Tribunale di Brescia, sentenza del 15 dicembre 2022, n. 3032 – società a responsabilità limitata, fallimento, azione di responsabilità amministratore, art. 2476 c.c.

Per l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore di una società di capitali non è sufficiente invocare genericamente il compimento di atti di “mala gestio” e riservare una più specifica descrizione di tali comportamenti nel corso del giudizio, atteso che per consentire alla controparte l’approntamento di adeguata difesa, nel rispetto del principio processuale del contraddittorio, la “causa petendi” deve sin dall’inizio sostanziarsi nell’indicazione dei comportamenti asseritamente contrari ai doveri imposti agli amministratori dalla legge o dallo statuto sociale. Ciò vale tanto che venga esercitata un’azione sociale di responsabilità quanto un’azione dei creditori sociali, perché anche la mancata conservazione del patrimonio sociale può generare responsabilità non già in conseguenza dell’alea insita nell’attività di impresa, ma in relazione alla violazione di doveri legali o statutari che devono essere identificati già nella domanda nei loro estremi fattuali (cfr. Cass n. 23180/2013 e Cass. n. 28669/2013). Tale onere di specifica allegazione si estende a tutti gli elementi costitutivi dell’azione di responsabilità sicché l’attore deve fornire indicazioni altrettanto puntuali in ordine all’esistenza del danno, del suo ammontare e del fatto che esso sia stato causato dal comportamento illecito di un determinato soggetto (cfr. Cass. n. 7606/2011).

Costituisce violazione degli obblighi di corretta gestione societaria, azionabile in via risarcitoria dalla curatela fallimentare, il comportamento degli amministratori che, sia negli anni anteriori alla messa in liquidazione della società che successivamente, hanno sistematicamente omesso di provvedere al regolare pagamento dei debiti tributari e contributivi, in tal modo palesando la loro incapacità di correttamente gestire le risorse finanziare sociali ed arrecando pregiudizio al patrimonio sociale, quantificabile nell’aggravio del debito originario, aumentato per accessori, sanzioni, interessi e somme aggiuntive.

L’omessa rilevazione della perdita del capitale sociale e la conseguente prosecuzione indebita dell’attività di impresa, con conseguente aggravio del deficit comportano, per giurisprudenza ormai costante (recepita d’altronde dall’art. 2486, comma terzo, nuovo testo, c.c.), la responsabilità risarcitoria degli amministratori per un importo coincidente – di norma – proprio con l’incremento del deficit patrimoniale (al netto, peraltro, dei cc.dd. costi normali di liquidazione), secondo il noto criterio della differenza fra netti patrimoniali. Tuttavia, l’effettivo aggravio del deficit non può, come ovvio, ritenersi coincidente col mero dato dell’incremento del debito bancario, che potrebbe essere, in ipotesi, opportunamente bilanciato dall’incremento di poste attive (o dalla corrispondente diminuzione di altre poste passive).

Princìpi espressi in relazione ad una causa promossa dal fallimento di una società a responsabilità limitata che ha convenuto in giudizio gli amministratori della stessa per ottenerne la condanna, in solido, al risarcimento dei danni cagionati alla società, poi fallita, in conseguenza di vari atti di mala gestio compiuti.

(Massime a cura di Carola Passi)




Sentenza del 3 gennaio 2022, n. 1 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Angelica Castellani

Qualora vengano contestate all’organo amministrativo,
in aggiunta alla violazione dell’art. 2486 c.c., specifiche operazioni dannose
che risultino perfezionate nel corso della fase di illegittima prosecuzione
dell’attività sociale (accertata nel suo carattere antigiuridico, in uno con
l’addebito logicamente presupposto di infedele rappresentazione in bilancio
della reale situazione economica, finanziaria e patrimoniale della società),
anche la porzione di depauperamento del patrimonio specificamente imputabile
alle suddette specifiche operazioni concorre alla formazione del risultato di
esercizio e, quindi, al deficit finale, senza che possano selezionarsi
perdite, direttamente e in via esclusiva, conseguenti ai singoli addebiti,
essendo soggetti a sterilizzazione i soli costi normali di liquidazione.

La valutazione della portata lesiva delle operazioni
dannose singolarmente contestate all’organo amministrativo risulta, pertanto,
assorbita dall’accertata lesività dell’illegittima prosecuzione dell’attività
d’impresa, per la quale il danno è stato quantificato non in via analitica,
bensì mediante il criterio presuntivo codificato dal terzo comma dell’art. 2486
c.c.; trattasi di un criterio utilizzabile qualora i dati contabili a
disposizione impediscano una ricognizione dell’aggravamento patrimoniale
specificamente riconducibile alle singole perdite operative nette derivate.

Nel caso di specie, il Tribunale
aveva rilevato che, pur ricorrendo la causa di scioglimento prevista dall’art.
2484, primo comma, n. 4), c.c., il convenuto avesse continuato a gestire la
società proseguendone l’attività, senza tuttavia provvedere alle iniziative
imposte dalla legge; con ciò aggravandone il dissesto. Su tali basi, i giudici
di secondo grado hanno condannato l’amministratore unico di una società – successivamente
dichiarata fallita – al risarcimento dei danni sofferti dalla società medesima
e dai creditori sociali derivanti dalle condotte di
mala gestio allo stesso
contestate.

(Massime a cura di Eugenio Sabino)




Decreto del 2 settembre 2021 – Presidente: Dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice relatore: Dott. Stefano Franchioni

Ai sensi dell’art. 81 l.f. il contratto d’appalto si scioglie per il fallimento di una delle parti se il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, non dichiara di voler subentrare nel rapporto dandone comunicazione all’altra parte nel termine di 60 giorni dalla dichiarazione di fallimento (conf. Cass. n. 3854/2019).

Principi espressi in caso di rigetto di opposizione allo stato passivo; il Tribunale ha evidenziato che il contratto di appalto non aveva ad oggetto la fornitura di merci, ma la consegna di un impianto elevatore. Nel dettaglio è stato osservato che non erano stati richiesti la rivendica del materiale fornito, il controvalore e neppure il riconoscimento del compenso per la parte di opera eseguita in proporzione al prezzo pattuito per l’intera opera. 

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza del 5 gennaio 2021 – Giudice designato: Dott. Stefano Franchioni

Ai sensi dell’art. 67, comma 2, l.f. sono revocati i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili compiuti entro sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento, se la curatela dimostra che l’altra parte conosceva lo stato d’insolvenza del debitore e, laddove alla domanda di concordato preventivo sia seguita la dichiarazione di fallimento, l’art. 69 bis, comma 2, l.f. prevede la retrodatazione del termine iniziale di decorrenza del c.d. “periodo sospetto” al giorno della pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese. 

Rappresentano circostanze che consentono di fondare l’accertamento della scientia decoctionis la mancanza di contestazioni da parte della debitrice circa l’esistenza dei crediti azionati, l’accettazione da parte della creditrice di pagamenti rateali del debito a fronte della disponibilità di un titolo giudiziale esecutivo, l’inadempimento della debitrice rispetto ai primi due piani di rientro accordati ed il pagamento del terzo piano di rientro mediante cambiali (conf. Cass. n. 24937/2007). 

La prova della scientia decoctionis non è ricavabile dalla mera esistenza di esecuzioni individuali in quanto non soggette a forme pubblicitarie. Siffatta prova può essere raggiunta attraverso la dimostrazione della diffusione di notizie sulla situazione di dissesto in cui versa una società di rilevanti dimensioni in considerazione dell’elevatissimo numero di procedure esecutive incardinate tra gli operatori del settore territorialmente contigui (conf. Cass. n. 5256/2010).

Principi espressi in caso di accoglimento della domanda ex art 67 l.f., con la quale il fallimento ha agito per la revoca di pagamenti eseguiti dalla società in bonis nel semestre anteriore alla pubblicazione nel registro delle imprese del ricorso per concordato preventivo c.d. “con riserva” presentato dalla società poi fallita. 

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Decreto del 3 settembre 2020 – Presidente: Dott. Gianluigi Canali – Giudice relatore: Dott. Stefano Franchioni

Ai sensi dell’art. 61, comma 2, l.f., il “regresso tra i coobbligati falliti può essere esercitato solo dopo che il creditore sia stato soddisfatto integralmente”. Ne consegue che il regresso verso il fallito è consentito non solo all’altro coobbligato fallito (come testualmente recita la norma), ma anche agli altri coobbligati (o fideiussori) in bonis che abbiano integralmente estinto le ragioni di credito del creditore comune, atteso che la posizione del creditore che, pur ricevendo parzialmente il pagamento da un coobbligato fallito, mantiene il diritto ad ottenere l’intero negli altri fallimenti, è sostanzialmente identica a quella del creditore che, dopo la dichiarazione di fallimento, riceve un pagamento parziale da un coobbligato (o fideiussore) in bonis.

L’art. 61, comma 2, l.f. risponde all’esigenza di assicurare la stabilità della situazione esistente al momento della dichiarazione di fallimento, mantenendola ferma fino a che il credito principale non scompaia per intero dal passivo, onde evitare che si creino, per effetto dei pagamenti da parte dei coobbligati e dell’esercizio dell’azione di regresso contro i falliti, duplicazioni di concorso dello stesso credito nel passivo, con conseguenti duplicazioni di accantonamenti in sede fallimentare a favore di una stessa pretesa creditoria, tali da comportare una diminuzione della massa ripartibile fra gli altri creditori. 

È rilevante, ai fini dell’ammissibilità tanto della surrogazione quanto del regresso, che l’adempimento risulti integrale ex parte creditoris, cioè idoneo ad estinguere la pretesa che il creditore comune abbia insinuato o possa insinuare al passivo del fallimento, indipendentemente dal fatto che, attraverso il pagamento, il coobbligato abbia totalmente assolto la propria obbligazione. Diversamente opinando, potrebbe risultare pregiudicato lo stesso diritto del creditore comune di vedere soddisfatto sul ricavato il credito che residua all’esito del pagamento effettuato dal coobbligato, in contrasto con il principio, ribadito dall’art. 61, comma 1, per l’ipotesi di fallimento di uno o più coobbligati e dall’art. 62, comma 1, per l’ipotesi di pagamento parziale eseguito anteriormente alla dichiarazione di fallimento, secondo cui nelle obbligazioni solidali il creditore può agire nei confronti di ciascuno dei coobbligati fino alla completa soddisfazione del proprio credito (conf. Cass. n. 3216/2012).

L’insinuazione del creditore rimane inalterata fino al suo integrale pagamento con conseguente irrilevanza, ai fini della partecipazione al concorso, degli adempimenti parziali eseguiti dal coobbligato (o dal fideiussore) successivamente alla dichiarazione di fallimento, ancorché idonei ad esaurire l’obbligazione del solvens (conf. Cass. n. 26003/2018). 

Principi espressi relativi al rigetto di opposizione allo stato passivo: il Tribunale ha affermato che l’art. 61 l.f. è disposizione speciale che disciplina il concorso tra i coobbligati in caso di fallimento del debitore comune, con la conseguenza che il pagamento solamente parziale (ex parte creditoris) è inidoneo a fondare l’ammissione al passivo tanto in via surrogatoria che in via di regresso, giacché l’adempimento deve essere  integrale e idoneo a estinguere le pretese che il creditore comune abbia insinuato o possa insinuare al passivo del fallimento, indipendentemente dal fatto che, con il pagamento, il coobbligato abbia assolto alla propria obbligazione.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza del 10 gennaio 2018 – Presidente: Dott. Donato Pianta – Consigliere estensore: Dott. Giuseppe Magnoli

Al fine di ritenere sussistente la responsabilità degli
amministratori e dei sindaci di una società fallita ex art. 146 L.
Fall., è necessario che l’attore offra elementi decisivi per dimostrare che
esistevano elementi tali da dover indurre a considerare le proiezioni future
come false e totalmente infondate, dal momento chela valutazione della
condotta degli amministratori deve essere effettuata ex ante e non ex
post
. Il fatto che siano state maturate delle perdite non è di per sé
indice di responsabilità, soprattutto laddove queste siano sempre state
evidenziate nei bilanci e gli organi sociali abbiano provveduto a coprirle.

La richiesta di rinvio a giudizio, che si risolve nella mera
indicazione dei capi d’accusa, così come le sentenze di patteggiamento a carico
degli amministratori non forniscono di per sé elementi probatori sufficienti a
dimostrare la responsabilità ex art. 146 L. Fall.

Principi
espressi all’esito del processo di appello promosso dalla curatela di un
fallimento avverso la sentenza di primo grado che aveva negato la
responsabilità degli amministratori e sindaci della fallita ai sensi dell’art.
146 L. Fall.

(Massime
a cura di Lorena Fanelli)




Sentenza del 16 maggio 2017 – Giudice estensore: dott. Stefano Franchioni

Nel caso in cui il fallimento di un consorzio agisca per ottenere la condanna dei consorziati, enti pubblici, al pagamento di una somma a titolo di ripianamento delle perdite subite e ad essi imputabili, nonché a titolo di ristoro delle spese sostenute per loro conto e dei danni sofferti, non trova fondamento l’eccezione di carenza di giurisdizione del giudice ordinario a favore di quella del giudice amministrativo, poiché si tratta di una controversia avente ad oggetto posizioni di diritto soggettivo derivanti da ragioni di credito, che, dunque, non rientra tra quelle concernenti la formazione, conclusione ed esecuzione di un accordo tra pubbliche amministrazioni ai sensi dell’art. 15 della l. 241/1990.

Nel caso in cui il fallimento di un consorzio faccia valere in giudizio un diritto già ricompreso nel patrimonio del fallito, la clausola compromissoria contenuta nello statuto dell’ente fallito, che demanda ad un arbitro la definizione delle controversie tra consorziati e tra questi ed il consorzio, è ad esso opponibile, anche alla luce del principio generale secondo il quale dal fallimento dell’ente non consegue l’estinzione dello stesso (arg. ex art. 118 l. fall.).

Principi espressi in ipotesi di accoglimento dell’eccezione di incompetenza del giudice ordinario in relazione ad una domanda proposta dal fallimento di un consorzio avente ad oggetto il ripianamento, da parte dei consorziati (enti pubblici), delle perdite subite e ad essi imputabili, nonché il ristoro delle spese sostenute per loro conto e dei danni sofferti, alla luce della clausola compromissoria prevista nello statuto del consorzio. Il Tribunale ha ritenuto opponibile al fallimento detta clausola, posto che il curatore, nell’esercitare diritti del fallito già ricompresi nel suo patrimonio alla data del fallimento, ne deve sopportare i relativi limiti, tra i quali rientra, a pieno titolo, l’operatività della clausola compromissoria.

Sent. 16.5.2017

(Massima a cura di Roberta Benedini)

 




Decreto del 16 dicembre 2016 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Stefano Franchioni

Ai sensi dell’art. 2, comma 1, l. n. 443/1985, è imprenditore artigiano colui che esercita l’impresa artigiana svolgendo in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale nel processo produttivo. Ne consegue che a specificazione del criterio della prevalenza per il caso in cui l’impresa sia organizzata in forma societaria, il successivo art. 3 subordina il riconoscimento della qualifica di impresa artigiana all’accertamento di due requisiti: a) che la maggioranza dei soci, ovvero uno nel caso di due soci, svolga in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo; b) che nell’impresa il lavoro abbia funzione preminente sul capitale, non essendo sufficienti l’iscrizione nell’albo delle imprese artigiane ed il mancato superamento dei limiti fissati dalla legge quadro quanto al numero dei dipendenti.

Il legislatore superando i criteri generali dell’art. 2083 c.c. ha inteso ancorare il riconoscimento del privilegio artigiano ai parametri dettati dalla legge quadro 443/1985.

Principi espressi nel rigetto dell’opposizione allo stato passivo per il mancato riconoscimento del privilegio artigiano. 

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza dell’11 giugno 2016, n. 1797 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott.ssa Angelina Augusta Baldissera

Le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori spettanti alla società e ai creditori, in caso di fallimento della società, confluiscono nell’unica azione di responsabilità esercitabile da parte del curatore ai sensi dell’art. 146 l. fall., ma i presupposti delle due azioni rimangono immutati.

In particolare, in tema di prescrizione, il termine, in ogni caso quinquennale, decorre, nell’azione sociale di cui all’art. 2393 c.c., dalla cessazione dell’amministratore dalla carica, mentre, nell’azione di responsabilità verso i creditori, dal momento in cui l’insufficienza patrimoniale è oggettivamente conoscibile dai creditori.

(Conforme a Cass. nn. 10378/2012; 15955/2012).

L’omessa tenuta dei libri contabili, sebbene rappresenti senz’altro un grave inadempimento degli obblighi di corretta gestione e costituisca un ostacolo ad una ricostruzione dell’andamento dell’impresa, non può tuttavia giustificare l’imputazione all’amministrazione del deficit fallimentare, non essendo neppure astrattamente configurabile un nesso di causalità tra la predetta condotta omissiva e il danno per il patrimonio della società.

(Conforme a Cass. S.U. n. 9100/2015).

In caso di omissione di tenuta dei libri contabili, l’attribuzione della responsabilità risarcitoria agli amministratori presuppone la verifica della sussistenza delle specifiche condotte illecite ai medesimi imputate. Tuttavia, il mancato rinvenimento di beni durevoli e di rilevante importo iscritti alla voce “immobilizzazioni materiali”, fa sorgere a carico degli amministratori una presunzione di distrazione dei predetti beni, che gli stessi sono tenuti a confutare.

Il valore contabile, ossia il c.d. costo storico, di beni durevoli generalmente non coincide con il valore di realizzo sul mercato, risultando tendenzialmente superiore per effetto della obsolescenza, del deperimento e della specificità dei beni. Sicché, ai fini della quantificazione del danno da risarcire in conseguenza della distrazione dei predetti beni, appare congruo “abbattere” il medesimo costo storico del 50%.

Il componente del consiglio di amministrazione non può eccepire il proprio disinteresse per la società al fine di esimersi da responsabilità, essendo tale disinteresse piuttosto indice di condotta omissiva colposa sanzionata dall’art. 2476 c.c.

La responsabilità degli amministratori non può essere graduata in relazione alle colpe di ciascun amministratore: ai sensi dell’art. 2476 c.c. gli amministratori rispondono nei confronti del danneggiato in solido, potendosi semmai proporre, nei rapporti interni, domande di regresso.

Principi espressi in ipotesi di accoglimento di ricorso promosso dal curatore fallimentare di s.r.l., ex art. 146 l. fall., ai fini dell’accertamento della responsabilità per mala gestio degli amministratori, conseguente a condotte distrattive ai danni della società medesima.

Sent. 11.6.2016, n. 1797

(Massima a cura di Marika Lombardi)