Ordinanza del 28 luglio 2020 – Giudice: Dott.ssa Angelica Castellani

Per
ravvisare l’esistenza di un rapporto di concorrenza fra due imprenditori è
sufficiente la configurabilità di un’area di interferenza tra attività dagli
stessi svolte, non essendo necessaria la totale sovrapponibilità tra le
medesime.

La
valutazione della capacità distintiva di un segno registrato come marchio va
effettuata sulla base della percezione che di esso abbia il pubblico
destinatario dei prodotti o dei servizi contraddistinti, sicché un marchio
descrittivo, costituito da segni denominativi privi di capacità distintiva, può
essere considerato valido quando, a seguito del consolidarsi del suo utilizzo
sul mercato, risulti aver acquisito nel tempo una sua capacità distintiva
(conf. Cass. n. 8119/2009).

La
prova dell’acquisizione del secondary meaning può essere fornita non
solo per il tramite di apposita indagine demoscopica, ma anche mediante altri
elementi indiziari osservati nel loro complesso (campagne promozionali e
pubblicitarie realizzate dal titolare del segno, numero di visitatori del sito
internet, numero di operatori del settore con i quali l’operatore collabora sin
dall’inizio dell’attività).

In
caso di utilizzo indebito della componente denominativa del marchio di un
concorrente, integrante anche nucleo essenziale della denominazione sociale e
del nome a dominio di questo, anche laddove i segni distintivi non abbiano
assunto, con l’uso prolungato nel tempo e la rinomanza notoriamente acquisita,
i connotati di un marchio “forte”, si deve escludere che scarsi elementi di
differenziazione, di per sé privi di adeguato valore individualizzante,
aggiunti al nucleo fondamentale dei segni distintivi altrui siano idonei a
svolgere funzione di diversificazione.

Ai
sensi dell’art 22 c.p.i., che sancisce il principio dell’unitarietà dei diritti
sui segni distintivi, può costituire violazione dei diritti esclusivi spettanti
al titolare di un marchio registrato l’uso da parte di un terzo di un segno
identico o simile a detto marchio come ditta, denominazione, ragione sociale,
nome a dominio o insegna in presenza di un rischio di confusione che può
consistere anche in un rischio di associazione, ovvero, in caso di marchio
rinomato, allorquando l’uso contestato dia luogo ad un pregiudizio per il
titolare del marchio o a un indebito vantaggio per l’utilizzatore del segno.

A
prescindere da specifiche violazioni di diritti di esclusiva ex artt. 12, 20 e
22 c.p.i., si ritengono integrate le fattispecie di concorrenza sleale di cui
all’art 2598, nn. 1 e 3, c.c. qualora l’elevato grado di somiglianza tra i
segni utilizzati dalle imprese concorrenti generi da un lato, il rischio di
associazione tra le stesse in termini di confusione circa l’origine
imprenditoriale dei servizi da queste offerti e, dall’altro, determini
l’indebito sfruttamento del valore attrattivo dei segni dell’impresa di più
antica costituzione e, di riflesso, della notorietà della stessa.

Nell’ambito di un procedimento
cautelare per ottenere la tutela dei propri diritti di esclusiva, in punto
di  periculum in mora  le ragioni di urgenza vanno ravvisate nella
persistente utilizzazione da parte della resistente dei segni distintivi in
titolarità della ricorrente all’interno del proprio marchio, della propria
denominazione sociale e del domain name dalla stessa registrato, nonché
nel pregiudizio di natura economica – da apprezzarsi necessariamente in termini
delibativi e probabilistici – collegato all’indebito sfruttamento degli
investimenti della ricorrente. Tali condotte lesive, infatti, possiedono una
intrinseca attitudine a sviare la clientela della ricorrente e a cagionare di
conseguenza a quest’ultima un danno di difficile quantificazione e riparazione.
Inoltre, la pericolosità di tali condotte è aggravata dalla promozione dei
propri servizi tramite web, che consente per sua natura di raggiungere
in breve tempo un numero indefinito di consumatori.

Principi
espressi in sede di accoglimento di un ricorso promosso in via cautelare ex
artt. 131 e 133 c.p.i., 700 c.p.c. e 2564 c.c. da una società attiva nel
settore della pubblicità legale delle procedure esecutive e fallimentari per
ottenere nei confronti di una concorrente la tutela dei propri diritti di esclusiva
sul segno di cui è titolare, registrato come nome a dominio e integrante
componente denominativa del proprio marchio italiano ed europeo, nonché nucleo
essenziale della propria denominazione sociale.

(Massime
a cura di Giorgio Peli)




Ordinanza del 20 dicembre 2019 – Giudice designato: Dott. Lorenzo Lentini

In tema di società a responsabilità limitata, deve ritenersi esclusa la possibilità di proporre ante causam la richiesta cautelare di cui all’art. 2476, comma 3, c.c. (conf., ex multis, Trib. Brescia 26.07.2010).

Le motivazioni di detto orientamento sono note e fondate, in primo luogo, sul tenore letterale della norma, ove è previsto che il socio possa “altresì chiedere, in caso di gravi irregolarità nella gestione della società, che sia adottato provvedimento cautelare di revoca degli amministratori” (connettendo l’iniziativa cautelare di revoca all’esercizio dell’azione di responsabilità), nonché sull’intenzione del legislatore, ricavabile dalla relazione ministeriale illustrativa della riforma di cui al d.lgs. 6/2003, ove si legge (par. 11) che “….da questa soluzione consegue coerentemente il potere di ciascun socio di promuovere l’azione sociale di responsabilità e di chiedere con essa la provvisoria revoca giudiziale dell’amministratore in caso di gravi irregolarità”. 

Detta interpretazione trova conforto anche in indicazioni di carattere sistematico, quali la presenza nell’ordinamento del diritto societario post riforma di ulteriori ipotesi di provvedimenti cautelari ammissibili esclusivamente in corso di causa: si pensi, ad esempio, al rimedio previsto dall’art. 2378, comma 3, c.c. con riferimento alla sospensione dell’esecuzione della deliberazione assembleare oggetto di impugnazione. 

Infine non può essere trascurata la constatazione generale che la portata di un provvedimento cautelare di revoca degli amministratori, che incide significativamente nella vita di una società di capitali, richiede in capo al giudice un livello adeguato di conoscenza delle ragioni a fondamento dell’azione di responsabilità, ragioni che, di regola, soltanto l’esame dell’atto introduttivo del giudizio di merito (anche se affidato alla cognizione arbitrale) può consentire di conoscere. 

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso con ricorso ex art. 700 c.p.c. dal socio di minoranza di una società a responsabilità limitata contro i componenti dell’organo amministrativo, con cui chiedeva al Tribunale di disporsi in via cautelare la revoca degli amministratori ai sensi dell’art. 2476, comma 3, c.c.

A sostegno della domanda il ricorrente esponeva la sussistenza di gravi irregolarità gestorie e, in particolare, la violazione dell’art. 2359-quinquies c.c., commessa nell’ambito di una operazione di conferimento di ramo d’azienda a favore della controllante, deliberata dall’assemblea della società.

In punto di periculum in mora, il ricorrente lamentava la persistente reiterazione da parte dell’organo di amministrazione di condotte volte al “drenaggio di risorse a favore della controllante”, condotte che il provvedimento cautelare richiesto sarebbe stato idoneo ad impedire “nelle more delle promuovende azioni di merito” aventi a oggetto, tra l’altro, l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori medesimi.

Gli amministratori resistenti, costituitisi, eccepivano preliminarmente l’inammissibilità della revoca ante causam degli amministratori di società a responsabilità limitata e l’inammissibilità del ricorso per difetto di residualità e strumentalità, nonché per l’omessa allegazione degli elementi costitutivi della prospettata azione di merito, sotto il profilo della ricostruzione del danno.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza del 25 marzo 2019 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Davide Scaffidi

In tema di concorrenza sleale confusoria, il giudizio di somiglianza tra segni distintivi, ancorché non oggetto di registrazione, deve essere effettuato in via d’insieme, tenendo conto della percezione del consumatore medio di riferimento, avuto riguardo all’impressione complessiva prodotta dai segni, del livello di attenzione variabile a seconda del tipo di servizio correlato e del fatto che il consumatore non effettua un confronto diretto tra i segni, bensì mnemonico.

In ipotesi di identità geografica e merceologica del mercato di riferimento, tenuto conto della particolarità del tipo di “consumatore” cui sono destinati i servizi e del suo scarso livello di attenzione sul segno distintivo (trattandosi, nel caso di specie, di pazienti di due poliambulatori operanti in un ambito territoriale circoscritto), la discordanza di una sola lettera tra gli acronimi inseriti nei segni figurativi utilizzati nelle insegne e nel materiale pubblicitario da imprese concorrenti apporta una differenza marginale, tale da passare inosservata agli occhi del destinatario dei servizi, per il quale quindi si determina in concreto un rischio di confusione e di indebita associazione.

Il rischio di confusione e associazione tra segni distintivi integra di per sé un pregiudizio imminente e irreparabile, essendo astrattamente idoneo a cagionare la diluzione della forza attrattiva del segno già noto nel mercato di riferimento, sicché, laddove accertato, possono ritenersi sussistenti i requisiti necessari per la concessione della misura cautelare dell’inibitoria.

La fattispecie dello storno di dipendenti presuppone modalità di reclutamento, sotto il profilo qualitativo e quantitativo, abnormi, ossia tali da eccedere i normali limiti di tollerabilità. In particolare, laddove non risulti che l’impresa stornata abbia dovuto sostenere ingenti sforzi aggiuntivi o difficoltà di altro genere al fine di predisporre la riorganizzazione aziendale, deve concludersi che lo storno non abbia dato luogo a una situazione di eccezionalità sotto il profilo gestionale e pertanto non è sanzionabile. A ciò si aggiunga che il requisito necessario ai fini della configurazione della fattispecie di cui all’art. 2598, n. 3, c.c. è l’animus nocendi, in mancanza del quale non può dirsi che la migrazione di professionisti verso un’impresa concorrente possa presentare i tratti di una sottrazione parassitaria di avviamento, non esorbitando i normali limiti della competizione.

L’accertamento della fattispecie dello sviamento di clientela presuppone la dimostrazione dell’esistenza di perdite patrimoniali dell’impresa che ha subito lo sviamento corrispondenti a un equivalente incremento (patrimoniale) dell’impresa concorrente.

Non integra la fattispecie degli atti denigratori di cui all’art. 2598, n. 2, c.c. la diffusione di notizie (in relazione ad un’impresa concorrente) relative all’introduzione di un sistema di prenotazioni mediante call center in luogo del corrispondente servizio offerto dal personale amministrativo, data la mancanza di profili di disvalore sulla qualità dei servizi di impresa. Analoghe considerazioni valgono in ordine alla diffusione della notizia del trasferimento dell’impresa concorrente presso altro indirizzo, in quanto parimenti inidonea ad integrare un atto denigratorio.

Principi espressi nel giudizio di reclamo avverso l’ordinanza emessa all’esito del ricorso ex art. 700 c.p.c. promosso da una s.r.l. nei confronti dell’ex dipendente e della società concorrente, al fine di ottenere la tutela inibitoria e il risarcimento dei danni patiti in conseguenza di condotte contrarie a buona fede e di concorrenza sleale.

Nel dettaglio, la ricorrente/reclamante lamentava lo storno di dipendenti (medici), lo sviamento di clienti (pazienti), la diffusione di informazioni false o denigratorie e l’utilizzo di un segno grafico distintivo idoneo ad ingenerare confusione (costituito da un acronimo).

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza del 22 febbraio 2019 – Giudice designato: Dott. Lorenzo Lentini

In assenza di puntuali disposizioni relative alle modalità di convocazione dei soci di s.n.c. nei patti sociali e nella disciplina codicistica, non può trovare accoglimento la domanda di sospensione e/o di annullamento della delibera di scioglimento anticipato di una s.n.c. per impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale e di nomina del liquidatore, né la domanda di revoca di detta nomina, formulate da un socio lamentando un insufficiente preavviso e contestando la scelta del luogo di convocazione, posto fuori dal Comune della sede legale della società.

L’abuso o eccesso di potere può costituire motivo di invalidità di una delibera assembleare quando vi sia la prova che il voto determinante del socio di maggioranza è stato espresso allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, oppure risulta in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell’esecuzione del contratto (conf. Cass. n. 1361/2011).

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso con ricorso ex art. 700 c.p.c. dal socio di minoranza di una società in nome collettivo nei confronti della società medesima e del socio di maggioranza, con cui il primo chiedeva di sospendere l’efficacia e/o di annullare la delibera di scioglimento anticipato della società per impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale e di nomina del liquidatore, nonché di revocare detta nomina e, comunque, di disporre ogni altro provvedimento d’urgenza idoneo ad eliminare il pregiudizio subito. In particolare, il socio lamentava l’invalidità dell’atto sulla base di doglianze in punto di insufficiente preavviso e di scelta del luogo di convocazione.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza del 12 dicembre 2018 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

La tutela cautelare anticipatoria di mero accertamento può ritenersi ammissibile in ipotesi marginali, in cui la stessa risulti indispensabile e indifferibile al fine di eliminare situazioni di incertezza di portata tale da integrare una situazione di gravità potenzialmente determinativa di danni irreversibili;  tale forma di tutela d’urgenza va invece esclusa quando con essa si vuole ottenere lo stesso risultato di certezza sull’assetto dei rapporti giuridici che può essere realizzato esclusivamente mediante un  provvedimento di merito, preferibilmente passato in giudicato. (Conforme a Trib. Brescia, 25.11.2016).

In caso di sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p. di azioni di società costituite anteriormente in usufrutto, la legittimazione all’esercizio del diritto di voto spetta all’usufruttuario, non al custode, posto che il sequestro non può assicurare al beneficiario diritti maggiori di quelli derivanti dal bene sequestrato.

Peraltro in ipotesi di sequestro preventivo emesso nell’ambito di indagini in tema di reati tributari, finalizzato alla confisca “per equivalente” del profitto del reato (profitto consistente nel risparmio economico ottenuto dall’ente grazie all’imposta evasa), non sussistono esigenze pubblicistiche tali da motivare l’attribuzione del diritto di voto al custode, poiché ai fini della confisca per equivalente non è richiesto alcun nesso pertinenziale tra il reato e il bene da confiscare, risultando sufficiente che il denaro sequestrato equivalga all’importo corrispondente al profitto del reato. L’insussistenza di tale vincolo pertinenziale non consente di ravvisare alcun elemento di “pericolosità” del bene, tale da imporre una limitazione della sua circolazione e dei diritti dallo stesso derivanti. Una simile circostanza si risolve nella contrapposizione tra interessi di natura (lato sensu) patrimoniale riconducibili a diversi soggetti: da una parte, l’interesse dello Stato a confiscare somme di denaro e beni riconducibili a un amministratore di società coinvolto in un procedimento penale, a prescindere da qualunque nesso tra tali beni e i fatti di cui al procedimento stesso; dall’altra, l’interesse del ricorrente a godere pienamente delle azioni della società legittimamente detenute in usufrutto.

Principi espressi nel giudizio promosso con ricorso ex art. 700 c.p.c. con il quale il socio accomandatario di una s.a.p.a., usufruttuario di un numero di azioni pari al 90% del capitale della società, chiedeva di accertare la sua legittimazione, ex art. 2352, 1° comma, c.c., all’esercizio del diritto di voto relativo  a parte delle azioni costituite in usufrutto a suo favore ed  oggetto di sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p.

Sotto il profilo del periculum in mora, il ricorrente evidenziava che tale situazione aveva determinato l’impossibilità di deliberare per tre riunioni consecutive in attesa di un chiarimento in ordine al contrasto sulla titolarità del diritto di voto.

Rilevato che non vi era una situazione di “stallo”, poiché i soci avevano deciso prudenzialmente di rinviare i lavori in attesa di un chiarimento giudiziale, e che la decisione sulla legittimazione al voto compete alla società in persona del soggetto che presiede l’assemblea, nella specie coincidente con il ricorrente, sicché il rischio dell’esercizio del diritto di voto da parte del custode appare ipotetico, il Tribunale ha dichiarato il ricorso inammissibile non sussistendo una situazione di gravità tale da richiedere un provvedimento di accertamento cautelare.

Il Tribunale,  esaminando il fumus del ricorso per decidere sulla liquidazione delle spese del giudizio, ha rilevato che il diritto di voto spettava fin dalla costituzione dell’usufrutto all’usufruttuario, motivo per il quale non vi poteva essere conflitto tra custode e usufruttuario, conflitto ritenuto puramente apparente non potendosi attribuire al beneficiario del sequestro preventivo diritti maggiori rispetto a quelli derivanti dal bene sequestrato e non sussistendo neppure un’esigenza pubblicistica idonea a giustificare l’attribuzione del diritto di voto al custode.

Ord. 12.12.2018

(Massima a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Ordinanza del 19 giugno 2018 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

Il diritto del socio di cui all’art. 2476, 2° co., c.c. incontra come unico limite il rispetto del principio di buona fede e correttezza nel rapporto sociale, sicché difficoltà di tipo economico o organizzativo della società non possono essere di ostacolo al suo concreto esercizio (conforme a Trib. Roma 15.1.2015).

La tutela della riservatezza dei dati aziendali, in caso di esercizio da parte del socio del diritto di controllo di cui all’art. 2476, 2° co., c.c., funge da “compasso” per la concreta individuazione dei confini oggettivi di tale diritto,  specie  qualora emergano elementi sintomatici di una potenziale fattispecie di concorrenza sleale a danno della società. In tali situazioni, il giudice è tenuto ad adottare una soluzione interpretativa idonea a mitigare il rischio dell’eventuale adozione da parte del socio di comportamenti abusivi e potenzialmente lesivi dell’interesse sociale, che si traduce in una sensibile limitazione dell’ambito oggettivo del diritto di controllo (conforme a Trib. Milano, 8.5.2014). In quest’ottica la società può essere autorizzata a non rivelare i segreti commerciali ex artt. 98 e 99 c.p.i. e le informazioni idonee a conferirle un vantaggio competitivo nei confronti di imprese concorrenti, purché la stessa motivi in modo puntuale le ragioni della natura riservata dell’informazione omessa.

Principi espressi in ipotesi di accoglimento del ricorso promosso ex art. 669-duodecies c.p.c. con il quale era stata domandata la determinazione delle modalità di attuazione all’ordinanza, pronunciata ex artt. 700 c.p.c. e 2476 c.c., che aveva ordinato ad una s.r.l. di consentire ad un socio di minoranza la consultazione, anche per mezzo di un professionista di fiducia, di alcuni libri sociali e documenti relativi all’amministrazione sociale (più precisamente, libro soci, libro delle adunanze e delle deliberazioni dell’assemblea e del consiglio di amministrazione, nonché registri IVA, dichiarazioni fiscali, fatture emesse e fatture di acquisto del 2017, disponendo per questi ultimi che fossero “oscurati” i nominativi dei clienti e dei fornitori nonché l’oggetto dei beni in essi indicati, “qualora inerenti alla produzione”).

Nel caso di specie, il ricorrente lamentava il ritardo con il quale la società aveva messo a disposizione la documentazione oggetto di esibizione; la decisione della stessa di impedirle l’accesso alla sede sociale per la consultazione di detta documentazione, avendo ritenuto sufficiente la sua trasmissione via p.e.c., e l’adozione di misure restrittive reputate eccessive, posto che le numerose parti oscurate dei documenti esibiti non avrebbero consentito di esercitare le sue prerogative sociali.

Ord. 19.6.2018

(Massima a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Ordinanza del 21 giugno 2016 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott. Stefano Franchioni

L’art. 2476, secondo comma, c.c. riconosce al socio non amministratore un diritto soggettivo di natura potestativa, esercitabile, anche nelle s.r.l. dotate di collegio sindacale (o di sindaco unico), individualmente ed in via autonoma senza che sia necessario preventivamente identificare un vincolo di strumentalità con azioni diverse o con finalità probatorie specifiche.

Tale diritto si estende a tutta la documentazione sociale che possa fornire elementi utili in ordine all’amministrazione della società.

Il limite all’esercizio del diritto, come riconosciuto dalla costante giurisprudenza, è esclusivamente quello derivante dal canone di buona fede, non potendosi dunque formulare richieste di carattere ripetitivo, vessatorio, ostruzionistico od emulativo, mentre in via generale non sono opponibili al socio esigenze di riservatezza o di tutela della concorrenza.

Tuttavia, ove sussistano elementi di rischio, anche in chiave di verosimiglianza, connessi all’accesso del socio, il giudice può disporre specifiche modalità attuative che, da un lato, consentano al socio di esaminare la documentazione sociale, e, dall’altro, tutelino la società da un utilizzo illecito delle informazioni fornite: così, esemplarmente, l’accesso alla contabilità può avvenire indirettamente tramite un professionista scelto dal socio e gradito dalla società.

Principi espressi in ipotesi di parziale accoglimento di reclamo avverso il provvedimento di rigetto del ricorso, ex art. 700 c.p.c., promosso dal socio al fine di ottenere l’ordine agli amministratori di consentirgli di eseguire, o far eseguire da professionista di sua fiducia, una ispezione ex art. 2476 c.c.

Ord. 21.6.2016

(Massima a cura di Marika Lombardi)