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Tribunale di Brescia, sentenza del 3 novembre 2022, n. 2656 – società, società a responsabilità limitata, invalidità delle decisioni dei soci

Il socio che ha impugnato il bilancio di esercizio per violazione dei principi inderogabili di rappresentazione chiara, veritiera e corretta ha interesse ad impugnare, per i medesimi vizi, anche le deliberazioni di approvazione dei bilanci relativi agli esercizi successivi. Tale interesse non dipende unicamente dalla frustrazione dell’aspettativa del socio  a percepire un dividendo o, comunque, un immediato vantaggio patrimoniale derivante da una diversa e più corretta formulazione del bilancio, ma anche dal fatto  che la poca chiarezza o la scorrettezza del bilancio non permette al socio di avere tutte le informazioni – destinate a riflettersi anche sul valore della singola quota di partecipazione – che tale documento contabile dovrebbe fornire, ed alle quali il socio impugnante legittimamente aspira attraverso la declaratoria di nullità e il conseguente obbligo degli amministratori di predisporre un nuovo bilancio emendato dai vizi del precedente..  Pertanto, sino a che gli amministratori non abbiano ottemperato all’obbligo di adottare i provvedimenti conseguenti all’accoglimento dell’impugnazione avente ad oggetto la deliberazione di approvazione del bilancio di esercizio precedente, il socio impugnante preserva il proprio interesse (con correlata facoltà) a esercitare l’azione di impugnazione delle delibere di approvazione dei bilanci successivi, ancorché le impugnazioni siano tutte fondate sui medesimi motivi.

Assolvendo il bilancio una funzione rappresentativa della situazione patrimoniale e finanziaria della società cui si riferisce, nonché del suo risultato economico al termine dell’esercizio, tale da fornire ai soci e ai terzi tutte le informazioni previste dagli artt. 2423 e ss. c.c., devono considerarsi irrilevanti, rispetto alle  domande di invalidità della delibera di approvazione del bilancio, deduzioni incentrate su illeciti perpetrati dagli amministratori – seppur lesivi dell’integrità e del valore del patrimonio sociale –in assenza di allegazioni con riguardo alla violazione di norme e principi che presiedono alla loro corretta rappresentazione in bilancio.

Al fine di garantire la veridicità e correttezza del bilancio devono essere osservate le norme di dettaglio che indicano per ciascuna voce le condizioni per la relativa appostazione e le disposizioni codicistiche in materia di bilancio, completate e integrate dai principi contabili di riferimento. La violazione delle predette disposizioni tuttavia determina la non veridicità del bilancio solo quando le conseguenze di tali irregolarità sono “rilevanti” e arrecano un effettivo pregiudizio alla funzione informativa del bilancio.

L’effettuazione di operazioni in conflitto di interessi, anche se non concluse a normali condizioni di mercato, non pregiudica la veridicità del bilancio qualora venga fornita adeguata informazione in nota integrativa.

I principi sono stati espressi nell’ambito di un giudizio promosso dal socio di una società a responsabilità limitata in stato di liquidazione, finalizzato ad accertare l’invalidità della deliberazione di approvazione del più recente bilancio di esercizio di detta società.

La società convenuta, costituendosi, innanzitutto ha eccepito la carenza di un interesse ad agire dell’attore sostenendo che lo stesso, avendo impugnato il bilancio di esercizio precedente per violazione dei principi inderogabili di rappresentazione chiara, veritiera e corretta, non  avesse un interesse giuridicamente rilevante ad impugnare, per i medesimi vizi, il bilancio relativo agli esercizi successivi e, in secondo luogo, ha contestato la genericità e l’indeterminatezza della domanda dell’attore, essendo la stessa diretta a contestare atti gestori asseritamente negligenti e dannosi piuttosto che la violazione dei principi contabili adottati dal redattore nella predisposizione del bilancio e la violazione delle norme di cui agli artt. 2423 s.s. c.c. Nel merito la convenuta contestava le allegazioni dell’attore e chiedeva il rigetto della domanda da questo formulata.

Il Tribunale, nel merito, ha rigettato in toto la domanda dell’attore rilevando, inter alia, la scarsa attinenza tra i fatti allegati in atto di citazione ed eventuali vizi del bilancio e, pertanto, lo ha condannato a tenere indenne la società convenuta delle spese di lite.

(Massime a cura di Giada Trioni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 31 ottobre 2022, n. 2649 –nullità del contratto per difetto di causa, errore su una qualità dell’oggetto della prestazione, esclusione, risoluzione del contratto per inadempimento reciproco, illegittimo aumento dei quorum costitutivi e deliberativi dell’assemblea di s.r.l. unipersonale in vista dell’ingresso di nuovo socio di maggioranza

Qualora una scrittura privata preveda, a favore e a carico delle parti, prestazioni di varia natura legate da vincolo di sostanziale corrispettività, la stessa non può essere dichiarata nulla – ai sensi dell’art. 1418, 2° co., c.c. – per assenza di causa sulla base di una valutazione negativa di convenienza economica dell’assetto dei rapporti congegnato dalle parti.

La mera valutazione negativa in merito alla convenienza economica degli accordi negoziali stipulati dalle parti non è idonea a fondare una richiesta di annullamento del contratto per vizio del consenso e, in particolare, per un errore essenziale su una qualità dell’oggetto della prestazione. Come pacificamente riconosciuto, il mero “errore sul valore” è inidoneo ad integrare un’ipotesi di errore essenziali ai sensi dell’art. 1429 c.c. (cfr. Cass. n. 17053/2021; n. 29010/2018 e n. 20148/2013).

In relazione ai contratti con prestazioni corrispettive, in caso di denuncia di inadempienze reciproche è necessario comparare il comportamento di entrambe le parti per stabilire quale di esse, con riferimento ai rispettivi interessi ed alla oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle violazioni maggiormente rilevanti ed abbia causato il comportamento della controparte, determinando la conseguente alterazione del sinallagma contrattuale (cfr. Cass. n. 19706/2020; n. 3455/2020; n. 13827/2019 e n. 13627/2017).

Nell’ipotesi di conferimento ad una delle parti in causa di un mandato finalizzato all’alienazione degli immobili oggetto di causa, la mancata collaborazione ovvero le condotte ostative dei mandanti non giustificano la risoluzione del contratto, a maggior ragione se le stesse si sono verificate in un lasso di tempo significativamente successivo alla scadenza del termine per il compimento dell’atto. Infatti, ci si può aspettare che le parti – in applicazione dei canoni fondamentali di correttezza e buona fede nell’esecuzione delle obbligazioni derivanti dal contratto (artt. 1175 e 1376 c.c.) – valutino le eventuali concrete proposte di acquisto del complesso immobiliare pervenute nei mesi immediatamente successivi alla scadenza del termine – non essenziale – concordato, ma non anche quelle giunte a distanza di anni dalla stessa. A nulla rileva un’eventuale successiva partecipazione delle parti alla prosecuzione delle trattative per la vendita degli immobili, collocandosi essa al di fuori delle previsioni contrattuali.

L’aumento dei quorum costitutivi e deliberativi dell’assemblea di una s.r.l. unipersonale, adottata dal socio e amministratore unico, in previsione dell’ingresso nella compagine sociale di un nuovo socio di maggioranza, è chiaramente diretta a pregiudicare le legittime aspettative di quest’ultimo, nonché ad attribuire al socio unico, destinato a divenire socio di minoranza, un sostanziale potere di veto, idoneo a paralizzare ogni decisione assembleare. Sebbene una delibera adottata al solo fine di pregiudicare e frustrare le aspettative di un socio entrante sia da ritenersi illegittima, il giudice, in difetto di tempestiva impugnazione della stessa, non può dichiararla nulla né può annullarla, non essendo ammesse ipotesi atipiche di pronunce costitutive, ai sensi dell’art. 2908 c.c.

I principi sono stati espressi nell’ambito dei giudizi riuniti promossi dalle parti di un complesso accordo contrattuale con il quale  queste avevano pattuito, per quel che qui interessa, di cedere a terzi la piena proprietà degli immobili in gestione, conferendo mandato a vendere al socio unico della s.r.l. titolare della nuda proprietà sui medesimi, e, in caso di mancata vendita entro il termine pattuito, di  trasferire alla menzionata società anche il diritto di usufrutto sugli immobili predetti, precedentemente in capo a un soggetto esterno alla stessa, destinato ad entrare nella compagine sociale della s.r.l. con una quota di maggioranza.

 A fronte di reciproche contestazioni di inadempienza, il Tribunale ha accertato la sola inadempienza del socio unico rispetto agli obblighi derivanti dall’accordo negoziale e ha accolto la domanda di esecuzione in forma specifica del contratto proposta dall’usufruttuario, ai sensi dell’art. 2932 c.c., rispingendo ogni ulteriore domanda.

(Massime a cura di Giada Trioni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 5 ottobre 2022, n. 2380 – s.r.l., cessione di quote, responsabilità contrattuale, responsabilità extra contrattuale e pre-contrattuale, responsabilità amministratore, art. 2476 c.c., art. 1453 c.c., art. 1497 c.c., art. 1337 c.c., art. 1440 c.c.

Le azioni (e le quote) delle società di capitali costituiscono beni di “secondo grado”, in quanto non sono del tutto distinte e separate dai beni compresi nel patrimonio sociale, e sono rappresentative delle posizioni giuridiche spettanti ai soci in ordine alla gestione ed alla utilizzazione di detti beni, funzionalmente destinati all’esercizio dell’attività sociale; pertanto, i beni compresi nel patrimonio della società non possono essere considerati del tutto estranei all’oggetto del contratto di cessione del trasferimento delle azioni o delle quote di una società di capitali, sia se le parti abbiano fatto espresso riferimento agli stessi, mediante la previsione di specifiche garanzie contrattuali, sia se l’affidamento del cessionario debba ritenersi giustificato alla stregua del principio di buona fede. Ne consegue che la differenza tra l’effettiva consistenza quantitativa del patrimonio sociale rispetto a quella indicata nel contratto, incidendo sulla solidità economica e sulla produttività della società, quindi sul valore delle azioni o delle quote, può integrare la mancanza delle qualità essenziali della cosa, che rende ammissibile la risoluzione del contratto ex art. 1497 c.c., ovvero, qualora i beni siano assolutamente privi della capacità funzionale a soddisfare i bisogni dell’acquirente, quindi “radicalmente diversi” da quelli pattuiti, l’esperimento di un’ordinaria azione di risoluzione ex art. 1453 c.c., svincolata dai termini di decadenza e prescrizione previsti dall’art. 1495 c.c.(cfr. Cass. 22790/2019)

A norma dell’art. 1497, comma secondo, c.c., il diritto di ottenere la risoluzione è soggetto alla decadenza e alla prescrizione stabilite dall’art. 1495 c.c. e per effetto del rinvio operato dall’art. 1497 c.c. alle disposizioni generali sulla risoluzione del contratto per inadempimento, il compratore può ottenere la risoluzione del contratto soltanto se il difetto di qualità della cosa venduta non sia di scarsa importanza; tuttavia, quando l’inadempienza non sia di tale gravità da giustificare la risoluzione del contratto, l’acquirente può sempre agire per il risarcimento del danno sotto forma di una proporzionale riduzione del prezzo corrispondente al maggior valore che la cosa avrebbe avuto, purché il difetto di questa non sia di trascurabile entità, precisandosi inoltre che tutte le azioni spettanti al compratore per i vizi o la mancanza di qualità della cosa venduta, ivi compresa, pertanto, l’azione di risarcimento del danno, prevista dall’art. 1494 c.c., sono soggette ai termini di decadenza e di prescrizione di cui all’art. 1495 c.c.. Il presente principio opera anche nel caso di esperimento di detta azione risarcitoria in via autonoma, rispetto all’azione di risoluzione del contratto o di riduzione del prezzo (cfr. Cass. n. 247/1981; n. 2322/1977 e n. 1874/1972).

Ai fini dell’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore di una società di capitali non è sufficiente invocare genericamente il compimento di atti di “mala gestio” e riservare una più specifica descrizione di tali comportamenti nel corso del giudizio, atteso che per consentire alla controparte l’approntamento di adeguata difesa, nel rispetto del principio processuale del contraddittorio, la “causa petendi” deve sin dall’inizio sostanziarsi nell’indicazione dei comportamenti asseritamente contrari ai doveri imposti agli amministratori dalla legge o dallo statuto sociale. Ciò vale tanto che venga esercitata un’azione sociale di responsabilità quanto un’azione dei creditori sociali, perché anche la mancata conservazione del patrimonio sociale può generare responsabilità non già in conseguenza dell’alea insita nell’attività di impresa, ma in relazione alla violazione di doveri legali o statutari che devono essere identificati nella domanda nei loro estremi fattuali.

L’operato dell’amministratore per motivi squisitamente di merito è insindacabile, alla stregua del noto principio della c.d. business judgement rule.

Principi espressi in ipotesi di rigetto della domanda volta ad accertare la responsabilità contrattuale dei venditori, a seguito della cessione della totalità delle quote di una s.r.l. avente quale asset una struttura turistica affetta da abusi edilizi, per effetto della garanzia prestata, ai sensi degli artt. 1453 e/o 1497 c.c., con conseguente condanna al risarcimento dei danni, nonché all’accertamento della responsabilità extra-contrattuale, sub specie di responsabilità pre-contrattuale e per dolo incidente ai sensi degli artt. 1337 e 1440 c.c., sempre con conseguente condanna al risarcimento dei danni nonché l’accertamento della responsabilità dell’amministratore di una s.r.l., ex art. 2476, comma terzo, c.c., con condanna dello stesso al risarcimento dei danni.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 19 settembre 2022, n. 1086 – concordato preventivo, anticipazione su ricevute bancarie, mandato all’incasso, patto di compensazione

In tema di anticipazione su ricevute bancarie regolata in conto corrente, qualora le relative operazioni siano compiute anteriormente all’ammissione del correntista ad una procedura concorsuale e l’organo di questa agisca per la restituzione dell’importo delle ricevute incassate dalla banca, occorre accertare se la convenzione relativa a quella anticipazione contenga una clausola attributiva alla banca del diritto di incamerare le somme riscosse (c.d. patto di compensazione o di annotazione ed elisione in conto corrente di partite di segno opposto), atteso che solo in tale ipotesi quest’ultima ha diritto di compensare il suo debito per il versamento al cliente delle somme riscosse con il proprio credito maturato in dipendenza di operazioni regolate sul medesimo conto corrente, senza che rilevi l’anteriorità del credito e la posteriorità del debito rispetto all’ammissione alla procedura concorsuale, non operando, in tale evenienza, il principio della cristallizzazione dei crediti (cfr. Cass. n. 3336/2016 e Cass., n. 17999/2011).

In caso di anticipazioni bancarie con mandato all’incasso e patto di compensazione, l’accordo di compensazione con l’istituto bancario mantiene la sua validità ed operatività anche in ipotesi di successiva ammissione del correntista ad una procedura concorsuale, ragion per cui la banca ha diritto di compensare il credito sorto dall’anticipazione effettuata con il debito correlato all’obbligazione di versamento al cliente delle somme riscosse. Tale diritto sorge con l’effettuazione dell’anticipazione, senza che rilevi la circostanza che gli incassi siano avvenuti dopo la presentazione da parte del correntista della domanda di ammissione al concordato preventivo, posto che il recupero delle somme corrisposte a quest’ultimo dai suoi clienti, in relazione alle quali è stata concessa l’anticipazione da parte della banca, costituisce la fisiologica attuazione della clausola di compensazione che già attraverso l’anticipazione determina il sorgere dell’obbligo di restituzione (contra Cass. n. 6060/2022; Cass. n. 22277/2017).

L’anticipazione bancaria costituisce una particolare operazione finanziaria in relazione alla quale il ricorso alla compensazione è puramente strumentale, in quanto il c.d. patto di compensazione, detto anche patto di annotazione ed elisione in conto corrente delle partite di segno opposto, conferisce alla banca il diritto di compensare, attraverso il mezzo tecnico della annotazione in conto delle somme riscosse ad elisione delle partite di debito verso la banca medesima, il suo debito per il versamento al cliente delle somme riscosse con il proprio credito verso lo stesso cliente conseguente ad operazioni regolate sul medesimo conto corrente.

I principi sono stati espressi nel giudizio di appello promosso da una società per azioni in concordato preventivo avverso la sentenza di primo grado per violazione e falsa applicazione degli artt. 169 e 56 l. fall., nonché per contraddittorietà della motivazione, in quanto, pur avendo il Tribunale ricostruito in termini di mandato all’incasso il rapporto intercorso fra le parti, aveva tuttavia reputato sussistenti i presupposti di operatività della compensazione invocata dalla banca.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 13 settembre 2022, n. 1083 – contratto di fideiussione bancaria, contratto di leasing, clausola penale

La data non costituisce un elemento essenziale del contratto e, pertanto, la mancata indicazione della stessa, così come la mancata indicazione del luogo di sottoscrizione non determina la nullità della fideiussione a garanzia concessa a garanzia delle obbligazioni relative ad un determinato rapporto contrattuale, salvo che sia imposta dalla legge.

Nell’ipotesi di risoluzione anticipata per inadempimento dell’utilizzatore, le parti possono convenire, ai sensi di una clausola penale, l’irrepetibilità dei canoni già versati da quest’ultimo prevedendo la detrazione, dalle somme dovute al concedente, dell’importo ricavato dalla futura vendita del bene restituito, essendo tale clausola coerente con la previsione contenuta nell’art. 1526, secondo comma, c.c. la quale risulta applicabile analogicamente per i contratti di leasing traslativo conclusi anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 1, commi 136 e ss., l. n. 124 del 2017.

In materia di leasing traslativo, le parti possono convenire, ai sensi dell’art. 1526 c.c., applicabile in via analogica, l’irripetibilità dei canoni versati al concedente in esito alla risoluzione del contratto, la cui natura di clausola penale ne preclude, nel giudizio successivamente instaurato, la rilevabilità d’ufficio e la deducibilità dopo il decorso dei termini di cui all’art. 183 c.p.c. trattandosi di eccezione in senso stretto.

Ai fini della riducibilità della clausola penale, ai sensi dell’art. 1384 c.c., occorre considerare se detta pattuizione attribuisca allo stesso concedente vantaggi maggiori di quelli conseguibili dalla regolare esecuzione del contratto, in quanto il risarcimento del danno spettante al concedente deve essere tale da porlo nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se l’utilizzatore avesse esattamente adempiuto. Pertanto, non è riducibile una clausola penale che riconosca alla concedente una somma non superiore a quanto avrebbe ottenuto dall’adempimento e congruo il prezzo di vendita dei beni restituiti. L’utilizzatore può comunque contestare che il prezzo di vendita non sia conforme al valore di mercato, chiedendo l’accertamento di quest’ultimo al fine di conseguire una ulteriore riduzione dell’importo dovuto a titolo di penale e, se del caso, la restituzione dell’eventuale esubero.

I principi sono stati espressi nell’ambito del giudizio di appello relativo alla sentenza di primo grado con la quale era stata rigettata l’opposizione avverso il decreto ingiuntivo ai sensi del quale gli opponenti erano stati condannati al pagamento a favore della società di leasing, inter alia, al risarcimento del danno derivante dalla risoluzione per ritardato pagamento dei canoni relativi a tre contratti di leasing aventi ad oggetto autoveicoli e conclusi anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 1, commi 136 e ss., l. n. 124 del 2017. L’appellante, in particolare, ai sensi dell’atto di appello ha, inter alia, richiesto di accertare (i) la nullità della fideiussione per mancata indicazione della data sulla stessa, (ii) la nullità della clausola penale prevista dai predetti contratti di leasing per indeterminatezza e indeterminabilità dell’oggetto, (iii) l’eccessiva onerosità della clausola penale e, pertanto, la sua riduzione d’ufficio.

La Corte d’Appello ha confermato la sentenza di primo grado ed ha rigettato l’appello con condanna degli appellanti alle spese legali.

(Massime a cura di Giovanbattista Grazioli)




Tribunale di Brescia, sentenza del 3 settembre 2022, n. 2197 – società cooperativa, nullità del contratto di raccolta del risparmio sociale per difetto di forma scritta, art. 117 d.lgs. 385/1993, art. 2467 c.c.

In materia di società cooperative, il contratto di raccolta di prestiti sociali è nullo qualora manchi la forma scritta ex art. 117 d.lgs. 385/1993 (t.u.b.). Tale nullità di protezione, relativa, è invocabile soltanto dal soggetto nel cui interesse è previsto, dalla normativa di settore, l’obbligo di forma scritta al fine di garantire la trasparenza del rapporto negoziale.

Considerata anche la diversa funzione del capitale sociale nelle società cooperative rispetto a quelle lucrative, il prestito sociale cooperativo non è assimilabile al finanziamento soci e, pertanto, non è fattispecie rientrante nell’ambito di applicazione dell’art. 2467 c.c., come, tra l’altro, previsto (a conferma dell’impostazione adottata dal Tribunale) dall’art. 1, comma 239, della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (provvedimento successivo all’instaurazione della causa de qua).

Princìpi espressi in esito ad un procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Brescia per il pagamento di somme di denaro a titolo di rimborso di prestiti sociali a favore di soci di una società cooperativa.

(Massime a cura di Demetrio Maltese)




Tribunale di Brescia, sentenza del 2 settembre 2022, n. 2196 – società cooperativa, rimborso del versamento dei soci, risparmio sociale, recesso, postergazione del credito

Nelle società cooperative, il diritto al rimborso spetta a ciascun socio che abbia esercitato il diritto di recesso, per il solo fatto di aver effettuato il versamento, a prescindere dalla liceità o meno della provvista impiegata, salvo che sia diversamente previsto nello statuto sociale.

La norma di cui all’art. 2467 c.c., prevista in tema di società a responsabilità limitata, che prevede la postergazione del rimborso dei finanziamenti eseguiti dai soci a favore di società rispetto al soddisfacimento degli altri creditori alla ricorrenza di determinati presupposti (ossia, l’eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto ovvero una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole effettuare un conferimento), non è applicabile alle società cooperative, tenuto conto, tra l’altro, della diversità di funzione che assolve il capitale in tale tipo sociale (funzionale alla gestione mutualistica), rispetto alle altre società lucrative. Ne consegue che deve ritenersi preclusa la possibilità di assimilare il prestito sociale cooperativo ai finanziamenti soci di cui all’art. 2467 c.c.

(Nel caso in esame, in ogni caso, la convenuta aveva omesso di allegare riferimenti concreti che avrebbero giustificato l’applicazione della norma invocata al tipo societario della società cooperativa).

I principi sono stati espressi nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo promosso da una società cooperativa, in qualità di cessionaria del credito costituito dal risparmio sociale maturato dai propri soci nei confronti di un’altra società cooperativa convenuta.

In particolare, la società attrice chiedeva, in via riconvenzionale, la condanna della società convenuta, beneficiaria della scissione parziale della società attrice, al pagamento in proprio favore del credito maturato dai soci a titolo di rimborso delle quote di risparmio sociale a seguito del loro recesso e poi ceduto all’attrice.

Secondo la tesi attorea, il suddetto credito avrebbe trovato il proprio fondamento, oltre che in una scrittura privata stipulata tra le due società cooperative e i rispettivi soci, nella scissione parziale della società attrice, con cui la stessa ha trasferito alla società beneficiaria convenuta tutte le sue passività, ad eccezione dei debiti della scissa nei confronti dei propri soci per il rimborso del risparmio sociale (non contemplati nel progetto di scissione).

La società convenuta si costituiva in giudizio chiedendo, tra l’altro, (i) di dichiarare l’inesistenza del credito ceduto costituito dal risparmio sociale, in quanto derivante da provviste conseguite dai soci illecitamente; (ii)  di accertare la postergazione del rimborso del risparmio sociale rispetto alla soddisfazione degli altri creditori ai sensi dell’art. 2467 c.c; in subordine (iii) di accertare l’estinzione del credito per confusione; in ogni caso, il rigetto della domanda riconvenzionale svolta dall’attrice.

Il tribunale ha accolto la domanda riconvenzionale formulata dalla società attrice, condannando la società convenuta al versamento del credito derivante dal risparmio sociale dei soci e al pagamento delle spese di lite.

(Massime a cura di Valentina Castelli)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 15 luglio 2022 – s.a.s., revoca dell’amministratore per giusta causa




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 13 luglio 2022, n. 944 – contratto di leasing, buona fede ed esercizio della clausola risolutiva espressa, art. 1526 c.c., legittimazione processuale del cessionario

Il principio di buona fede, in quanto principio cardine e generale dell’ordinamento, impone di valutare il comportamento dei contraenti sia al momento dell’esecuzione del contratto, sia nel momento patologico dell’inadempimento e della sua risoluzione, senza tuttavia che ciò inverta l’onere della prova nel caso di inadempimento né sovverta il principio in materia di clausola risolutiva espressa riguardo la non sindacabilità della gravità dell’inadempimento pattiziamente predeterminata. In quest’ultima ipotesi, l’indagine della buona fede – da accertarsi sia sul piano oggettivo della condotta che su quello soggettivo della colpa – va ricondotta al momento in cui l’obbligato ha tenuto il comportamento previsto in contratto e la controparte si è avvalsa della predetta clausola. L’attesa del concedente nell’avvalersi della clausola risolutiva espressa anche a seguito del susseguirsi di una serie di inadempimenti da parte dell’utilizzatore, quanto al piano oggettivo della condotta, e la mancata dimostrazione da parte dell’utilizzatore che, nonostante l’uso della normale diligenza, non sia in grado di adempiere alle obbligazioni derivanti dal contratto di leasing per causa a lui non imputabile, quanto al profilo soggettivo della colpa, indicono a considerare legittimo e non connotato da malafede l’utilizzo della clausola risolutiva espressa, anche a fronte del rifiuto della società di leasing a rinegoziare il relativo contratto. 

Alla risoluzione del leasing traslativo, i cui presupposti si siano verificati anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 124 del 2017, si applica analogicamente la disciplina di cui all’art. 1526 c.c. e, pertanto, ove la risoluzione del predetto contratto derivi da un inadempimento dell’utilizzatore, lo stesso ha diritto alla restituzione delle rate pagate solo previa restituzione del bene, dal momento che solo dopo tale restituzione il concedente potrà trarre dalla cosa ulteriori utilità e sarà possibile determinare il c.d. “equo compenso” ad esso spettante per il mero godimento garantito all’utilizzatore nel periodo di durata del contratto. Tuttavia, con riferimento al contratto di leasing, occorre tenere in considerazione l’interesse del concedente che è quello di ottenere l’integrale restituzione della somma erogata a titolo di finanziamento unitamente a interessi, spese e utili dell’operazione e non la restituzione dell’immobile che costituisce piuttosto una garanzia alla restituzione del finanziamento. Pertanto, nel leasing la riconsegna dell’immobile è insufficiente, quale risarcimento del danno, ove non avvenga la restituzione del finanziamento e il valore dell’immobile non ne copra l’intero importo.

In caso di cessione di crediti nell’ambito di un’operazione di cartolarizzazione ex legge 30 aprile 1999 n. 130, ove vi sia contestazione circa la legittimazione del cessionario, è onere di chi assuma di avere, in forza della cessione, acquisito la legittimazione attiva ad agire, sia pure ai soli fini dell’intervento ex art. 111 c.p.c., allegare e dimostrare la effettiva estensione del suo titolo di acquisto sul piano oggettivo in relazione ai rapporti e ai crediti che si assumono essere stati acquistati e, cioè, fornire la prova che il rapporto sia compreso tra quelli compravenduti nell’ambito dell’operazione di cessione in blocco.

I principi sono stati espressi nell’ambito del giudizio di appello promosso dall’utilizzatore avverso l’ordinanza ex articolo 702-ter c.p.c. emessa all’esito del giudizio sommario di cognizione di primo grado, nel quale l’utilizzatore-convenuto, a fronte dell’accertamento della risoluzione di diritto per clausola risolutiva espressa del contratto di leasing immobiliare e condanna all’immediato rilascio dell’immobile oggetto del contratto, oltre al pagamento delle spese di lite, chiedeva, in via riconvenzionale, (i) l’inefficacia dell’utilizzo della clausola risolutiva espressa asserendo un suo utilizzo contrario a buona fede, (ii) l’applicazione analogica del disposto dell’art. 1526 c.c. (condannando la società concedente alla restituzione di tutti i canoni percepiti, dedotto l’equo compenso ad essa spettante per il godimento, da parte dell’utilizzatore, del bene concesso in leasing) e (iii) di accertare la carenza di legittimazione ad agire in capo alla società intervenuta nel giudizio quale cessionaria del credito derivante dal predetto contratto di leasing.

Con sentenza, la Corte d’Appello (i) ha rigettato integralmente l’appello formulato dall’utilizzatore, rilevando, tra l’altro, che la pretesa restituzione dei canoni versati in eccedenza (o la riduzione della clausola penale per eccessiva onerosità) è preclusa dal mancato rilascio del bene che impedisce la sua ricollocazione sul mercato da parte del concedente, non potendosi prospettare alcun credito dell’utilizzatrice in relazione all’asserito esubero di valore del bene e (ii) ha condannato alle spese di lite l’appellante.

(Massime a cura di Emanuele Taddeolini Marangoni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 16 giugno 2022, n. 1687 – fideiussione omnibus, riproduzione di clausole del modulo ABI censurate dalla Banca d’Italia, nullità parziale, clausola floor, differenza rispetto all’opzione floor

Posto che in base al provvedimento della Banca d’Italia n. 55 del 2 maggio 2005 le clausole di cui agli artt. 2, 6 e 8 dello schema contrattuale predisposto dall’ABI per le fideiussioni omnibus sono in contrasto con l’art. 2, 2° co., lett. a), l. n. 287/1990,  le fideiussioni che le riproducono in tutto o in parte  sono a loro volta parzialmente nulle, ai sensi degli artt. 2, 3° co.,  l. n. 287/1990 e 1419 c.c., limitatamente alle sole clausole che riprendono quelle dello schema contrattuale  costituente l’intesa vietata, poiché la nullità dell’intesa a monte si riverbera sul contratto stipulato a valle, che ne costituisce un effetto consequenziale, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti nel senso dell’essenzialità della parte del contratto colpita da nullità (cfr. SS.UU. n. 41994/2021).

L’eccezione di decadenza della banca dall’azione nei confronti dei fideiussori, ai sensi dell’art. 1957 c.c., essendo un’eccezione in senso stretto ex art. 2969 c.c., deve essere sollevata nel rispetto dei termini di cui agli artt. 163, 166 e 167 c.p.c. e quindi, in caso di opposizione a decreto ingiuntivo pronunciato su ricorso della banca garantita, nell’atto di citazione introduttivo del relativo giudizio.

La clausola di un contratto di fideiussione volta a far sì che il tasso di interesse dovuto dal cliente non scenda al di sotto di una determinata percentuale già predeterminata nel suo ammontare, al fine di tutelare l’interesse del mutuante, in ipotesi di mutuo a tasso variabile, a  trarre comunque lucro dalla concessione del credito, non è assimilabile alla c.d. opzione floor, ossia quello strumento finanziario derivato che consente al sottoscrittore, a fronte di un premio da versare, di porre un limite alla variabilità in discesa di un determinato indice o di un prezzo, ricevendo la differenza che alla scadenza o alle scadenze contrattuali si manifesta tra l’indice di riferimento ed il limite fissato, e quindi non trova applicazione la disciplina contenuta, principalmente, nel testo unico della finanza.

Principi espressi nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dalla banca nei confronti dei fideiussori del proprio cliente-debitore.

(Massime a cura di Giovanni Maria Fumarola)