice del
settore di riferimento. Nel processo di accertamento del grado di veridicità
del bilancio viene tuttavia in soccorso l’ulteriore principio previsto
dall’art. 2423 c.c., ovvero la correttezza (“true and fair view”). In
altre parole, l’esame del grado di accuratezza delle poste valutative presenti
in bilancio non può prescindere da un’analisi del livello di correttezza
comportamentale del redattore, desumibile dalla scelta dei criteri alla base
della rappresentazione, sotto il profilo della correttezza tecnica, della
coerenza e della razionalità.

Giacché il bilancio ha una preminente funzione
informativa (da qui l’esigenza di “chiarezza”), ai fini della declaratoria di
nullità della delibera di approvazione del bilancio è necessario che gli
eventuali scostamenti accertati in sede giudiziale si traducano in un vizio
rilevante, sotto il profilo qualitativo e quantitativo, avuto riguardo alla
predetta funzione del documento, considerato nella sua interezza, e al
principio di prevalenza della sostanza sulla forma, valutando per esempio se il
vizio in questione incida sul grado di comprensibilità della singola
informazione riportata.

Allorché ad una consulenza tecnica d’ufficio siano mosse
critiche puntuali e dettagliate da un consulente di parte, il giudice che
intenda disattenderle ha l’obbligo di indicare nella motivazione della sentenza
le ragioni di tale scelta, senza che possa limitarsi a richiamare acriticamente
le conclusioni del proprio consulente, ove questi a sua volta non si sia fatto
carico di esaminare e confutare i rilievi di parte (Cassazione civile sez. I
21.11.2016, n. 23637): argomentando a contrario, si ricava che laddove
il C.T.U. abbia esaminato puntualmente i rilievi mossi dai consulenti di parte,
non sussiste in capo al Tribunale l’onere di motivazione sul punto, onere già
compiutamente assolto dal perito.

Rientra nel potere del consulente tecnico d’ufficio
attingere aliunde notizie e dati, non rilevabili dagli atti processuali
e concernenti fatti e situazioni formanti oggetto del suo accertamento, quando
ciò sia necessario per espletare convenientemente il compito affidatogli. Dette
indagini possono concorrere alla formazione del convincimento del giudice
purché ne siano indicate le fonti, in modo che le parti siano messe in grado di
effettuarne il controllo, a tutela del principio del
contraddittorio (cfr. Trib. Brescia
11.9.2020, conforme a Cass. 12921/2015), con l’unico limite
costituito dal divieto per il consulente di sostituirsi alla parte ricercando
dati che costituiscono materia di onere di allegazione e di prova. Peraltro,
il C.T.U. può estendere l’esame a documenti non acquisiti al processo, quando
l’esistenza di questi risulti logicamente plausibile sulla base degli elementi
forniti dalle parti o desumibili dalla stessa indagine tecnica (Cass. 877/1982).

Il credito per imposte anticipate e il fondo per imposte
differite non costituiscono voci omogenee, differendo per presupposti, natura e
finalità, restando quindi soggette al generale divieto di compensi di partite
previsto dall’ultimo comma dell’art. 2423-ter c.c.. Pertanto, secondo il
principio di chiarezza, le due voci debbono essere mantenute distinte, affinché
il lettore possa avere contezza dei diversi fatti contabilmente rilevanti alla
base di ciascuna rilevazione. 

La dichiarata nullità della delibera di approvazione del
bilancio si riverbera in concreto sulla validità della contestuale delibera di
destinazione dell’utile dell’esercizio: una volta accertato che il risultato
dell’esercizio non coincide con quello assunto come presupposto della delibera,
anche quest’ultima non può che essere dichiarata nulla (Trib. Milano,
13.1.1983, F.it. 84, I, 1068) per impossibilità dell’oggetto.

L’eventuale discrasia tra quanto riportato nel verbale e
la realtà materiale dei fatti, soprattutto nel caso di fatti marginali (quali
la presenza di persone estranee alla compagine sociale) o valutativi (quale la
dichiarazione della previa regolare comunicazione) non pare costituire
un’autonoma causa di invalidità della delibera, essendo comunque necessario
verificare se il fatto materiale non rappresentato o non correttamente
rappresentato (che dovrà in ogni caso essere provato) sia tale da determinarne
l’invalidità (Trib. Brescia 9.10.2020).

La deliberazione di approvazione del bilancio d’esercizio
di una società, adottata dall’assemblea convocata oltre la scadenza del termine
legale di centoventi giorni dalla chiusura dell’esercizio sociale, è pienamente
valida anche nel caso in cui non sussistano le condizioni che, a norma
dell’ultimo comma dell’art. 2364 c.c., possono giustificare e fondare la
proroga del termine legale (Cass. civ., 14.8.1997, n. 7623).

Principi espressi in sede di impugnazione da parte dei soci di
minoranza di una s.r.l. di talune delibere di approvazione del bilancio e di
destinazione dell’utile della società, della delibera sulla conferma e sui
compensi dell’amministratore unico, nonché di verbali dell’assemblea.

(Massime a cura di Lorena Fanelli)