Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 18 ottobre 2023, n. 1567 – locazione finanziaria, contratto di leasing, mancata indicazione del TAEG/ISC e contestata violazione degli articoli 117 TUB e 1346 c.c.

I contratti di leasing non fanno parte di quelle categorie contrattuali per le quali è obbligatoriamente prevista la specificazione del TAEG. Il TAEG/ISC rappresenta un mero indicatore di costo che non costituisce un tasso di interesse o una specifica condizione economica da applicare al contratto di finanziamento, ma svolge unicamente una funzione informativa finalizzata e limitata ad esprimere il costo totale effettivo dell’operazione per il cliente nel momento in cui accede al finanziamento.

In considerazione della funzione esclusivamente informativa del TAEG/ISC, in quanto espressione in termini percentuali del costo complessivo del finanziamento, deve escludersi che esso costituisca una condizione economica direttamente applicabile al contratto e possa considerarsi un tasso, o prezzo, o condizione la cui erronea indicazione sia sanzionata dall’art. 117 TUB.

La disciplina antiusura si applica agli interessi moratori, intendendo essa sanzionare la pattuizione di interessi eccessivi convenuti al momento della stipula del contratto quale corrispettivo per la concessione del denaro, ma anche la promessa di qualsiasi somma usuraria sia dovuta in relazione al contratto concluso. La mancata indicazione dell’interesse di mora nell’ambito del T.e.g.m. non preclude l’applicazione dei decreti ministeriali, che contengono la rilevazione del tasso medio praticato dagli operatori professionali, statisticamente rilevato in modo oggettivo ed unitario, essendo questo idoneo a rendere evidente che una clausola sugli interessi moratori sia usuraria. Se i decreti ministeriali non prevedono neppure l’indicazione della maggiorazione media dei moratori, resta il termine di confronto del T.e.g.m. così come rilevato, con la maggiorazione ivi prevista.

Le categorie degli interessi corrispettivi e degli interessi moratori sono distinte nel diritto delle obbligazioni; infatti, secondo gli artt. 820, 821 e 1284 c.c. l’interesse in una operazione di finanziamento è dato dalla somma dell’obbligo di restituzione del denaro preso a prestito e del costo del denaro; mentre l’interesse moratorio, contemplato dall’art 1224 c.c., rappresenta il danno che nelle obbligazioni pecuniarie il creditore subisce a causa dell’inadempimento del debitore. È diversa l’intensità del c.d. rischio creditorio sottesa alla determinazione della misura degli interessi corrispettivi e di quelli moratori: se i primi considerano il presupposto della puntualità dei pagamenti dovuti, i secondi incorporano l’incertezza dell’an e del quando, per cui il creditore deve ricomprendervi il costo della attivazione degli strumenti di tutela del diritto insoddisfatto, che non di meno deve soggiacere ai limiti antiusura. Al pari degli interessi corrispettivi per i quali è stata introdotta normativamente la qualificazione oggettiva della fattispecie usuraria mediante il tasso soglia, anche per gli interessi moratori l’identificazione dell’interesse usurario passa dal tasso medio statisticamente rilevato, in modo altrettanto oggettivo ed unitario nei decreti ministeriali, riconoscendo quindi che le rilevazioni di Banca d’Italia sulla maggiorazione media prevista nei contratti del mercato a titolo di interesse moratorio possono fondare la fissazione di un c.d. tasso soglia limite. Considerato che per ogni contratto deve essere preso in considerazione il d.m. vigente all’epoca della stipula, in ragione della esigenza primaria di tutela del finanziato, è necessario comparare il Teg del singolo rapporto, comprensivo degli interessi moratori in concreto applicati, con il Tegm via via rilevato in detti decreti, con la precisazione che il margine di tolleranza previsto a questo superiore sino alla soglia usuraria, può garantire uno spazio di operatività all’interesse moratorio lecitamente applicato.

Principi espressi nell’ambito del giudizio d’appello avviato dalla società utilizzatrice nei confronti della società di leasing concedente volto, tra l’altro, ad accertare la nullità delle clausole del contratto di leasing finanziario che stabilirebbero interessi in misura superiore al tasso soglia-usura; a dichiarare nullo lo stesso contratto per indeterminatezza e genericità dell’oggetto; ad accertare la violazione dell’art. 117 TUB per mancata indicazione del tasso TAEG. La Corte d’Appello, nel rigettare l’appello proposto, conferma principi già espressi dal Tribunale di primo grado.

(Massime a cura di Cristina Evanghelia Papadimitriu)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza dell’11 aprile 2023, n. 623 – segnalazione alla Centrale Rischi di una posizione “in sofferenza”, segnalazione di una posizione “ad incaglio”, contratto di leasing

La segnalazione di una posizione “in sofferenza” presso la Centrale Rischi della Banca d’Italia richiede una valutazione, da parte dell’intermediario, riferibile alla complessiva situazione finanziaria del cliente e non può, quindi, scaturire dal mero ritardo nel pagamento del debito o dal volontario inadempimento, ma deve essere determinata dal riscontro di una situazione patrimoniale deficitaria, caratterizzata da una grave e non transitoria difficoltà economica equiparabile, anche se non coincidente, con la condizione d’insolvenza (cfr. Cass. n. 15609/2014).

In tema di leasing, la sospensione dei pagamenti protrattasi anche solo per diversi mesi giustifica la segnalazione alla Centrale Rischi, come “in sofferenza”, atteso che, ai fini di tale segnalazione, la nozione di insolvenza non si identifica con quella propria fallimentare, ma si concretizza in una valutazione negativa della situazione patrimoniale, apprezzabile come “deficitaria”, ovvero come di “grave difficoltà economica”, senza, quindi, alcun riferimento al concetto di incapienza o irrecuperabilità e senza che assuma rilievo la manifestazione di volontà di non adempiere, che sia giustificata da una seria contestazione sull’esistenza del credito (cfr. Cass. n. 1447/2019).

L’appostazione a sofferenza del credito non può essere frutto dalla sola analisi del singolo o degli specifici rapporti in essere tra la banca segnalante e il cliente e implica, piuttosto, una valutazione della situazione patrimoniale complessiva del debitore. Le Istruzioni della Banca d’Italia indicano lo stato di insolvenza non come definitiva irrecuperabilità o incapienza, bensì come una situazione di insolvenza “levior” rispetto a quella indicata dalla legge fallimentare, quindi una situazione patrimoniale deficitaria, di grave difficoltà economica non transitoria. Poiché l’appostazione a sofferenza implica una valutazione da parte dell’intermediario della complessiva situazione finanziaria del cliente e non può scaturire automaticamente da un mero ritardo di quest’ultimo nel pagamento del debito, ne consegue che ciò che rileva è la situazione “oggettiva” di incapacità finanziaria (incapacità non transitoria di adempiere alle obbligazioni assunte), mentre nessun rilievo assume la manifestazione di volontà di non adempimento, se giustificata da una seria contestazione sull’esistenza del titolo del credito vantato dalla banca. Pertanto, il giudice chiamato a valutare la legittimità di una segnalazione alla Centrale dei Rischi non deve limitarsi a prendere atto che il debito oggetto della segnalazione era effettivamente dovuto, ma con valutazione ex ante deve verificare: (i) dal punto di vista oggettivo, se le ragioni addotte dal debitore a fondamento del rifiuto di pagamento fossero sorrette almeno da un fumus di fondatezza; (ii) dal punto di vista soggettivo, se il debitore potesse ritenersi in buona fede nel momento in cui quelle ragioni ha accampato. È, infatti, evidente che il debitore non potrebbe pretendere di sottrarsi alle conseguenze giuridiche del proprio inadempimento (tra le quali rientra anche la segnalazione alla Centrale dei Rischi) né sollevando eccezioni che egli ben sapeva essere pretestuose né sollevando eccezioni senza accertare, con un minimo di diligenza, se esse fossero giuridicamente sostenibili (cfr. Cass. n. 3130/2021).

Per effettuare la segnalazione alla Centrale Rischi non è necessario che la concedente debba attendere che il cliente raggiunga uno stato di definitiva incapacità di far fronte alle proprie obbligazioni, attesa la funzione e l’utilità della segnalazione stessa e il sistema in cui essa si inscrive, volto a rendere noto agli operatori economici la situazione deficitaria conclamata di determinati soggetti, al fine di evitare l’alterazione del mercato creditizio, concedendo credito a soggetti incapienti. Tuttavia, la segnalazione di una posizione di rischio tra le sofferenze non è più dovuta quando viene a cessare lo stato di insolvenza o la situazione ad esso equiparabile.

La revoca retroattiva della segnalazione a “sofferenza”, sostituita con la segnalazione ad “incaglio”, non ha valore confessorio da parte della concedente, in mancanza di ulteriori elementi univoci in tal senso.

La segnalazione di una posizione “ad incaglio”, posta a confronto con la segnalazione “a sofferenza”, è certamente più favorevole per il segnalato, considerati i presupposti sulla quale la stessa si fonda. Il fatto che l’incaglio si basi su una situazione di temporanea difficoltà, che si ritiene possa essere sanata in tempi ragionevoli e non su una situazione di difficoltà economica grave e non transeunte, fa sì che tale segnalazione ponga il soggetto in una posizione più favorevole nei confronti del mercato creditizio e dell’accesso al credito.

I principi sono stati espressi nel giudizio di appello proposto dall’utilizzatore di un contratto di leasing finanziario contro la sentenza di primo grado che aveva rigettato la domanda, dal medesimo proposta, di risarcimento danni da illegittima segnalazione alla Centrale Rischi della Banca d’Italia e aveva dichiarato inammissibile la domanda riconvenzionale, proposta dalla società concedente, per il pagamento della penale per estinzione anticipata del contratto, avente ad oggetto un’imbarcazione (ancora in via di costruzione).

In particolare, l’appellante impugnava la sentenza di prime cure per: (i) violazione delle norme contenute nella Circolare di Banca d’Italia n. 139/1991, oltre che l’errata valutazione degli elementi di prova; (ii) violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere il Tribunale statuito in merito ai motivi dell’inadempimento che avrebbero determinato società concedente a procedere alla segnalazione, nonostante tali motivi non rientrassero nell’oggetto del giudizio, pronunciandosi dunque su fatti e situazioni estranei alla materia del contendere; (iii) violazione del disposto di cui all’art. 112 c.p.c. e omessa pronuncia relativamente alla domanda di condanna della società concedente all’immediata cancellazione della segnalazione per incaglio.

Rilevato che la segnalazione operata dalla società concedente appariva del tutto legittima (e tanto si è potuto affermare non solo con riferimento alla segnalazione a sofferenza, ma, a maggior ragione
anche per la segnalazione ad incaglio), in quanto: (
i) l’utilizzatore aveva dimostrato, con il proprio contegno, di versare in una situazione complessiva di difficoltà economica e, in sostanza, aveva ammesso nelle proprie comunicazioni che il contratto era divenuto eccessivamente oneroso e di non essere in grado di adempiere all’obbligo di pagamento assunto con il contratto di leasing; e (ii) che mancavano i presupposti della pretesa responsabilità a carico della concedente su cui l’appellante fondava la pretesa risarcitoria (rimanendo assorbita ogni questione circa l’esistenza e la prova del danno), la Corte adita rigettava l’appello e confermava la sentenza impugnata.

(Massime a cura di Simona Becchetti)




Tribunale di Brescia, sentenza del 21 marzo 2023, n. 642 – contratto di leasing, usurarietà del tasso di interesse, scostamento tra tasso di leasing e tasso praticato, interessi moratori

In tema di contratti di leasing, l’interesse ad agire per la declaratoria di usurarietà degli interessi moratori sussiste anche nel corso dello svolgimento del rapporto contrattuale e non solo ove i presupposti della mora si siano già verificati, ciò perché l’interesse ad agire in un’azione di mero accertamento non implica necessariamente l’attualità della lesione di un diritto, essendo sufficiente uno stato di incertezza oggettiva. In particolare, nel corso dello svolgimento del rapporto contrattuale si dovrà avere riguardo al tasso-soglia applicabile al momento dell’accordo, mentre, ove i presupposti della mora, la valutazione di usurarietà riguarderà l’interesse concretamente praticato dopo l’inadempimento.

Pertanto, ove il contratto di leasing immobiliare sia in essere alla data di introduzione del giudizio, l’interesse giuridicamente apprezzabile della società utilizzatrice ad agire per ottenere la – eventuale – declaratoria di nullità (per usurarietà) della pattuizione relativa agli interessi moratori, consiste nell’evitarne l’applicazione nell’ipotesi di un proprio – futuro ed eventuale – inadempimento.

L’eventuale (lieve) difformità tra il tasso di leasing contrattualmente indicato e il tasso di leasing effettivamente applicato potendo dipendere da diverse variabili (ive incluse, il pagamento in via eventualmente anticipata anziché posticipata degli interessi, la rateazione dell’obbligo di restituzione) non significa che vi sia stata applicazione di un tasso di interesse difforme dal tasso annuo nominale, né tantomeno viene in rilievo un fenomeno di anatocismo. Pertanto, dalla dedotta difformità non potrebbe mai derivare la nullità parziale del contratto ai sensi dell’articolo 117 t.u.b. con conseguente applicazione del tasso legale sostitutivo (sia esso quello previsto dall’articolo 117, comma settimo, t.u.b. per il caso di inosservanza dei commi quarto e sesto ovvero quello previsto dall’art. 1284 c.c.), né la necessaria prevalenza del primo tasso (indicato) sul secondo (concretamente applicato), risultando perciò escluso il diritto dell’utilizzatore di ripetere gli importi (in ipotesi) versati in eccedenza. Potrebbe se del caso ravvisarsi (in caso di significativa difformità) responsabilità civile per inadempimento dell’obbligazione di trasparenza, ove l’utilizzatore alleghi e provi, che qualora il tasso di leasing fosse stato correttamente rappresentato non avrebbe stipulato il contratto o lo avrebbe stipulato altrove a più favorevoli condizioni.

La pattuizione di interessi moratori in misura usuraria ha natura autonoma e, pertanto, l’eventuale nullità della stessa non si estenda a quella relativa agli interessi corrispettivi, qualora leciti.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso da una società, utilizzatrice, nei confronti di società di leasing finalizzato a far accertare l’usuriarietà della pattuizione relativa agli interessi e/o la nullità della relativa pattuizione per indeterminatezza del tasso contrattuale.

Nella vicenda oggetto del giudizio, in particolare, la società aveva stipulato un contratto di leasing avente ad oggetto l’acquisto di un immobile in relazione al quale, secondo la ricostruzione dell’attore, le previsioni contrattuali relative agli interessi risultavano viziate per: (i) applicazione di un “Tasso Leasing applicato” (TAE) superiore al “Tasso Leasing contrattuale” (TAN); (ii) usurarietà del tasso stabilito per gli interessi moratori; e (iii) indeterminatezza del tasso contrattuale.

A tal fine, la società richiedeva, inter alia, l’accertamento: (i) in via principale, della nullità del contratto di leasing, con condanna della società convenuta alla restituzione, in favore della società, di tutte le somme pagate che non siano imputabili al solo capitale finanziato; (ii) in via subordinata, della nullità della pattuizione relativa agli interessi corrispettivi, ex art. 117, comma sesto, t.u.b., quale conseguenza dell’indicazione di un TAN inferiore TAE, con conseguente rideterminazione del piano di ammortamento mediante applicazione del tasso sostitutivo ex art. 117, comma settimo, lett. a), t.u.b.; e (iii) in ulteriore subordine, della nullità per usurarietà della pattuizione relativa agli interessi moratori, con conseguente gratuità del contratto ex art. 1815 c.c. e condanna della società concedente alla restituzione di tutto quanto indebitamente percepito a titolo di interessi.

Il Tribunale ha rigettato le domande proposte dalla parte attrice nei confronti della società di leasing e, per pertanto, ha condannato la società al pagamento delle spese di lite.

(Massime a cura di Giorgio Peli)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 22 dicembre 2022, n. 1555 – contratto di leasing, interessi usurari

Come statuito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. SS.UU, n. 19597/2020), seppure l’interesse moratorio vada computato nel calcolo dell’usura, la sua eventuale nullità riguarda solo tal sorta d’interesse, sicché è da escludere che, in caso di accertata usurarietà, la sanzione ex art. 1815, c. 2, c.c. si estenda anche agli interessi corrispettivi, determinandosi così la gratuità del contratto.

Qualora nel contratto venga previsto un tasso alternativo in caso di cessazione del parametro di riferimento per il calcolo del tasso corrispettivo, non si avrà comunque alcun vizio di indeterminatezza dell’obbligazione relativa agli interessi del contratto di leasing quando il tasso alternativo sia “acquisibile” dal debitore (come accade ad esempio qualora si faccia riferimento a un tasso medio d’interesse con cui un gran numero di istituti bancari europei effettuano le operazioni interbancarie di scambio di denaro nell’area Euro, il quale viene costantemente reso noto su tutti i quotidiani economici, i siti web e le riviste di settore

L’applicazione per il calcolo degli interessi di un parametro c.d. “Euribor manipolato” (in ragione di un’intesa anticoncorrenziale da parte di istituti di credito), non ha alcuna rilevanza sulla validità del riferimento al parametro e men che meno sulla determinabilità dell’oggetto del contratto stipulato da imprese estranee all’accordo, non potendo l’accertata intesa restrittiva della concorrenza produrre effetti sui contratti stipulati da imprese del tutto estranee a essa; tutt’al più, potrebbe residuare una pretesa risarcitoria, per il maggior costo subito, da esercitare nei confronti delle imprese che abbiano preso parte all’accordo.

Nel contratto di leasing, quando siano esplicitati tutti gli elementi per poter calcolare le rate, essendo così soddisfatti i requisiti richiesti dall’art. 117 T.U.B., non vi è alcuna necessità di allegare un “piano di ammortamento”, il quale non costituisce un elemento essenziale del contratto.

Princìpi esposti nel contesto di un’impugnazione in appello, volta ad accertare anzitutto la gratuità di un contratto di leasing in ragione dell’asserita nullità degli interessi di mora previsti nel contratto ai sensi dell’art. 1815, c. 2, c.c. (la quale in thesi si sarebbe estesa anche a quelli corrispettivi), nonché l’indeterminatezza dell’oggetto del contratto e la violazione dell’art. 117 T.U.B. per indeterminatezza del tasso pattuito e poiché non sarebbe stata specificata la composizione delle rate, anche considerata la nullità della clausola determinativa degli interessi in ragione dell’applicazione di un parametro Euribor manipolato. La Corte d’Appello ha rigettato nel merito la domanda svolta in via principale – diversamente dalla decisione del giudice di prime cure che aveva dichiarato l’inammissibilità della domanda in primo grado per carenza di interesse ad agire –, asserendo, in linea con la recente giurisprudenza delle Sezioni Unite, che, seppure l’interesse moratorio vada computato nel calcolo dell’usura, la sua eventuale nullità riguarda solo tal sorta d’interesse. La Corte ha altresì rigettato nel merito le ulteriori censure, ritenendo sufficiente ai fini della determinabilità degli interessi il riferimento al tasso “Euribor tre mesi lettera”, anche se non ne era stato indicato il valore specifico alla stipula, e altresì sufficienti ai fini dell’art. 117 T.U.B. gli elementi previsti nel contratto per il calcolo delle rate, del tasso e i relativi parametri.

(Massime a cura di Giovanni Gitti)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 19 dicembre 2022, n. 1528 – contratto di leasing, clausola penale, restituzione dei canoni

Il giudicato sostanziale conseguente alla mancata opposizione di un decreto ingiuntivo copre non soltanto l’esistenza del credito azionato, del rapporto di cui esso è oggetto e del titolo su cui il credito ed il rapporto stessi si fondano, ma anche l’inesistenza di fatti impeditivi, estintivi e modificativi del rapporto e del credito precedenti al ricorso per ingiunzione e non dedotti con l’opposizione. Tuttavia, il giudicato non si estende ai fatti successivi allo stesso ed a quelli che comportino un mutamento del “petitum” ovvero della “causa petendi” in seno alla domanda rispetto al ricorso esaminato dal decreto esecutivo.

In un contratto di leasing, la clausola penale che prevede, oltre all’immediata restituzione del bene, anche la definitiva acquisizione da parte della società di leasing di quanto l’utilizzatore aveva corrisposto durante la vigenza del contratto, è pienamente legittima e compatibile con l’art. 1526 c.c. in quanto, al comma primo tale norma prevede per il venditore l’obbligo di restituzione delle rate riscosse e il diritto al pagamento di equo compenso per l’uso della cosa (in aggiunta logicamente alla restituzione del bene di proprietà), mentre al secondo comma statuisce che i contraenti possano convenire che le rate pagate restino acquisite al venditore a titolo d’indennità; inoltre sempre il comma primo fa salvo il diritto del venditore al risarcimento del danno, e la quantificazione del danno ben può essere preventivamente determinata dalle parti con clausola penale.

In un contratto di leasing, la clausola penale è coerente con l’esigenza di riequilibrare la posizione delle parti, in quanto consente alla società concedente di recuperare integralmente il finanziamento erogato, comprensivo dell’utile sperato sino al momento in cui il contratto ha avuto regolare esecuzione, ponendola nella stessa situazione in cui si sarebbe trovata se l’utilizzatore avesse esattamente adempiuto e restando, d’altro canto, esclusa la possibilità di un ingiustificato arricchimento della medesima concedente, atteso l’obbligo di quest’ultima di imputare a credito dell’utilizzatore il valore del bene oggetto del contratto di leasing, dallo stesso restituito.

I principi sono stati espressi nell’ambito di un giudizio d’appello promosso da una società che aveva sottoscritto un contratto di leasing con una banca, la quale aveva prima agito in via monitoria, ingiungendo all’utilizzatrice il pagamento di una somma a titolo di canoni di leasing non pagati e, successivamente, si aveva risolto di diritto il contratto di leasing per inadempimento dell’utilizzatore stesso. Nel giudizio di primo grado, la società utilizzatrice conveniva in giudizio la concedente affinché fosse (i) accertata e dichiarata la nullità della clausola relativa alla determinazione degli interessi convenzionali e moratori usurai e, conseguentemente, fossero dichiarati non dovuti interessi ai sensi dell’art. 1815 c.c.; (ii) accertato che tra le parti era stato stipulato un contratto di leasing traslativo e che la risoluzione comportava, ai sensi dell’art. 1526 c.c. la restituzione dei canoni già pagati e riscossi e, per l’effetto, la società di leasing fosse condannata a restituire le somme riscosse a titolo di canone. Il Tribunale di Brescia, richiamando recente giurisprudenza di legittimità, accoglieva l’eccezione di giudicato della società di leasing convenuta, affermando che la sentenza che aveva respinto l’opposizione al decreto ingiuntivo con cui era stato intimato alla società utilizzatrice il pagamento di una somma a titolo di canoni di leasing non pagati, faceva stato tra le parti non solo sull’esistenza e validità del rapporto contrattuale e sulla misura del canone di leasing preteso, ma anche in ordine all’inesistenza di fatti impeditivi o estintivi non dedotti ma deducibili nel giudizio di opposizione, per cui doveva ritenersi escluso per il conduttore/utilizzatore la possibilità di eccepire la nullità delle clausole del contratto di leasing.

Nel giudizio di appello la società utilizzatrice chiedeva la riforma della sentenza fondata su due motivi di gravame e l’accoglimento delle domande già avanzate in primo grado. In particolare l’appellante contestava che il giudicato concernente il pagamento di alcuni canoni potesse paralizzare la domanda ex art. 1526 c.c. di restituzione dei canoni già pagati e riscossi e la condanna della società di leasing alla restituzione delle somme percepite a titolo di pagamento dei canoni di leasing, in quanto all’epoca di emissione del decreto ingiuntivo non era ancora intervenuta la risoluzione del contratto di leasing, posteriore di circa un anno, sicché la predetta domanda di restituzione non poteva essere dedotta nel giudizio di opposizione. Chiedeva quindi, nel merito, che la società di leasing fosse condannata ex art. 1526 c.c. alla restituzione dei canoni già pagati e riscossi.

La Corte d’Appello ha rigettato l’appello principale proposto dell’utilizzatore e confermato la sentenza del Tribunale. Il Collegio ha ritenuto, infatti, non sussistenti i presupposti per l’accoglimento della domanda di condanna della concedente alla restituzione dei canoni di leasing riscossi in esecuzione del contratto, i quali, in base al regolamento pattizio, era previsto che restassero a mani della concedente in caso di risoluzione contrattuale.

(Massime a cura di Roberta Ponzoni)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 25 novembre 2022, n. 1403 – contratto di leasing

La disciplina antiusura si applica agli interessi moratori essendo la stessa finalizzata a sanzionare non solo la pattuizione di interessi eccessivi convenuti al momento della stipula del contratto quale corrispettivo per la concessione del denaro, ma anche la promessa di qualsiasi somma usuraria dovuta in relazione al contratto. In conseguenza dell’accertamento dell’usurarietà degli interessi moratori, ai sensi dell’art. 1815, comma 2, c.c., non saranno dovuti gli interessi moratori pattuiti, ferma restando, ai sensi dell’art. 1224, comma 1, c.c., la debenza degli interessi corrispettivi lecitamente convenuti, in relazione ai quali, dunque, nessuna pretesta restitutoria può essere giustificata e, pertanto, trovare accoglimento. La soglia sopra la quale gli interessi moratori sono da considerarsi usurari, infatti, va calcolata autonomamente rispetto agli interessi corrispettivi, in forza del principio per cui interessi moratori e corrispettivi hanno cause diverse e sono dovuti in momenti ben distinti, donde la scorrettezza di una loro mera sommatoria e del loro raffronto a un unico parametro.

L’inserimento di una c.d. “clausola di salvaguardia” in forza della quale l’eventuale fluttuazione del saggio di interessi convenzionale dovrà essere comunque mantenuta entro i limiti del c.d. “tasso soglia” antiusura di cui all’art. 2, comma 4, della legge 108/1997, trasforma il divieto legale di pattuire interessi usurari nell’oggetto di una specifica obbligazione contrattuale a carico della banca consistente nell’impegno a non applicare mai, per tutta la durata del rapporto, interessi in misura superiore a quella massima consentita dalla legge. Pregiudiziale rispetto all’insorgenza dell’onere della banca di provare l’adempimento del predetto impegno assunto ai sensi della clausola di salvaguardia è però l’onere del debitore di provare il superamento del tasso soglia antiusura.

I principi sono stati espressi nell’ambito del giudizio di appello avverso sentenza di primo grado relativa a tre contratti di leasing immobiliari finalizzato ad, inter alia (i) accertare il superamento del tasso soglia d’usura di cui alla legge 108 del 1996 e, per l’effetto, rielaborare il piano dei pagamenti senza alcuna applicazione di interessi e determinare le somme indebitamente versate a titolo di interessi usurari, (ii) accertare che il tasso di mora alla data di stipula fosse superiore al tasso soglia di usura di cui alla legge n. 108 del 1996, (iii) accertare che il tasso leasing contrattuale non sia conforme al tasso effettivo globale e, pertanto, venga applicato il tasso sostitutivo di cui all’art. 117, settimo comma, d. lgs n. 285/1993. Inoltre, quale conseguenza dei predetti accertamenti, l’appellante ha richiesto di (i) dichiarare la nullità delle clausole contenenti le condizioni economiche dei predetti contratti di locazione finanziaria per la usurarietà degli interessi in essi pattuiti, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 1815, comma 2, c.c., (ii) imputare a capitale tutte le somme da essa pagate a titolo di interesse, nonché accertare e determinare le eventuali residue somme dovute a saldo e, pertanto, (iii) condannare la società di leasing al pagamento dei compensi e delle spese di giudizio.

La Corte d’Appello ha rigettato l’appello e, per l’effetto, ha confermato la sentenza impugnata. Pertanto la Corte d’Appello ha condannato alle spese legali l’appellante – utilizzatore dei contratti di leasing – risultato soccombente.

(Massime a cura di Emanuele Taddeolini Marangoni)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 13 settembre 2022, n. 1083 – contratto di fideiussione bancaria, contratto di leasing, clausola penale

La data non costituisce un elemento essenziale del contratto e, pertanto, la mancata indicazione della stessa, così come la mancata indicazione del luogo di sottoscrizione non determina la nullità della fideiussione a garanzia concessa a garanzia delle obbligazioni relative ad un determinato rapporto contrattuale, salvo che sia imposta dalla legge.

Nell’ipotesi di risoluzione anticipata per inadempimento dell’utilizzatore, le parti possono convenire, ai sensi di una clausola penale, l’irrepetibilità dei canoni già versati da quest’ultimo prevedendo la detrazione, dalle somme dovute al concedente, dell’importo ricavato dalla futura vendita del bene restituito, essendo tale clausola coerente con la previsione contenuta nell’art. 1526, secondo comma, c.c. la quale risulta applicabile analogicamente per i contratti di leasing traslativo conclusi anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 1, commi 136 e ss., l. n. 124 del 2017.

In materia di leasing traslativo, le parti possono convenire, ai sensi dell’art. 1526 c.c., applicabile in via analogica, l’irripetibilità dei canoni versati al concedente in esito alla risoluzione del contratto, la cui natura di clausola penale ne preclude, nel giudizio successivamente instaurato, la rilevabilità d’ufficio e la deducibilità dopo il decorso dei termini di cui all’art. 183 c.p.c. trattandosi di eccezione in senso stretto.

Ai fini della riducibilità della clausola penale, ai sensi dell’art. 1384 c.c., occorre considerare se detta pattuizione attribuisca allo stesso concedente vantaggi maggiori di quelli conseguibili dalla regolare esecuzione del contratto, in quanto il risarcimento del danno spettante al concedente deve essere tale da porlo nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se l’utilizzatore avesse esattamente adempiuto. Pertanto, non è riducibile una clausola penale che riconosca alla concedente una somma non superiore a quanto avrebbe ottenuto dall’adempimento e congruo il prezzo di vendita dei beni restituiti. L’utilizzatore può comunque contestare che il prezzo di vendita non sia conforme al valore di mercato, chiedendo l’accertamento di quest’ultimo al fine di conseguire una ulteriore riduzione dell’importo dovuto a titolo di penale e, se del caso, la restituzione dell’eventuale esubero.

I principi sono stati espressi nell’ambito del giudizio di appello relativo alla sentenza di primo grado con la quale era stata rigettata l’opposizione avverso il decreto ingiuntivo ai sensi del quale gli opponenti erano stati condannati al pagamento a favore della società di leasing, inter alia, al risarcimento del danno derivante dalla risoluzione per ritardato pagamento dei canoni relativi a tre contratti di leasing aventi ad oggetto autoveicoli e conclusi anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 1, commi 136 e ss., l. n. 124 del 2017. L’appellante, in particolare, ai sensi dell’atto di appello ha, inter alia, richiesto di accertare (i) la nullità della fideiussione per mancata indicazione della data sulla stessa, (ii) la nullità della clausola penale prevista dai predetti contratti di leasing per indeterminatezza e indeterminabilità dell’oggetto, (iii) l’eccessiva onerosità della clausola penale e, pertanto, la sua riduzione d’ufficio.

La Corte d’Appello ha confermato la sentenza di primo grado ed ha rigettato l’appello con condanna degli appellanti alle spese legali.

(Massime a cura di Giovanbattista Grazioli)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 13 luglio 2022, n. 944 – contratto di leasing, buona fede ed esercizio della clausola risolutiva espressa, art. 1526 c.c., legittimazione processuale del cessionario

Il principio di buona fede, in quanto principio cardine e generale dell’ordinamento, impone di valutare il comportamento dei contraenti sia al momento dell’esecuzione del contratto, sia nel momento patologico dell’inadempimento e della sua risoluzione, senza tuttavia che ciò inverta l’onere della prova nel caso di inadempimento né sovverta il principio in materia di clausola risolutiva espressa riguardo la non sindacabilità della gravità dell’inadempimento pattiziamente predeterminata. In quest’ultima ipotesi, l’indagine della buona fede – da accertarsi sia sul piano oggettivo della condotta che su quello soggettivo della colpa – va ricondotta al momento in cui l’obbligato ha tenuto il comportamento previsto in contratto e la controparte si è avvalsa della predetta clausola. L’attesa del concedente nell’avvalersi della clausola risolutiva espressa anche a seguito del susseguirsi di una serie di inadempimenti da parte dell’utilizzatore, quanto al piano oggettivo della condotta, e la mancata dimostrazione da parte dell’utilizzatore che, nonostante l’uso della normale diligenza, non sia in grado di adempiere alle obbligazioni derivanti dal contratto di leasing per causa a lui non imputabile, quanto al profilo soggettivo della colpa, indicono a considerare legittimo e non connotato da malafede l’utilizzo della clausola risolutiva espressa, anche a fronte del rifiuto della società di leasing a rinegoziare il relativo contratto. 

Alla risoluzione del leasing traslativo, i cui presupposti si siano verificati anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 124 del 2017, si applica analogicamente la disciplina di cui all’art. 1526 c.c. e, pertanto, ove la risoluzione del predetto contratto derivi da un inadempimento dell’utilizzatore, lo stesso ha diritto alla restituzione delle rate pagate solo previa restituzione del bene, dal momento che solo dopo tale restituzione il concedente potrà trarre dalla cosa ulteriori utilità e sarà possibile determinare il c.d. “equo compenso” ad esso spettante per il mero godimento garantito all’utilizzatore nel periodo di durata del contratto. Tuttavia, con riferimento al contratto di leasing, occorre tenere in considerazione l’interesse del concedente che è quello di ottenere l’integrale restituzione della somma erogata a titolo di finanziamento unitamente a interessi, spese e utili dell’operazione e non la restituzione dell’immobile che costituisce piuttosto una garanzia alla restituzione del finanziamento. Pertanto, nel leasing la riconsegna dell’immobile è insufficiente, quale risarcimento del danno, ove non avvenga la restituzione del finanziamento e il valore dell’immobile non ne copra l’intero importo.

In caso di cessione di crediti nell’ambito di un’operazione di cartolarizzazione ex legge 30 aprile 1999 n. 130, ove vi sia contestazione circa la legittimazione del cessionario, è onere di chi assuma di avere, in forza della cessione, acquisito la legittimazione attiva ad agire, sia pure ai soli fini dell’intervento ex art. 111 c.p.c., allegare e dimostrare la effettiva estensione del suo titolo di acquisto sul piano oggettivo in relazione ai rapporti e ai crediti che si assumono essere stati acquistati e, cioè, fornire la prova che il rapporto sia compreso tra quelli compravenduti nell’ambito dell’operazione di cessione in blocco.

I principi sono stati espressi nell’ambito del giudizio di appello promosso dall’utilizzatore avverso l’ordinanza ex articolo 702-ter c.p.c. emessa all’esito del giudizio sommario di cognizione di primo grado, nel quale l’utilizzatore-convenuto, a fronte dell’accertamento della risoluzione di diritto per clausola risolutiva espressa del contratto di leasing immobiliare e condanna all’immediato rilascio dell’immobile oggetto del contratto, oltre al pagamento delle spese di lite, chiedeva, in via riconvenzionale, (i) l’inefficacia dell’utilizzo della clausola risolutiva espressa asserendo un suo utilizzo contrario a buona fede, (ii) l’applicazione analogica del disposto dell’art. 1526 c.c. (condannando la società concedente alla restituzione di tutti i canoni percepiti, dedotto l’equo compenso ad essa spettante per il godimento, da parte dell’utilizzatore, del bene concesso in leasing) e (iii) di accertare la carenza di legittimazione ad agire in capo alla società intervenuta nel giudizio quale cessionaria del credito derivante dal predetto contratto di leasing.

Con sentenza, la Corte d’Appello (i) ha rigettato integralmente l’appello formulato dall’utilizzatore, rilevando, tra l’altro, che la pretesa restituzione dei canoni versati in eccedenza (o la riduzione della clausola penale per eccessiva onerosità) è preclusa dal mancato rilascio del bene che impedisce la sua ricollocazione sul mercato da parte del concedente, non potendosi prospettare alcun credito dell’utilizzatrice in relazione all’asserito esubero di valore del bene e (ii) ha condannato alle spese di lite l’appellante.

(Massime a cura di Emanuele Taddeolini Marangoni)




Sentenza del 4 maggio 2021, n. 1220 – Giudice designato: Dott. Raffaele Del Porto

Secondo la sentenza delle Sezioni Unite n.19597/2020, anche gli
interessi moratori possono avere natura usuraria e, tuttavia, l’autonomia della
relativa pattuizione fa sì che l’eventuale nullità della stessa non si estenda
a quella relativa agli interessi corrispettivi, qualora pattuiti in misura
lecita.

Secondo la medesima sentenza delle Sezioni Unite n. 19597/2020,
sussiste l’interesse dell’utilizzatore ad agire, anche in caso di svolgimento
regolare del rapporto in corso, per vedere accertata la nullità di una clausola
sugli interessi moratori “perché (cfr., fra le altre, Cass., 31 luglio 2015, n.
16262) l’interesse ad agire in un’azione di mero accertamento non implica
necessariamente l’attualità della lesione di un diritto, essendo sufficiente
uno stato di incertezza oggettiva”.

La previsione di risoluzione anticipata del
contratto di leasing è da ricondurre alla disciplina della clausola
penale, con la conseguenza che il rimedio applicabile nel caso di manifesta
eccessività della penale pattuita non è quello della gratuità del contratto di
cui all’art. 1815 c.c., bensì quello della reductio ad aequitatem della
penale eccessiva contemplato dall’art 1384 c.c.  

In caso di scostamento tra il tasso di leasing indicato e
quello concretamente applicato, laddove gli interessi concretamente corrisposti
dalla società utilizzatrice siano addirittura inferiori a quelli ricavabili in
base al piano di ammortamento sulla base del tasso contrattuale, è da
escludersi la indeterminatezza del tasso pattuito (in presenza di uno
scostamento non significativo, ed anzi irrisorio) e la sussistenza di un
diritto alla restituzione degli importi pagati in eccedenza (nel caso di
specie, insussistenti).

La difformità tra il tasso di leasing ed il tasso
effettivamente praticato può dipendere da diverse variabili: anche se detta
difformità si risolve a vantaggio della banca, con un suo arricchimento di
fatto, ciò non significa che vi sia stata applicazione di un tasso di interesse
difforme dal tasso annuo nominale (né tantomeno viene in rilievo un fenomeno di
anatocismo). Lo scostamento (di lieve entità) rilevato tra il tasso leasing
indicato rispetto a quello effettivamente applicato assume pertanto natura
fisiologica, poiché il primo si esprime su base annua indipendentemente dalla
periodicità dei pagamenti previsti.

Dalla difformità tra il tasso di leasing ed il tasso
effettivamente praticato non potrebbe mai derivare la nullità parziale del
contratto ai sensi dell’art. 117 TUB, ma potrebbe, se del caso,
ravvisarsi (in ipotesi di significativa difformità) responsabilità civile per
inadempimento dell’obbligazione di trasparenza, ove l’utilizzatore alleghi e
provi, ad esempio, che, qualora il tasso leasing fosse stato
correttamente rappresentato, egli non avrebbe stipulato il contratto o lo
avrebbe stipulato altrove a più favorevoli condizioni.

Non sussiste violazione delle norme in materia di trasparenza
laddove il contratto di leasing evidenzi, in modo sufficientemente
chiaro, le condizioni economiche applicate al finanziamento, quali ad esempio:
la durata dell’operazione, il corrispettivo globale della locazione
finanziaria, il numero e l’ammontare dei canoni, la periodicità e la
decorrenza, il prezzo per l’eventuale acquisto alla scadenza del contratto, il
parametro di indicizzazione, il tasso degli interessi di mora, il tasso interno
di attualizzazione e le singole spese.

Principi espressi all’esito del giudizio promosso da una società a
responsabilità limitata che chiedeva accertarsi l’usurarietà del tasso di
interesse in relazione a due contratti di
leasing,
il primo mobiliare ed il secondo immobiliare, e di conseguenza dichiararsi la
gratuità dei contratti in questione, con restituzione delle somme non dovute, o
in subordine la rideterminazione dei tassi di interesse e la restituzione di
quanto indebitamente incassato dalla società di
leasing.

(Massime a cura di Lorena Fanelli)




Ordinanza del 5 febbraio 2021 – Presidente: Dott.ssa Alessia Busato – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

In tema di contratto di leasing, il
ricorso al tasso sostitutivo ex art. 117 del d.lgs. 385/1993 trova
applicazione nelle ipotesi, invero eccezionali, in cui non sia assolutamente
determinabile il tasso di interesse del rapporto, situazione che non ricorre
nel caso in cui il corrispettivo del rapporto e le altre condizioni economiche
sono illustrate chiaramente nel frontespizio del contratto.

In tema di contratto di leasing,
sotto il profilo della trasparenza, è sufficiente che il testo del contratto
riporti il “tasso leasing”, mentre il t.a.e.g. va indicato solo se la parte
utilizzatrice gode della disciplina di favore riservata ai consumatori;
inoltre, eventuali difformità tra il tasso di leasing e quello in concreto
praticato non rappresentano vizi idonei a incidere sulla validità del
contratto.

I principi sono stati espressi nel
giudizio di reclamo promosso da una s.r.l., in qualità di utilizzatrice,
avverso l’ordinanza che ha disposto il rilascio dell’immobile alla medesima
concesso in godimento a seguito della risoluzione del contratto di
leasing.

(Massime a cura di Marika Lombardi)