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Tribunale di Brescia, sentenza del 27 novembre 2023, n. 3018 – nullità delle deliberazioni assembleari, mala gestio, responsabilità degli amministratori, azione di responsabilità

L’azione di accertamento della nullità delle deliberazioni assembleari di una società “postula un interesse che, oltre a dover essere concreto ed attuale, si riferisca specificamente all’azione di nullità, non potendo identificarsi con l’interesse ad una diversa azione” (Cass. n. 16159/2017). Il principio di diritto enunciato vale, a maggior ragione, con riferimento all’azione volta a ottenere l’annullamento della delibera, tenuto conto della minore intensità del vizio.

“Il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione, le modalità nonché le circostanze di tali scelte, anche se presentino profili di rilevante alea economica”. Detto giudizio riguarda, invece, solo “la diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere, e quindi, l’eventuale omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità” (Cass. n. 3409/2013).

L’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore di una società di capitali – per consentire alla controparte un’adeguata difesa, nel rispetto del principio processuale del contraddittorio – deve sin dall’inizio sostanziarsi nell’indicazione dei comportamenti asseritamente contrari ai doveri imposti agli amministratori dalla legge o dallo statuto sociale (Cass. n. 23180/2006).

Princìpi espressi nell’ambito del giudizio promosso da alcuni soci di una società a responsabilità limitata per sentir dichiarare la nullità (o in subordine l’annullamento) della delibera assembleare con la quale l’assemblea della medesima società aveva respinto a maggioranza la richiesta di promuovere l’azione sociale di responsabilità nei confronti di alcuni amministratori cessati e dell’attuale amministratore unico, nonché per ottenere la condanna di questi ultimi, previo accertamento della loro responsabilità per atti di mala gestio, al risarcimento dei danni cagionati alla società.


(Massime a cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 5 febbraio 2020 – Presidente: Dott. Donato Pianta – Consigliere relatore: Dott. Giuseppe Magnoli

Attesa
l’autonomia tra i giudizi civile e penale nonché la diversità del regime
probatorio e di responsabilità ivi operante (sia con riferimento al tema del
riparto dell’onere probatorio sia con riferimento alla responsabilità solo
dolosa, per l’imputazione in ambito penale, ed invece anche colposa, in sede
civile), l’accertamento contenuto nella sentenza penale in relazione alla
condotta tenuta dall’amministratore non costituisce un vincolo per il giudice
civile nella definizione della lite.

In
tema di responsabilità degli amministratori, a fronte dell’addebito
all’amministratore unico per non aver richiesto ed ottenuto dai soci il
versamento delle quote residue di capitale sociale, l’unica replica utile è
quella costituita dalla dimostrata sollecitazione in tal senso e dall’avvenuto
versamento, a quello e non ad altro titolo, delle somme di danaro ancora dovute
dai soci alla società. Né l’amministratore può sottrarsi alla responsabilità –
per il danno che ne è derivato alla società e soprattutto ai relativi
creditori, con riferimento alla ridotta consistenza del patrimonio sociale a
ciò conseguita – attribuendo l’imputazione che assume (soltanto) erronea
all’operato di dipendenti o collaboratori. E ciò sia perché l’amministratore
risponde anche dell’operato di questi ultimi, sia perché tra gli oneri di
diligenza a suo carico rientra certamente anche quello di controllare l’operato
dei suoi collaboratori, soprattutto in quanto relativo ad operazioni
riconducibili, in ultima istanza, all’amministratore stesso.

I principi sono stati espressi nel giudizio
di appello promosso dall’ex socio e amministratore unico di una s.r.l. in
liquidazione, poi fallita, avverso la sentenza del Tribunale che aveva accertato
la sua responsabilità, quale amministratore unico, in relazione alle seguenti
condotte: (i) mancata richiesta ai soci del versamento del residuo capitale
sottoscritto, onere aggirato contabilmente tramite scritture contabili
artificiose; (ii) irregolare tenuta delle scritture contabili e compimento di
ulteriori operazioni contabili non chiare né trasparenti.

(Massime
a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza del 14 giugno 2021 – Giudice designato: Dott. Lorenzo Lentini

Con riferimento alla responsabilità dell’amministratore che si appropri di notizie od opportunità di affari appresi nell’esercizio del suo incarico a danno della propria società, la sanzione prevista dall’art. 2391 c.c. – norma ispirata alla Common Law statunitense e, in particolare, alla c.d. corporate opportunity doctrine – è di natura risarcitoria.

La norma, tuttavia, non risulta essere applicabile – come nella fattispecie in esame – in caso di “third party’s refusal to deal”, vale a dire qualora l’impraticabilità per la società di sfruttare opportunità di affari derivi dal rifiuto del terzo di contrarre con la stessa, non essendo in tal caso il pregiudizio patito conseguenza diretta dell’operato dell’amministratore.

Sulla base di tali principi, nella vicenda in questione, il giudice ha ritenuto insussistente il fumus boni iuris, escludendo altresì la responsabilità dell’organo amministrativo.

(Massime a cura di Marta Arici)




Sentenza del 25 maggio 2021 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

In sede di azione di responsabilità nei confronti degli amministratori, per quanto attiene alla possibilità di agire in regresso ai sensi dell’art. 2055 c.c., è da escludersi la sussistenza di responsabilità solidale di amministratori che non abbiano condiviso, per il medesimo periodo, la carica all’interno del consiglio di amministrazione.

Per quanto attiene, invece, ai profili di responsabilità degli amministratori di fatto – la quale, in ogni caso, non costituisce esimente per gli amministratori di diritto – l’accertamento di tale qualifica necessita di adeguate e rigorose verifiche circa l’esistenza di una sistematica ingerenza da parte di soggetti che, pur privi di cariche formali, esercitino de facto un potere connotato da esclusività e insindacabilità.

Con riguardo, invece, alle (diverse) fattispecie di responsabilità degli amministratori di cui agli artt. 2393 e 2394 c.c., si ritiene che una volta intervenuto il fallimento, entrambe le azioni debbano confluire in un’unica azione unitaria, a contenuto inscindibile, esercitabile esclusivamente da parte del curatore fallimentare. Questa, pur mantenendo, da un punto di vista sostanziale, i tratti distintivi propri delle singole fattispecie, è da considerarsi proposta unicamente al fine di reintegrare il patrimonio sociale a garanzia sia dei soci sia dei creditori sociali. La ratio sottesa a tale unificazione attiene, inoltre, alla necessità di escludere il rischio che si generi una duplicazione della tutela risarcitoria per le medesime conseguenze dannose.

In relazione alla predetta unitarietà dell’azione di responsabilità, il dies a quo del termine prescrizionale coincide con il momento di oggettiva esteriorizzazione del danno all’integrità del patrimonio sociale e, perciò, con la conoscibilità della situazione patologica da parte dei terzi. 

Principi espressi nell’ambito di una controversia avente ad oggetto un’azione di responsabilità proposta dal fallimento avverso gli amministratori, sia di fatto sia di diritto.

(Massime a cura di Marta Arici)




Sentenza del 10 luglio 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Davide Scaffidi

La responsabilità degli amministratori ex art. 2476, co., 3 c.c. non può essere affermata laddove le doglianze dei soci siano genericamente indicate e laddove non risulti provato un danno per la società.

Il conflitto di interessi postula un rapporto d’incompatibilità fra le esigenze del rappresentato e quelle personali del rappresentante o di un terzo che egli a sua volta rappresenti; rapporto che va riscontrato non in termini astratti e ipotetici, ma con riferimento al singolo atto, concentrandosi esclusivamente sul contratto le cui intrinseche caratteristiche consentano un vantaggio di un soggetto solo passando attraverso il sacrificio dell’altro (conf. Cass. n. 19045/2005). 

La sussistenza dei presupposti per la postergazione dei crediti dei soci stabiliti dall’art. 2467 c.c. non è ostativa alla compensazione tra il credito del socio per finanziamenti e il suo debito da sottoscrizione dell’aumento di capitale, atteso che la trasformazione, mediante la compensazione, del credito da finanziamento in capitale di rischio concorre alla protezione degli interessi dei creditori terzi tutelati dall’art. 2476 c.c. Deve ritenersi, in definitiva, che l’estinzione per compensazione non sia illegittima e che non arrechi alcun pregiudizio ai creditori della società (e tantomeno alla partecipazione dei soci).

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso dai soci di una s.r.l. ex art. 2476, co. 3, c.c. nei confronti dei componenti del consiglio di amministrazione. A fondamento delle proprie pretese gli attori deducevano il compimento, da parte degli amministratori, di atti di mala gestio tra cui l’aver consentito la liberazione del capitale sociale (dapprima ricostituito e poi aumentato) mediante compensazioni in favore dei soci in violazione dell’art. 2467 c.c.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 3 aprile 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

In tema di responsabilità degli amministratori nei confronti della società, l’attribuzione della qualifica di amministratore di fatto richiede un accertamento particolarmente rigoroso, in cui viene in rilievo la sistematica ingerenza di un soggetto, privo della carica formale, in decisioni di competenza dell’organo amministrativo, configurandosi quale amministratore di fatto la persona che benché priva della corrispondente investitura formale, risulta inserita nella gestione della società stessa, impartendo direttive e condizionandone le scelte operative, ove tale ingerenza, lungi dall’esaurirsi nel compimento di atti eterogenei ed occasionali, riveli avere caratteri di sistematicità e completezza (conf., ex multis, Cass. n. 4045/2016).

In particolare, è qualificabile come amministratore di fatto il soggetto che, in assenza di una qualsivoglia investitura da parte dell’assemblea (sia pur irregolare o implicita), si sia ingerito nella gestione di una società in maniera sistematica e completa. La valutazione della sistematicità e della completezza deve essere fatta tenendo in considerazione le attività svolte dal soggetto nell’ambito dei rapporti interni (con i soci e/o gli amministratori) ed esterni (coi clienti e i collaboratori) alla società (conf. Trib. Torino, 05.03.2018). Alla luce di quanto sopra, l’onere di allegazione nella fattispecie deve investire puntualmente le circostanze dalle quali detta qualifica può essere desunta, con particolare riferimento al requisito della sistematicità dell’ingerenza esterna.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso da una società a responsabilità limitata, posta in liquidazione, nei confronti dell’ex presidente del consiglio di amministrazione e successivamente, in tesi, amministratore di fatto, ai fini dell’accertamento della responsabilità di quest’ultimo, anche in via extracontrattuale, per i danni patiti dalla società in seguito al compimento di atti sociali in conflitto d’interesse.

Al riguardo, la società contestava all’ex presidente del consiglio di amministrazione l’attuazione di “un disegno unitario” volto a spogliare la società attrice dell’azienda, mediante la stipula di un contratto di affitto di azienda, a fronte di un canone irrisorio, in favore di altra società amministrata dallo stesso convenuto. Il predetto contratto, in particolare, veniva stipulato dalla società attrice in data posteriore alla cessazione del convenuto dalla carica di presidente del consiglio di amministrazione e, dunque, in un’epoca in cui il convenuto avrebbe ricoperto la carica di amministratore di fatto.

Il convenuto si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto delle domande attoree e, in subordine, l’accertamento della responsabilità solidale dei soci della società attrice, nonché dell’amministratore succeduto nella carica.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza 17 marzo 2020 – Presidente relatore: Dott. Raffaele Del Porto

In tema di offerta pubblica di acquisto (c.d. o.p.a.), la responsabilità degli amministratori della società emittente per le inesattezze o carenze del comunicato ex art. 103 T.U.F. può essere affermata solo quando risultino omesse o falsamente rappresentate informazioni rilevanti in ordine ai dati realmente utili per l’apprezzamento dell’offerta o quando la valutazione operata dall’organo gestorio si fondi su presupposti macroscopicamente errati o risulti in palese contrasto con le informazioni correttamente acquisite. Ne consegue che laddove risulti la sostanziale adeguatezza delle informazioni relative ai dati utili per l’apprezzamento dell’offerta e la correttezza della valutazione dell’o.p.a. da parte degli amministratori, non potrà trovare accoglimento l’azione di responsabilità promossa individualmente dai soci ex art. 2395 c.c.

Principio espresso nel giudizio promosso dai soci di una s.p.a. ex art. 2395 c.c. contro i componenti del consiglio di amministrazione, al fine di ottenerne la condanna solidale al risarcimento dei danni direttamente subiti dai soci-attori, in conseguenza dell’asserita inadeguatezza del contenuto del comunicato ex art. 103, co. 3, Testo Unico della Finanza.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 17 marzo 2020 – Presidente relatore: Dott. Raffaele Del Porto

Nell’ambito
di una offerta pubblica di acquisto (OPA), il comunicato di cui all’art. 103,
c. 3, T.U.F., ai sensi del quale gli amministratori della società emittente
devono comunicare ogni dato utile per l’apprezzamento dell’offerta e la propria
valutazione sulla medesima, contiene, quanto alla seconda parte del comunicato,
una mera valutazione e non un giudizio (in senso stretto, avente ad oggetto
fatti oggettivamente accertabili), dunque una determinazione di valore avente
carattere necessariamente soggettivo, avendo ad oggetto situazioni suscettibili
– per loro natura – di vario apprezzamento.

La
responsabilità̀ degli amministratori della società emittente per inesattezze o
carenze del comunicato ex art. 103 T.U.F. potrà essere affermata solo
quando risultino omesse (o false) informazioni rilevanti in ordine ai dati
realmente utili per l’apprezzamento dell’offerta ovvero quando la valutazione
operata dall’organo gestorio si fondi su presupposti macroscopicamente errati o
risulti in palese contrasto con le informazioni correttamente acquisite ovvero
ancora in ulteriori casi patologici quali quelli di abuso di potere, conflitto
di interessi e altri della medesima natura.

Dato
che l’adesione degli attori all’OPA non avrebbe comportato il necessario
perfezionamento della vendita delle rispettive azioni, potendo l’efficacia
dell’OPA venir meno per effetto del mancato avveramento di una delle due
condizioni (o di entrambe le condizioni) alle quali l’offerta era assoggettata,
il danno lamentato dagli attori si caratterizzerebbe come danno da perdita di
una mera chance.

Il
creditore che voglia ottenere, oltre il rimborso delle spese sostenute, anche i
danni derivanti dalla perdita di chance
– che, come concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un
determinato bene, non è una mera aspettativa di fatto ma un’entità
patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di
autonoma valutazione – ha l’onere di provare, pur se solo in modo presuntivo o
secondo un calcolo di probabilità, la realizzazione in concreto di alcuni dei
presupposti per il raggiungimento del risultato sperato e impedito dalla
condotta illecita della quale il danno risarcibile dev’essere conseguenza
immediata e diretta (Cass. n. 1752/2005).

L’aver
mantenuto la proprietà (di gran parte) delle azioni per circa due anni a
seguito dell’insuccesso dell’OPA e sino al definitivo azzeramento del valore
del titolo induce a valutare come plausibile l’ipotesi della volontà di
conservare le proprie partecipazioni nella prospettiva di un effettivo rilancio
della società. Da tale valutazione deriverebbe un difetto di idonea prova della
sussistenza di un effettivo nesso causale fra il
– preteso – illecito oggetto di contestazione e le conseguenze lesive
lamentate.

Principi
espressi in occasione del rigetto della domanda ex art. 2395 c.c. presentata da
alcuni soci della società nei confronti degli amministratori della stessa al
momento dei fatti contestati.

In
particolare, gli attori lamentavano di aver subito un danno in ragione del
contenuto asseritamene inadeguato – per carenza ed inesattezza delle
informazioni fornite – del comunicato ex art. 103, c. 3, d.lgs. n. 58/1998
diffuso dal consiglio di amministrazione in occasione dell’offerta pubblica di
acquisto (OPA) totalitaria sulle azioni della società, nel quale era stato
espresso parere negativo che aveva indotto gli stessi a non aderire all’OPA
determinandone l’insuccesso.

Le vicende successive della società hanno portato ad un azzeramento del valore del titolo azionario avendo la stessa presentato domanda di concordato preventivo di tipo liquidatorio.

(Massime a cura di Giorgio Peli)




Ordinanza del 24 gennaio 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

Ai fini della concessione del sequestro conservativo nei confronti degli ex amministratori della società fallita, il requisito del periculum in mora può essere integrato, in via alternativa, da elementi oggettivi, riguardanti la consistenza del patrimonio del debitore sotto il profilo qualitativo (ad esempio liquidità dei beni ivi inclusi) o quantitativo, in rapporto all’entità del credito fatto valere, ovvero da elementi soggettivi, connessi al comportamento del debitore, laddove quest’ultimo agisca con modalità tali da accrescere il ragionevole rischio di depauperamento del patrimonio ovvero da evidenziare la sua intenzione di sottrarsi all’adempimento.

In particolare, in ipotesi in cui il patrimonio del resistente risulti incapiente rispetto all’ingente credito fatto valere dal ricorrente, il requisito del periculum in mora deve ritenersi sussistente, quanto meno sotto il profilo oggettivo.

I principi sono stati espressi nel giudizio di reclamo promosso dal fallimento di una società per azioni avverso l’ordinanza, emessa in contraddittorio tra le parti, che aveva parzialmente modificato il provvedimento di sequestro conservativo concesso, con decreto inaudita altera parte, nei confronti degli ex amministratori della società, poi fallita. In particolare, l’ordinanza veniva reclamata nella parte in cui revocava la misura cautelare concessa nei confronti dell’ex consigliere delegato alla luce del difetto del requisito del periculum in mora.

Più in dettaglio, sotto il profilo del fumus boni iuris, non contestato dal reclamante, l’ordinanza attribuiva rilevanza alla prosecuzione dell’attività sociale a dispetto dell’avvenuta perdita del capitale, occultata mediante l’iscrizione a bilancio di ingenti importi per imposte anticipate in violazione dei principi contabili che disciplinano la materia.

Mentre, con riferimento al periculum in mora, l’ordinanza reclamata aveva disposto la revoca del predetto sequestro nei confronti del reclamato, in considerazione del fatto che il medesimo “è tuttora proprietario di beni immobili e non risulta aver posto in essere alcun atto volto alla dissipazione del patrimonio nel lungo lasso di tempo intercorso tra la dichiarazione di fallimento e il deposito del ricorso introduttivo di questo giudizio”. 

Il fallimento, al riguardo, evidenziava la sussistenza del pericolo da infruttuosità, derivante dalla incapienza patrimoniale del reclamato rispetto all’ingente danno cagionato.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 22 maggio 2019 – Presidente: dott.ssa Alessia Busato – Giudice relatore: dott. Davide Scaffidi

L’inadempimento degli obblighi gestionali posti in capo agli amministratori di una società di capitali può avere ad oggetto lo svolgimento dell’attività gestionale o di parte di essa, ossia ben può riferirsi ad una serie coordinata di atti legati tra loro da una funzione unitaria. Pertanto, anche la violazione del dovere di tenere la contabilità, in determinate circostanze, non può essere considerata avulsa da altri comportamenti illeciti, i quali per l’appunto hanno materialmente prodotto l’evento dannoso; in questa prospettiva, la violazione inerente la contabilità sociale assume una connotazione strumentale rispetto ad atti illeciti pregiudizievoli nel senso che la scorretta o mancata redazione contabile risulta funzionale ad occultare gli atti dannosi di mala gestio.

Sotto il profilo dell’onere probatorio, non si può pretendere dalla parte che si lamenta del danno subito per inadempimento degli obblighi gestionali di rappresentare compiutamente in giudizio avvenimenti gestionali di cui non ha – né può avere avuto – conoscenza a causa di un’attività di occultamento riconducibile agli amministratori. Diversamente ragionando, si finirebbe per attribuire indebitamente un valore esimente alla circostanza della mancata predisposizione di scritture contabili, imputabile a quegli amministratori che con la loro condotta omissiva hanno di fatto ostacolato una più agevole ricostruzione del nesso eziologico tra comportamento commissivo illecito e pregiudizio effettivamente subito arrecato a società e creditori sociali.

Gli obblighi di provvedere alla regolare tenuta delle scritture contabili e di attivarsi, in caso di riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale, per l’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 2482-bis c.c. incombe su ciascuno dei membri dell’organo gestorio, se plurisoggettivo, i quali sono tenuti ad adempiere indipendentemente dall’eventuale assetto di deleghe adottato all’interno della società. La loro responsabilità deve poi parametrarsi, in via equitativa, sulla base della durata dell’incarico, tenuto conto della composizione dell’organo amministrativo nel tempo e assumendo che il pregiudizio si sia prodotto in misura costante nell’intero arco temporale.

Emerge dal bilancio una serie di dati e valori incongruenti tra loro ma anche – e soprattutto – incongruenti quanto al rapporto tra le voci riportate e l’attività d’impresa svolta dalla società. Pertanto, la Corte è stata chiamata – su impulso della curatela – a stabilire se vi fossero le condizioni per dichiarare responsabili per mala gestio i vari membri dell’organo gestorio della società fallita succedutisi nel tempo e, così, mantenere l’efficacia del sequestro cautelare e conservativo disposto nei loro confronti.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)