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Decreto del 28 ottobre 2021 – Presidente: Dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice relatore: Dott. Gianluigi Canali

In tema di ammissione allo stato
passivo, colui che agisce per l’adempimento deve provare la sussistenza del
titolo e allegare l’esecuzione della prestazione promessa. Nell’ipotesi in cui
il debitore eccepisca il mancato o inesatto adempimento, il creditore deve
dimostrare di avere esattamente adempiuto la propria prestazione. Di
conseguenza, il creditore che chieda di essere ammesso allo stato passivo fallimentare
deve dimostrare la sussistenza di un vincolo contrattuale e allegare, con la
necessaria precisione, la prestazione eseguita.

Il riconoscimento di un credito nei confronti
del fallito è soggetto all’applicazione dell’art. 2704 c.c., ai fini dell’opponibilità
alla massa dei creditori. La carenza probatoria può, tuttavia, ritenersi
superata, qualora il debitore non contesti l’attività prestata dal creditore.

In relazione alla possibilità di
superare l’onere di allegazione attraverso la produzione documentale, il
giudice ha il potere-dovere di esaminare i documenti prodotti dalla parte solo
nel caso in cui la parte, interessata, ne faccia specifica istanza, esponendo
nei propri scritti difensivi gli scopi della relativa esibizione con riguardo
alle sue pretese, derivandone altrimenti per la controparte la impossibilità di
controdedurre ed essendo per lo stesso giudice impedita la valutazione delle
risultanze probatorie e dei documenti ai fini della decisione (conf. Cass. n.
8304/1990). Nel vigente ordinamento processuale, caratterizzato dall’iniziativa
della parte e dall’obbligo del giudice di rendere la propria pronunzia nei
limiti delle domande delle parti, al giudice è inibito trarre dai documenti,
comunque esistenti in atti,
deduzioni o indicazioni, necessarie ai fini della decisione, ove queste non
siano specificate nella domanda, o – comunque – sollecitate dalla parte
interessata (conf. Cass. n. 1419/1994; Cass. n. 1385/1995). Affinché il giudice
possa e debba esaminare i documenti versati in atti lo stesso deve accertare,
oltre la ritualità della produzione, ovvero che la produzione sia avvenuta nel
rispetto delle regole del contraddittorio, anche l’esistenza di una domanda, o
di un’eccezione, espressamente basata su tali documenti (conf. Cass. n. 15103/2000;
Cass. S.U. n. 2435/2008).

Il professionista incaricato
di redigere un accordo di ristrutturazione o una domanda di concordato deve –
qualora il piano non abbia alcuna possibilità di conferire ai creditori un’utilità
maggiore di quella che avrebbero conseguito con il fallimento – consigliare al
mandante di chiedere il fallimento in proprio, salvo che i soci non siano
disponibili a ricapitalizzare la società. Se il professionista collabora con
l’imprenditore per posticipare il fallimento sapendo che non vi è alcuna
possibilità di giungere alla formulazione di un piano accettabile dai
creditori, oltre al rischio di concorrere nel reato di bancarotta per
aggravamento del dissesto, pone in essere un inadempimento gravissimo, con
conseguente risoluzione dell’incarico professionale e obbligo di risarcire il
danno cagionato ai creditori e alla società.

Principi
espressi nel giudizio di opposizione
ex art. 98 l. fall. promosso dal creditore, nel caso di specie, un
professionista, avverso il decreto che aveva dichiarato inammissibile l’istanza
di ammissione allo stato passivo fallimentare, posto che l’istante non aveva né
allegato né provato le prestazioni effettuate. Il Tribunale di Brescia confermava la decisione del Giudice delegato,
ritenuto non assolto, da parte del professionista, l’onore di provare in modo
specifico e puntuale la concreta attività prestata a favore della
società fallita ai fini della liquidazione, secondo la tariffa professionale. L’opponente
si limitava, infatti, a produrre un mandato professionale privo di data certa
e, quindi, inopponibile
ex art. 2704 c.c. alla massa dei creditori. Osservava il Tribunale che la
domanda, anche a prescindere dai suddetti rilievi, sarebbe comunque stata rigettata,
poiché il creditore avrebbe dovuto provare l’adempimento e, quindi, avrebbe dimostrare
la concreta realizzabilità del piano.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Decreto del 16 settembre 2021 – Presidente: Dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice relatore: Dott. Gianluigi Canali

In tema di locazione finanziaria, la
dichiarazione di fallimento dell’utilizzatore comporta la sospensione ex
lege
dell’esecuzione del contratto sino a quando il curatore, con
l’autorizzazione del comitato dei creditori, dichiari di subentrare nel
contratto, assumendone i relativi obblighi, ovvero di recedere, con conseguente
risoluzione del contratto e obbligo di restituzione del bene. Tale sospensione,
quindi, opera ex lege e si protrae sino alla dichiarazione del curatore
o sino al momento in cui il giudice delegato, su richiesta dello stesso
contraente in bonis, assegniato al curatore un termine – massimo 60
giorni – per decidere sull’eventuale subentro.

In ambito di locazione finanziaria,
la curatela: i) se subentra nel contratto è tenuta a pagare in
prededuzione, tutte le obbligazioni derivanti dal contratto stesso, comprese
quelle maturate nel periodo di sospensione; ii) se, invece, dichiara di
sciogliersi dal contratto, si determina nella sostanza una risoluzione che ha
effetto ex tunc del rapporto pendente. Secondo quanto disposto dal secondo
comma dell’art. 72 quater l. fall., va escluso che il concedente possa
pretendere il pagamento dei canoni maturati tra la dichiarazione di fallimento
e la restituzione del bene. La sospensione, difatti, è disposta a favore della
curatela, al fine di consentir al curatore la valutazione in ordine alla
convenienza del contratto e della sua prosecuzione; nel corso della sospensione
– in quanto periodo di quiescenza del rapporto – non sussiste, se non disposto
diversamente, l’obbligo di corrispondere alcunché. La conferma di ciò si
rinviene, nell’art. 72 quater l. fall., il quale, disciplinando gli
effetti economici e le conseguenze nel rapporto creditorio con il concedente
del mancato subentro, si limita a disporre che in caso di scioglimento del
contratto, il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a
versare alla curatela l’eventuale differenza tra la maggiore somma ricavata
dalla vendita o da altra collocazione del bene stesso, avvenuta a valori di
mercato, rispetto al credito residuo in linea capitale. Il concedente ha
diritto ad insinuarsi nello stato passivo per la differenza tra il credito
vantato alla data del fallimento e quanto ricavato dalla nuova allocazione del
bene. Infine, va osservato come naturalmente
sussista onere del pagamento in favore della concedente qualora il curatore
ritenga conveniente l’esercizio del diritto di riscatto del bene rispetto all’utilità
del bene ed alle condizioni contrattuali.

Principi
espressi nel giudizio di opposizione ex art. 98 l. fall. promosso dal
creditore, nel caso di specie, una banca, avverso il decreto che aveva
dichiarato inammissibile l’istanza
ex art. 101 l. fall. di insinuazione in prededuzione, posto che il la curatela
fallimentare non aveva mai occupato l’immobile e che il corrispettivo per
l’esercizio del diritto di riscatto non era dovuto.

Il Tribunale
di Brescia, a conferma della decisione del Giudice delegato, respingeva
l’opposizione, poiché:
a) per il periodo intercorrente tra la dichiarazione di fallimento e la
comunicazione da parte del curatore della volontà di sciogliersi dal contratto,
nulla spettava all’opponente ai sensi del secondo comma dell’art. 72-
quater l. fall.; b) per il periodo compreso tra lo scioglimento
del contratto e la restituzione del bene, nulla poteva essere riconosciuto a
titolo di risarcimento del danno, posto che il ritardo nella riconsegna risultava
ascrivibile alla responsabilità esclusiva dell’opponente;
c)
nessun credito era sorto in capo alla società di leasing, atteso che
il contratto prevedeva il pagamento della somma richiesta solamente nel caso in
cui l’opponente
avesse esercitato il diritto di riscatto e l’utilizzatrice
 fosse divenuta proprietaria del bene.

(Massima a cura di Simona Becchetti)