Sentenza del 3 novembre 2021 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

A seguito della riforma del diritto societario, attuata dal d.lgs. 6/2003, qualora all’estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal Registro delle Imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale: a) l’obbligazione della società non si estingue, ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione, o illimitatamente, a seconda che, “pendente societate”, fossero, rispettivamente, limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con esclusione delle mere pretese (conf. Cass. n. 6070/2013). Pertanto, il fenomeno successorio che si realizza a seguito dell’estinzione della società comporta il subentro dei soci nella medesima posizione della società con riferimento ai rapporti giuridici pendenti, con effetti analoghi a quelli tipici di una successione universale, con la conseguenza che la clausola di scelta del foro può essere efficacemente opposta ai soci succeduti alla società.

La clausola di scelta di foro esclusivo non consente il cumulo soggettivo di domande, non potendo attrarre domande svolte verso altri convenuti (conf. Cass. n. 9/13032). Difatti, la connessione per accessorietà opera nelle ipotesi in cui l’accoglimento della domanda accessoria dipenda dall’esito della causa connessa.

In tema di domanda di accertamento, con efficacia di giudicato, della risoluzione del contratto di leasing, la mancata formulazione è irrilevante atteso che la parte che agisce in giudizio ben può limitarsi a chiedere un accertamento della questione incidenter tantum, senza che tale scelta osti all’ammissibilità della domanda di rilascio, trattandosi di antecedente logico non controverso.

In tema di legittimazione passiva, la partecipazione al riparto in base al bilancio finale di liquidazione non costituisce una condizione di ammissibilità delle domande svolte dai creditori insoddisfatti nei confronti dei soci della società estinta, bensì un limite di responsabilità (conf. Cass., S.U., n. 6070/2013). Siffatto limite, pertanto, risulta inapplicabile qualora si controverta non già su crediti pecuniari insoddisfatti dal liquidatore, ma su rapporti giuridici non definiti all’esito della liquidazione, segnatamente, sui diritti discendenti dal contratto di leasing e sui beni oggetto del medesimo contratto, nonché sul correlato credito restitutorio in capo a parte concedente. Per altro verso, in punto di legittimazione passiva, la circostanza che il bene possa essere di fatto occupato da un soggetto terzo non incide sulla corretta formulazione della domanda di rilascio nei confronti dei soci succeduti, trattandosi di domanda fondata sul rapporto di leasing, che deve necessariamente essere proposta nei confronti della controparte contrattuale. In tal senso, l’eventuale presenza di un soggetto terzo all’interno dei locali può rilevare unicamente in executivis, ma non influenza la valutazione in punto di legittimazione passiva.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso da una banca con ricorso ex art. 702-bis c.p.c., ai fini del rilascio delle unità immobiliari sulla base del contratto di leasing, risolto dalla concedente ex art. 1456 c.c., stante il persistente inadempimento all’obbligazione di pagamento dei canoni da parte dell’utilizzatrice (nel caso di specie una s.r.l., posta in liquidazione e cancellata dal Registro delle Imprese). In particolare, la ricorrente agiva nei confronti dei soci della s.r.l. e nei confronti di una s.r.l.-c.r., quale soggetto occupante sine titulo degli immobili, già affittuaria del ramo d’azienda della s.r.l., comprensivo del diritto di godimento derivante dal rapporto di leasing in esame.

I soci eccepivano: i) l’incompetenza territoriale del Tribunale di Brescia, in favore del Tribunale di Vicenza (luogo di residenza dei convenuti) ovvero del Tribunale di Treviso (eccezione sollevata anche dalla s.r.l.-c.r.), nella cui circoscrizione era stato concluso il contratto, era sito l’immobile di cui si chiedeva il rilascio e andava eventualmente adempiuta l’obbligazione richiesta dalla ricorrente, ritenendo la clausola di scelta di foro convenzionale esclusivo, contenuta nel contratto di leasing, inopponibile ai soci del contraente estinto; ii) la nullità o inefficacia della clausola, in quanto generica e inidonea ad escludere la competenza di altri fori nonché contrastante con gli artt. 1341 e 1342 c.c.; iii) la carenza di legittimazione passiva, allegando di non avere riscosso alcuna somma in forza del bilancio di liquidazione della società cancellata;  iv) la mancata formulazione di una domanda di accertamento della risoluzione del rapporto di locazione finanziaria, con conseguente impossibilità di accoglimento della domanda di rilascio. 

Il Tribunale di Brescia, in merito alla competenza territoriale, dichiarava che la cognizione della causa andava devoluta alla competenza del Tribunale di Treviso, in quanto: a) pur se il contratto di leasing in esame conteneva una clausola (c.d. clausola di scelta del foro che può essere efficacemente opposta ai soci succeduti alla società nel rapporto contrattuale) che nitidamente rimetteva alla competenza del Tribunale di Brescia ogni controversia comunque discendente dal contratto, ad esclusione di qualsiasi altra competenza concorrente, la domanda in esame era di tipo extracontrattuale; b) a tacer della diversità di soggetti destinatari del rispettivo petitum, la causa petendi della domanda svolta nei confronti della s.r.l., oltre a essere del tutto autonoma, non dipendeva affatto da quella che identificava la domanda svolta nei confronti degli altri convenuti, trattandosi in un caso di causa petendi reale (occupazione sine titulo) e nell’altro di causa petendi contrattuale. 

Il Tribunale respingeva l’eccezione di carenza legittimazione passiva, poiché: a) il limite di responsabilità della partecipazione al riparto in base al bilancio finale di liquidazione risultava inapplicabile, posto che si controverteva su rapporti giuridici non definiti all’esito della liquidazione, segnatamente sui diritti discendenti dal contratto di leasing e sui beni oggetto del medesimo contratto nonché sul correlato credito restitutorio in capo a parte concedente; b) l’eventuale presenza di un soggetto terzo all’interno dei locali non influenzava la valutazione in punto di legittimazione passiva dei convenuti.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 10 luglio 2019 – Presidente relatore: Dott. Donato Pianta

In
ipotesi di controversia tra privati, un cittadino ed una società per azioni,
avente per oggetto la misura degli interessi dovuti in forza di un contratto di
diritto privato, sia pure disciplinato da norme speciali, e quindi di una
controversia nella quale si controverte di diritti soggettivi, sussiste la
giurisdizione ordinaria.

In
materia di buoni postali fruttiferi, se l’ufficio postale è indicato, sui detti
titoli, come soggetto debitore/pagatore, al quale i titolari dei buoni devono
rivolgersi per assicurarsi il pagamento di quanto loro spettante, sussiste la
legittimazione passiva dell’ufficio postale.

I principi sono stati espressi nel giudizio di
appello promosso avverso la sentenza del Tribunale che aveva condannato la
società appellante a versare in favore dell’appellato una somma a titolo di
rimborso di sette buoni postali fruttiferi, costituita dal capitale originario
e dall’ammontare degli interessi legali dall’introduzione della domanda
giudiziale sino al saldo.

In particolare, l’appellante lamentava di non essere
titolare del rapporto
obbligatorio controverso ed eccepiva
il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in favore del giudice
amministrativo.

(Massime
a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 7 gennaio 2020 – Giudice designato: Dott. Raffaele Del Porto

In tema di condominio, l’art. 1130, n. 4, c.c., che attribuisce all’amministratore il potere di compiere atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio, deve interpretarsi estensivamente nel senso che, oltre agli atti conservativi necessari ad evitare pregiudizi a questa o a quella parte comune, l’amministratore ha il potere – dovere di compiere analoghi atti per la salvaguardia dei diritti concernenti l’edificio condominiale unitariamente considerato; pertanto, rientra nel novero degli atti conservativi di cui all’art. 1130, n. 4, c.c. l’azione di cui all’art. 1669 c.c. intesa a rimuovere i gravi difetti di costruzione, nel caso in cui questi riguardino l’intero edificio condominiale e i singoli appartamenti, vertendosi in una ipotesi di causa comune di danno che abilita alternativamente l’amministratore del condominio e i singoli condomini ad agire per il risarcimento, senza che possa farsi distinzione tra parti comuni e singoli appartamenti o parte di essi soltanto (conf., ex multis, Cass. n. 2436/2018 e Cass. n. 22656/2010).

Con riferimento all’azione ex art. 1669 c.c. va affermata la legittimazione passiva in favore: a) dell’appaltatore, soggetto espressamente contemplato dall’art. 1669 c.c.; b) del progettista e del direttore dei lavori (conf. Cass. n. 17874/2013, secondo cui “l’ipotesi di responsabilità regolata dall’art. 1669 cod. civ. in tema di rovina e difetti di immobili ha natura extracontrattuale e conseguentemente nella stessa possono incorrere, a titolo di concorso con l’appaltatore che abbia costruito un fabbricato minato da gravi difetti di costruzione, tutti quei soggetti che, prestando a vario titolo la loro opera nella realizzazione dell’opera, abbiano contribuito, per colpa professionale (segnatamente il progettista e/o il direttore dei lavori), alla determinazione dell’evento dannoso, costituito dall’insorgenza dei vizi in questione”); e c) del c.d. “venditore costruttore”, ossia “il venditore che, sotto la propria direzione e controllo, abbia fatto eseguire sull’immobile successivamente alienato opere di ristrutturazione edilizia ovvero interventi manutentivi o modificativi di lunga durata, che rovinino o presentino gravi difetti” e che pertanto “ne risponde nei confronti dell’acquirente ai sensi dell’art. 1669 c.c.” (conf. Cass. n. 18891/2017 e Cass. n. 9370/2013, secondo cui “l’azione di responsabilità per rovina e difetti di cose immobili, prevista dall’art. 1669 cod. civ., può essere esercitata anche dall’acquirente nei confronti del venditore che risulti fornito della competenza tecnica per dare direttamente, o tramite il proprio direttore dei lavori, indicazioni specifiche all’appaltatore esecutore dell’opera, gravando sul medesimo venditore l’onere di provare di non aver avuto alcun potere di direttiva o di controllo sull’impresa appaltatrice, così da superare la presunzione di addebitabilità dell’evento dannoso ad una propria condotta colposa, anche eventualmente omissiva”).

I principi che regolano la responsabilità dell’appaltatore ex art. 1667 c.c. per le difformità ed i vizi dell’opera sono applicabili anche nell’ipotesi di responsabilità per la rovina ed i gravi difetti dell’edificio, prevista dall’art. 1669 c.c. e, pertanto, il riconoscimento di tali difetti e l’impegno del costruttore di provvedere alla loro eliminazione – che non richiedono forme determinate e possono, quindi, risultare anche da fatti concludenti desumibili dalle stesse riparazioni eseguite sull’opera realizzata – concretano elementi idonei ad ingenerare un nuovo rapporto di garanzia che, pur restando circoscritto ai difetti che si manifestino in dieci anni dall’originario compimento dell’opera, si sostituisce a quello originario e che, conseguentemente, da un lato impedisce il decorso della prescrizione dell’azione di responsabilità, stabilita in un anno dalla denuncia, in base all’ultimo comma del ricordato art. 1669 c.c. e, dall’altro lato lascia impregiudicata, qualora il difetto – nonostante le riparazioni apportate – riemerga prima che siano decorsi i dieci anni a cui, in applicazione di detta norma, deve restare commisurata la responsabilità del costruttore, la possibilità di fare valere ulteriormente la garanzia ivi prevista (conf. Cass. n. 4936/1981 e Cass. n. 20853/2009, secondo cui “in tema di appalto, l’esecuzione da parte dell’appaltatore di riparazioni a seguito di denuncia dei vizi dell’opera da parte del committente deve intendersi come riconoscimento dei vizi stessi e, pertanto, il termine decennale di prescrizione di cui all’art. 1669 cod. civ. comincia a decorrere “ex novo” dal momento in cui il committente consegua un apprezzabile grado di conoscenza oggettiva della gravità dei difetti. Ne consegue che, nel caso in cui la sufficiente conoscenza dei difetti sia raggiunta solo dopo l’esecuzione delle riparazioni ed in conseguenza dell’inefficacia di queste, il termine prescrizionale deve farsi decorrere da questo successivo momento e non dall’esecuzione delle riparazioni”).

In tema di appalto, i gravi difetti di costruzione che danno luogo alla garanzia prevista dall’art. 1669 c.c. non si identificano necessariamente con vizi influenti sulla staticità dell’edificio ma possono consistere in qualsiasi alterazione che, pur riguardando soltanto una parte condominiale, incida sulla struttura e funzionalità globale dell’edificio, menomandone il godimento in misura apprezzabile, come nell’ipotesi di infiltrazioni d’acqua e umidità 

nelle murature (conf. Cass. 27315/2017, Cass. n. 84/2013 e 20644/2013 secondo cui “in tema di appalto, l’operatività della garanzia di cui all’art. 1669 cod. civ. si estende anche ai gravi difetti della costruzione che non riguardino il bene principale (come gli appartamenti costruiti), bensì i viali di accesso pedonali al condominio, dovendo essa ricomprendere ogni deficienza o alterazione che vada ad intaccare in modo significativo sia la funzionalità che la normale utilizzazione dell’opera, senza che abbia rilievo in senso contrario l’esiguità della spesa occorrente per il relativo ripristino”).

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso dal condominio che con atto di citazione ha convenuto in giudizio il costruttore, la società venditrice e il progettista e direttore lavori, per ottenerne la condanna in solido al risarcimento di tutti i danni derivanti da vizi o difformità dell’immobile condominiale, consistenti essenzialmente in: distacchi dei rivestimenti lapidei utilizzati nei camminamenti e cortili pedonali; ammaloramento della copertura dell’ingresso pedonale comune; distacchi diffusi degli intonaci dei muretti interni e della recinzione perimetrale; presenza di infiltrazioni diffuse nei controsoffitti dei porticati comuni.

(Massime a cura di Marika Lombardi)