Sentenza del 23 marzo 2022 – Presidente relatore: dott. Donato Pianta

In materia di contratto autonomo di garanzia – improntandosi il rapporto tra il garante e il creditore beneficiario a piena autonomia – il garante non può opporre al creditore la nullità di un patto relativo al rapporto fondamentale, salvo che essa dipenda da contrarietà a norme imperative o dall’illiceità della causa e che, attraverso il medesimo contratto autonomo, si intenda assicurare il risultato vietato dall’ordinamento; tuttavia, si deve escludere che la nullità della pattuizione di interessi ultra legali si comunichi sempre al contratto autonomo di garanzia, atteso che detta pattuizione – eccezion fatta per la previsione di interessi usurari – non è contraria all’ordinamento, non vietando quest’ultimo in modo assoluto finanche l’anatocismo, così come si ricava dagli artt. 1283 c.c. e 120 d.lgs. 385/1993 (conf. Cass. n. 20397/2017). Per altro verso, il garante è legittimato a proporre eccezioni fondate sulla nullità anche parziale del contratto base per contrarietà a norme imperative. Ne consegue che può essere sollevata nei confronti della banca l’eccezione di nullità della clausola anatocistica atteso che la soluzione contraria consentirebbe al creditore di ottenere, per il tramite del garante, un risultato che l’ordinamento vieta (conf. Cass. n. 371/2018, Cass. n. 3873/2021).

L’inserimento in un contratto di fideiussione di una clausola di pagamento “a prima richiesta” generalmente è idonea a qualificare il negozio come contratto autonomo di garanzia, in quanto incompatibile con il principio di accessorietà che caratterizza il contratto di fideiussione; tuttavia, allorquando vi sia un’evidente discrasia tra una clausola di tal guisa e l’intero contenuto della convenzione negoziale, ai fini dell’interpretazione della volontà delle parti, pur in presenza della clausola predetta, il giudice è sempre tenuto a valutarla alla luce della lettura dell’intero contratto (conf. Cass. n. 4717/2019). Come noto, il contratto autonomo di garanzia ha la funzione di tenere indenne il creditore dalle conseguenze del mancato adempimento della prestazione gravante sul debitore principale, che può riguardare anche un fare infungibile, contrariamente al contratto del fideiussore, il quale garantisce l’adempimento della medesima obbligazione principale; inoltre, la causa concreta del contratto autonomo è quella di trasferire da un soggetto ad un altro il rischio economico connesso alla mancata esecuzione di una prestazione contrattuale, sia essa dipesa da inadempimento colpevole oppure no, mentre con la fideiussione, nella quale solamente ricorre l’elemento dell’accessorietà, è tutelato l’interesse all’esatto adempimento della medesima prestazione principale. Ne deriva che, mentre il fideiussore è un “vicario” del debitore, l’obbligazione del garante autonomo si pone in via del tutto autonoma rispetto all’obbligo primario di prestazione, essendo qualitativamente diversa da quella garantita, perché non necessariamente sovrapponibile ad essa e non rivolta all’adempimento del debito principale, bensì ad indennizzare il creditore insoddisfatto mediante il tempestivo versamento di una somma di denaro predeterminata, sostitutiva della mancata o inesatta prestazione del debitore (conf. Cass. n. 3947/2010).

L’Interest Rate Swap è il contratto derivato che prevede l’impegno reciproco delle parti di pagare l’una all’altra, a date prestabilite, gli interessi prodotti da una stessa somma di denaro, presa quale astratto riferimento e denominato nozionale, per un dato periodo di tempo (conf. Cass. n. 8770/2020). Il mark to market esprime, invece, il valore che, in ciascun momento della sua esistenza, assume il contratto di IRS, inteso quale costo che un terzo estraneo al contratto è disposto a pagare o chiede di ricevere, a seconda dei casi, per subentrare nel contratto ovvero quale costo che una delle due parti è tenuta a pagare all’altra o pretende di ricevere da questa per sciogliere anticipatamente il contratto. Dunque, è un metodo di valutazione delle attività finanziarie che si contrappone a quello storico o di acquisizione attualizzato mediante indici di aggiornamento monetario, che consiste nel conferire a dette attività il valore che esse avrebbero in caso di rinegoziazione del contratto o di scioglimento del rapporto prima della scadenza naturale (conf. Cass. n. 8770/2020). Il modello per effettuare la valutazione concreta di tale istituto è standard, cioè l’unico di uso comune per la valutazione degli strumenti finanziari oggetto di causa (cioè Interest Rate Swap del tipo Plan vanilla), non essendovi, quindi, alcuna necessità di un suo richiamo nel contratto (conf. C. App. Milano n. 2003/2020). 

In materia di contratto di conto corrente bancario, ed in riferimento ai rapporti eseguiti, in tutto o in parte, nel periodo anteriore al primo gennaio 2010 – data di entrata in vigore delle disposizioni di cui all’art. 2-bis del D.L. 185/2008 – al fine di verificare se sia intervenuto il superamento del tasso soglia dell’usura presunta, come determinato in base alle disposizioni della L. 108/1996, occorre effettuare la separata comparazione del tasso effettivo globale (TEG) dell’interesse praticato in concreto con il “tasso soglia”, nonché della commissione di massimo scoperto (CMS) applicata, con la “CMS soglia” (conf. Cass. n. 1464/2019; Cass. n. 16303/2018). Allorché il tasso degli interessi concordato superi, in corso di esecuzione del rapporto, la soglia dell’usura, come determinata in base alle disposizioni della L. 108/1996, non si verifica la nullità o l’inefficacia della clausola contrattuale di determinazione del tasso degli interessi stipulata anteriormente all’entrata in vigore della predetta legge o della clausola stipulata successivamente per un tasso non eccedente tale soglia quale risultante al momento della stipula (conf. Cass. n. 24675/2017).

L’art. 2-bis, terzo comma, L. 2/2009 prevedeva esplicitamente che i contratti in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto sono adeguati alle disposizioni del presente articolo entro centocinquanta giorni dalla medesima data. Tale obbligo di adeguamento costituisce giustificato motivo agli effetti dell’art. 118, primo comma, T.U.B., con la conseguenza che l’introduzione di una commissione utilizzi oltre disponibilità su fondi in sostituzione di una precedentemente esistente CMS, che avvenisse mediante il meccanismo di modifica unilaterale del contratto di cui all’art. 118 T.U.B., doveva ritenersi perfettamente legittima. 

I principi sono stati espressi nel giudizio di appello promosso dal fideiussore contro la sentenza di primo grado che rigettava l’opposizione a decreto ingiuntivo con il quale il Tribunale aveva ingiunto ad una s.n.c. e alla garante il pagamento, in via solidale, di una somma a favore di una banca a titolo di saldo debitore e di interessi debitori maturati sul conto corrente. 

In particolare, l’appellante impugnava la sentenza di prime cure, sollevando nove motivi di doglianza per: i) avere il primo giudice ritenuto preclusa alla garante, in quanto parte di un rapporto qualificato alla stregua di un contratto autonomo di garanzia, la facoltà di coltivare eccezioni concernenti l’obbligazione principale; ii) non aver il giudicante accolto la domanda di accertamento circa la nullità per indeterminabilità dell’oggetto contrattuale dei rapporti di IRS; iii) l’illegittima applicazione del tasso di interesse passivo ultra legale determinato senza alcuna pattuizione scritta; iv) accertare la nullità della previsione contrattuale inerente la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi e, conseguentemente, dichiarare non dovute le somme corrisposte a titolo di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi; v) non aver la banca, prima del D.L. 185/2008, reso determinabili né l’ammontare né le modalità con cui veniva computata la commissione di massimo scoperto, mentre a partire dal luglio 2009 avrebbe introdotto la commissione utilizzi oltre disponibilità su fondi, avvalendosi del meccanismo dello ius variandi di cui all’art. 118 T.U.B.; vi) accertare e dichiarare non dovute, per indeterminatezza e indeterminabilità dell’oggetto, ed in ogni caso perché prestazione senza causa, le somme addebitate a titolo di spese di chiusura, di penale di sconfino, di diritti di segreteria e di spese liquidazione interessi debitori; vii) accertare e dichiarare la nullità e l’inefficacia di ogni e qualsivoglia pretesa della convenuta banca, in relazione all’indicato rapporto di apertura di credito, per interessi, spese, commissioni, e competenze per contrarietà al disposto di cui alla L. 108/1996, perché eccedente il cosiddetto tasso soglia nel periodo trimestrale di riferimento; viii) il mancato assolvimento da parte della banca del proprio onere probatorio; ix) revocare il provvedimento monitorio.

Ritenuto che non vi era alcuna effettiva distinzione dell’oggetto tra l’obbligazione del rapporto fondamentale e quella del rapporto di garanzia, né della causa dei due rapporti, che potrebbe giustificare la qualificazione della garanzia contrattualmente assunta come autonoma e rilevato che nella lettera di fideiussione non era compresa alcuna rinuncia generale del fideiussore a proporre eccezioni che spetterebbero al debitore principale, ma soltanto quella ad opporre eccezioni riguardo al momento in cui la banca intenda esercitare la sua facoltà di recedere dai rapporti col debitore, la Corte adita riconduceva la fattispecie alla fideiussione a prima richiesta e non a quella del contratto autonomo di garanzia.

Rilevato che oggetto del contratto erano le reciproche obbligazioni delle due parti di pagare l’una all’altra, a scadenze prestabilite, il differenziale sussistente tra le due somme, calcolate su un medesimo capitale di riferimento, con applicazione di due determinati parametri differenti per le due parti, la circostanza per cui nei contratti derivati contestati non sia evidenziato il criterio per la determinazione del valore del mark to market secondo l’adita Corte non assume rilevanza ai fini dell’accertamento della nullità dei suddetti contratti, posto che tale valore poteva essere pienamente determinabile in via oggettiva nei contratti derivati per cui è causa, come confermato, del resto, dal fatto che il consulente di parte appellante sia stato perfettamente in grado di calcolare tale valore per ciascuno dei contratti derivati presi in esame nella perizia prodotta in giudizio.

Ulteriormente, la Corte non riteneva condivisibile la tesi di parte appellante secondo cui nel computo del T.E.G. andrebbero inserite anche le commissioni di massimo scoperto, essendo pacifico il principio giurisprudenziale secondo cui solamente l’usura c.d. originaria assume rilevanza ai fini della caducazione delle clausole contrattuali che prevedano un tasso di interessi superiore al tasso soglia. 

Quanto alla commissione di massimo scoperto va rilevato, da una parte, che la commissione prevista nel contratto di apertura di conto corrente era nulla per indeterminatezza, non essendo ivi state esplicitate le modalità per il suo calcolo, ma essendo stata prevista meramente la misura percentuale applicabile, mentre, dall’altra, che la commissione di massimo scoperto pattuita successivamente era valida, risultando determinabile sia nella misura che nelle modalità per il suo calcolo. Quanto alla commissione utilizzi oltre disponibilità su fondi veniva dichiarata la nullità, poiché la banca aveva introdotto la suddetta commissione in difformità non solo rispetto al disposto di cui all’art. 118 T.U.B., ma anche rispetto all’art. 2-bis, terzo comma, L. 2/2009.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Corte d’appello di Brescia, sentenza del 17 marzo 2022, n. 353 – ripetizione dell’indebito, ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c., determinazione delle commissioni.

In materia di ripetizione di indebito, colui che propone domanda di restituzione è onerato non solo della produzione degli estratti conto, sulla base dei quali possa essere elaborata la ricostruzione, da integrarsi, eventualmente, con altri elementi probatori in caso di incompleta produzione, ma altresì della dimostrazione delle condizioni economiche in relazione alle quali ha dedotto l’illegittima applicazione degli interessi passivi e di altre voci (cfr. Cass. n. 33009/2019).

La documentazione ex art. 210 c.p.c. può essere esibita solo previa richiesta stragiudiziale prevista dall’art. 119, co. 4, TUB; siffatta documentazione, tuttavia, non può essere acquisita in sede di consulenza tecnica d’ufficio contabile, ove essa abbia ad oggetto fatti e situazioni che, essendo
posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, debbano necessariamente essere provati dalle stesse (cfr. Cass n. 24641/2021).

Solo attraverso il confronto con il regolamento contrattuale è possibile verificare se vi siano stati addebiti in difformità del medesimo, i quali non sono desumibili sic et simpliciter dall’analisi degli estratti conti e a maggior ragione da quelli scalari.

I principi sono stati espressi nel giudizio d’appello proposto dal correntista avverso la sentenza di prime cure per sentir accertare, in mancanza del contratto di apertura di conto corrente e, pertanto, in assenza della contezza delle condizioni economiche in esso stabilite: i) l’effettivo ammontare degli interessi, delle commissioni di massimo scoperto, degli interessi inerenti al fido bancario, delle spese e degli interessi dovuti sulle commissioni; ii) l’illegittimità degli addebiti della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi in pendenza del rapporto.

(Massime a cura di Edoardo Abrami)




Sentenza del 2 marzo 2022 – Presidente: dott. Donato Pianta – Giudice relatore: dott.ssa Maria Tulumello

Il requisito della forma scritta del contratto relativo ai servizi di finanziamento, disposto dall’art 23 d.lgs. 58/98, è rispettato ove il contratto sia redatto per iscritto e ne venga consegnata una copia al cliente; è sufficiente la sola sottoscrizione dell’investitore non necessitando la sottoscrizione anche dell’intermediario, il cui consenso ben può desumersi alla stregua di comportamenti concludenti dallo stesso tenuti (conf. Cass. n 898/2018). La mancata sottoscrizione del documento contrattuale da parte della banca non determina la nullità per difetto della forma scritta prevista dall’art. 117, terzo comma, d.lgs. 385/1993, trattandosi di un requisito che va inteso non in senso strutturale, ma funzionale. Ne consegue che è sufficiente che il contratto sia redatto per iscritto, ne sia consegnata una copia al cliente e vi sia la sottoscrizione di quest’ultimo, potendo il consenso della banca desumersi alla stregua di comportamenti concludenti (conf. Cass. n. 16070/2018; Cass. n. 14646/2018).

Il dibattito dottrinale e giurisprudenziale in materia di anatocismo bancario è dovuto alla scarsa chiarezza del testo normativo introdotto dalla L. 147/2013 e alla superfluità dell’intervento della delibera CICR, finalizzata a rendere operativo il disposto della normativa primaria. Quest’ultima, infatti, richiamava un intervento del CICR, che si poneva come imprescindibile anche da un punto di vista pratico dal momento che, anche partendo dal presupposto secondo cui gli interessi, una volta maturati e passati a capitale, avrebbero comunque dovuto essere contabilizzati separatamente rispetto al capitale per evitare la produzione di ulteriori interessi su di essi, la relativa applicazione ai diversi contratti bancari (con particolare riferimento al contratto di apertura di credito) non appariva così immediata, esponendosi ad una serie di possibili soluzioni diverse tra loro, con rischio di disparità di trattamento tra i correntisti. Quanto sopra costituisce la ragione della tecnica normativa utilizzata dal legislatore nel settore bancario, che vede la norma primaria stabilire principi e divieti e la normativa secondaria regolare i tempi e le modalità concrete di attuazione, anche al fine di evitare situazioni di deregulation, ossia di arbitraria o diversificata disciplina nell’ambito del settore bancario; la delega rilasciata dalla normativa primaria a quella secondaria è proprio finalizzata a rendere omogenea e armonica la disciplina per tutti gli utenti bancari e per tutti gli istituti bancari e finanziari. 

In materia di pattuizioni delle commissioni di massimo scoperto, la mera indicazione di una percentuale rende tale voce di costo del tutto priva di qualsivoglia criterio di determinazione circa il contenuto e le modalità di applicazione e quantificazione, che possano permettere al correntista l’esatta comprensione delle sue modalità di applicazione non solo ex ante ma anche ex post, dato che non vi è alcun parametro certo e definitivo cui ricollegare il calcolo. 

I principi sono stati espressi nel giudizio di appello promosso da una s.n.c. contro la sentenza di primo grado che respingeva la domanda attorea, con la quale la s.n.c. chiedeva: i) la nullità del contratto di conto corrente per difetto del requisito della forma scritta prevista ad substantiam; ii) di dichiararsi illegittimi e non dovuti gli addebiti per interessi anatocistici e usurari, per commissioni di massimo scoperto e spese; iii) di determinare il corretto dare-avere tra le parti; iv) di condannare la banca alla restituzione delle somme illegittimamente addebitate o riscosse, non quantificate nel loro ammontare.

In particolare, l’appellante chiedeva la declaratoria di nullità del contratto di conto corrente e l’accertamento dell’esatto saldo, condannando la controparte alla rettifica e al pagamento delle somme indebitamente trattenute o non addebitate.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 25 febbraio 2022 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

In materia di rapporti di leasing, sulla scorta dei principi generali applicabili alle fattispecie di responsabilità contrattuale, in capo al creditore incombe l’onere di allegare il titolo e l’inadempimento, mentre sul debitore grava l’onere di provare il corretto adempimento, ovverosia il fatto estintivo dell’obbligazione. Pertanto, il predetto onere non può ritenersi assolto mediante un mero rinvio alla perizia di parte, non essendo il giudice tenuto a ricercare all’interno della documentazione versata in atti quegli elementi in fatto che spetta unicamente alla parte interessata introdurre in giudizio, ritualmente e tempestivamente, all’interno dell’atto difensivo (conf. Trib. Brescia, ord. 10.2.2020), né invero a effettuare autonomamente una “ricongiunzione” dei pagamenti, cumulativamente versati in atti, con i debiti risultanti dall’estratto conto avversario.

Nel caso in cui il contratto di leasing ponga a carico dell’utilizzatore gli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria dell’immobile – utilizzatore che viene espressamente costituito custode del bene – egli deve sopportare eventuali esborsi conseguenza di atti vandalici di terzi.

La normativa speciale prevista dalla L. 124/2017 subordina l’accredito al cliente del valore di realizzo del bene alla previa restituzione e al successivo collocamento sul mercato. Invero, il bene può essere immesso sul mercato soltanto dopo la restituzione e il corrispettivo ricavato dalla vendita va imputato a deconto del credito della concedente nel momento in cui la stessa faccia valere in giudizio il diritto al risarcimento del danno (conf. Trib. Brescia, 3 gennaio 2022). Resta, tuttavia, impregiudicata la facoltà per l’utilizzatrice, nell’ipotesi in cui il valore residuo dell’immobile superi l’importo spettante alla concedente in forza della clausola penale, di agire in un autonomo giudizio ai fini della restituzione della differenza (conf. Trib. Brescia, 9.7.2021).

Nel caso di scostamento tra tasso indicato in contratto e tasso leasing effettivo, l’art. 117 d.lgs. n. 385/983 si applica nel caso di assoluta mancanza o indeterminatezza del tasso di interesse, non già nelle ipotesi di erronea indicazione del tasso, laddove l’unico rimedio esperibile dal cliente è di tipo risarcitorio (conf. Trib. Brescia, 18.1.2021). Peraltro, in materia di leasing l’oggetto del contratto è desumibile dall’indicazione del numero e dell’importo unitario dei canoni, della durata del rapporto, dell’importo delle spese, del tasso di interesse di mora e del prezzo di riscatto dell’immobile. Nell’ipotesi in cui non sia specificamente contestato che gli addebiti effettuati dalla concedente nel corso del rapporto siano stati coerenti con le summenzionate previsioni contrattuali, non può configurarsi alcuna fattispecie di indebito. Infatti, anche a voler per assurdo ipotizzare la veridicità del “T.E.G.” o rectius“T.A.N.” – tipologia di tasso invero sconosciuta alla normativa in tema di leasing, che prevede l’indicazione del solo tasso che per il quale si verifica l’uguaglianza fra costo di acquisto del bene locato (al netto di imposte) e valore attuale dei canoni e del prezzo dell’opzione di acquisto finale (al netto di imposte) contrattualmente previsti – l’unico rimedio esperibile sarebbe di tipo risarcitorio, trattandosi di voce esposta a fini di trasparenza, con la conseguenza che la pretesa di ricalcolo del piano di ammortamento sulla base di tale tasso alternativo non troverebbe fondamento alcuno (conf. Trib. Brescia, 31 gennaio 2022).

I principi sono stati espressi nel giudizio di opposizione promosso da una s.r.l. avverso il decreto ingiuntivo emesso in favore di una banca a titolo di canoni scaduti e interessi di mora derivanti dal contratto di leasing immobiliare, risolto dalla concedente, giusta clausola risolutiva espressa.

In particolare, l’opponente eccepiva: i) il deposito del ricorso monitorio in periodo feriale; ii) la non conformità agli originali telematici del ricorso e del decreto ingiuntivo oggetto di notifica; iii) la mancata allegazione della procura al ricorso monitorio; iv) il mancato svolgimento della procedura di mediazione obbligatoria; v) l’imputabilità del mancato pagamento dei canoni fatti valere da controparte agli atti vandalici che avevano reso l’immobile inutilizzabile per diversi anni, costringendo l’utilizzatrice a sopportare i costi di ripristino; vi) il rifiuto da parte della concedente, contrario a buona fede, di rinegoziare i termini contrattuali; vii) la mancata cooperazione da parte della concedente ai fini dell’ottenimento dell’indennizzo assicurativo; viii) la natura traslativa del contratto di leasing, con conseguente applicabilità dell’art. 1526 c.c.; ix) l’insussistenza del credito, tenuto conto del diritto dell’utilizzatrice di vedersi riconosciuto il valore di realizzo dell’immobile; x) la nullità della clausola che disciplina la corresponsione di interessi, stante la pattuizione di interessi di mora usurari. 

Con la prima memoria ex art. 183, sesto comma, c.p.c. l’opponente formulava ulteriori motivi di opposizione, sulla scorta delle risultanze di una perizia di parte, ovverosia: a) l’applicazione di un tasso superiore al tasso indicato contrattualmente, il che all’evidenza comporta la necessità di rideterminare il debito per rate scadute azionato in sede monitoria; b) l’indeterminatezza contrattuale della previsione dei tassi e delle altre condizioni contrattuali ai sensi dell’art. 117 TUB, con conseguente ricalcolo del piano di ammortamento al saggio d’interesse sostitutivo; c) l’incertezza sulla data di stipula del contratto, rilevante ai fini della determinazione del tasso soglia; d) il superamento del tasso soglia; e) l’incertezza del credito azionato in via monitoria, che non tiene conto di pagamenti parziali effettuati dall’opponente.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 23 febbraio 2022 – Presidente: dott. Donato Pianta – Giudice relatore: dott.ssa Annamaria Laneri

L’indice sintetico di costo, o indicatore sintetico di costo (ISC), detto anche tasso annuo effettivo globale (TAEG) è l’indicatore di tasso di interesse di un’operazione di finanziamento. Esso rappresenta il costo effettivo dell’operazione, espresso in percentuale, che il cliente deve alla società che ha erogato il prestito o il finanziamento; in altri termini, il TAEG racchiude, contemporaneamente, il tasso d’interesse in regime di capitalizzazione composta e tutte le spese accessorie della pratica, con la conseguenza che avendo l’ISC/TAEG lo scopo di consentire al cliente di conoscere il costo totale effettivo del credito che gli viene erogato mediante il mutuo, la sua inesatta indicazione non comporta, di per sé, una maggiore onerosità del finanziamento, quanto piuttosto l’erronea rappresentazione del suo costo complessivo, pur sempre rilevabile dalla sommatoria degli oneri e delle singole voci di costo elencati nel contratto; pertanto, stante il suo valore sintetico, l’ISC non rientra nel novero dei tassi, prezzi e altre condizioni la cui erronea indicazione è sanzionata dall’art. 117 TUB mediante la sostituzione dei tassi d’interesse normativamente stabiliti a quelli pattuiti (conf. Cass. n. 39169/2021). 

I principi sono stati espressi nel giudizio di appello promosso da una banca contro la sentenza di primo grado che rideterminava il piano di ammortamento del contratto di mutuo quantificando l’importo che gli attori avevano pagato in eccesso a titolo di interessi sul predetto mutuo.

In particolare l’appellante riteneva prive di pregio le contestazioni, mosse dai mutuatari nei confronti degli istituti di credito, volte ad ottenere la declaratoria di nullità della clausola determinativa dell’ISC a seguito della sua inesatta indicazione nei contratti di mutuo e di difformità tra ISC pattuito e TEG applicato e chiedeva, quindi, la revoca della condanna a versare l’importo risultante dal ricalcolo del piano di ammortamento effettuato previa applicazione dei tassi sostitutivi ex art. 117 TUB, settimo comma.

Posto che l’ISC/TAEG ha funzione meramente informativa finalizzata a porre il cliente nella condizione di conoscere il costo totale ed effettivo del finanziamento prima di accedervi, e non è, invece, un requisito di validità del contratto, la difformità tra ISC indicato in contratto ed ISC effettivamente applicato, non comportando di per sé una maggiore onerosità del finanziamento, secondo la Corte d’Appello non determinava la nullità parziale del contratto e non portava all’applicazione del tasso sostitutivo ex art. 117, settimo comma, TUB, laddove, i tassi e gli altri oneri economici erano stati dettagliatamente pattuiti per iscritto in altre specifiche clausole, permettendo alla parte mutuataria di individuare comunque l’impegno economico effettivo derivante dall’operazione di finanziamento, attraverso la sommatoria degli oneri e delle singole voci di costo indicati in contratto.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 10 febbraio 2022 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

A seguito della cessione del credito, il debitore ceduto diviene obbligato verso il cessionario allo stesso modo in cui era tale nei confronti del suo creditore originario. Pertanto, potrà opporre al cessionario tutte le eccezioni opponibili al cedente, sia quelle attinenti alla validità del titolo costitutivo del credito, sia quelle relative ai fatti modificativi ed estintivi del rapporto anteriori alla cessione o anche posteriori al trasferimento, ma anteriori all’accettazione della cessione o alla sua notifica o alla sua conoscenza di fatto (conf. Cass. n. 575/2001).

Rispetto all’azione di ripetizione di indebito oggettivo è passivamente legittimato solo il soggetto che ha ricevuto la somma che si assume essere non dovuta, come si evince dalla formulazione letterale dell’art. 2033 c.c. (conf. Cass. n. 25170/2016).

In materia di finanziamenti, affinché possa configurarsi un collegamento negoziale sono necessari due elementi: (i) uno oggettivo, costituito dal nesso teleologico tra i negozi, volti alla regolamentazione degli interessi reciproci delle parti nell’ambito di una finalità pratica consistente in un assetto economico globale e unitario, e (ii) uno soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti di volere non solo l’effetto tipico dei singoli negozi in concreto posti in essere, ma anche il coordinamento tra di essi per la realizzazione di un fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che assume una propria autonomia anche dal punto di vista causale (conf. Cass. 5.3.2019). Peraltro, affinché possa configurarsi un collegamento negoziale in senso tecnico non è sufficiente un nesso occasionale tra i negozi, ma è necessario che il collegamento dipenda dalla genesi stessa del rapporto, dalla circostanza, cioè, che uno dei due negozi trovi la propria causa (e non il semplice motivo) nell’altro, nonché dall’intento specifico e particolare delle parti di coordinare i due negozi, instaurando tra di essi una connessione teleologica; soltanto se la volontà di collegamento si sia obiettivata nel contenuto dei diversi negozi si può ritenere che entrambi o uno di essi, secondo la reale intenzione dei contraenti, siano destinati a subire le ripercussioni delle vicende dell’altro (conf. Cass. n. 12567/2004).

I principi sono stati espressi nel giudizio di opposizione promosso avverso il decreto ingiuntivo ottenuto da una banca a titolo di debito residuo derivante dalle rate insolute del contratto di prestito concluso tra le parti. In particolare, l’opponente eccepiva: i)la nullità del mutuo per difetto di causa concreta, trattandosi di prestito concesso per ripianare il saldo debitore, in tesi inesistente, del conto corrente intrattenuto dalla s.r.l. (di cui l’opponente era socia con una partecipazione pari al 30% del capitale) con la medesima banca, rapporto collegato sul piano negoziale al prestito e caratterizzato da vari vizi, o oggetto del procedimento pendente presso il Tribunale; ii) la nullità del mutuo in quanto fittizio, non essendosi verificata alcuna traditio di denaro, transitato direttamente nelle casse della s.r.l. ai fini dell’estinzione del debito nei confronti della banca, in virtù del collegamento negoziale anzidetto; iii) l’indeterminatezza della clausola di indicizzazione del tasso, poiché non specifica se detta indicizzazione coinvolga la sola quota interessi oppure anche la quota capitale; iv) la concessione abusiva del credito da parte della banca.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 1 febbraio 2022, n. 196 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Angelica Castellani

L’azione ex art. 146 l. fall.
è proposta dal curatore fallimentare avverso gli amministratori della società
fallita, al fine di ottenere la reintegrazione del patrimonio sociale
nell’interesse dei soci e dei creditori sociali, nei confronti dei quali la
clausola compromissoria non può operare, trattandosi di soggetti terzi rispetto
alla società (conf. Cass. n. 19398/2014, Cass. n. 28533/2018 e Cass. n.
15830/2021). È, quindi, esclusa la competenza degli arbitri in relazione
all’azione di responsabilità degli amministratori ex art. 146 l. fall.,
in ragione del contenuto unitario e inscindibile di tale azione, nella quale
confluiscono, con connotati di autonomia e con la modifica della legittimazione
attiva, sia l’azione prevista dall’art. 2393 c.c. sia quella di cui all’art.
2394 c.c. Un’ipotetica separazione delle cause rispetto al fallimento attore,
l’una afferente all’esercizio dell’azione sociale (di competenza degli arbitri)
e l’altra all’azione dei creditori sociali (di competenza del giudice
ordinario), significherebbe contraddire la connotazione unitaria e inscindibile
dell’azione di responsabilità esercitata dal curatore e vanificarne lo scopo
(conf. Cass. n. 15830/2020).

La procedura di liquidazione del patrimonio
del debitore, disciplinata dagli artt. 14-ter
e ss. della l. n. 3/2012, prevede un procedimento di accertamento del passivo
strutturato in fasi (avviso ai creditori, invio della domanda di
partecipazione, predisposizione del progetto di stato passivo e sua
approvazione con intervento del giudice delegato in presenza di osservazioni non
superabili, eventuale reclamo al collegio avverso il provvedimento del giudice
delegato). L’art. 14-octies della l. n. 3/2012, a differenza di quanto
sancito dall’art. 52 l. fall., non detta un principio di esclusività
dell’accertamento dei crediti nell’ambito della procedura da
sovraindebitamento. Il contrasto relativo all’esistenza/permanenza o meno del
potere di cognizione in capo al giudice ordinario a seguito dell’apertura della
procedura di liquidazione del patrimonio del debitore, dev’essere risolto mantenendo
la distinzione tra l’accertamento del credito, che in mancanza di una esplicita
disposizione di legge non può essere sottratto alla cognizione del giudice
ordinario, e la sua soddisfazione in sede concorsuale, per la quale la
partecipazione al procedimento di formazione del passivo (disciplinata dagli
artt. 14-ter e ss. della l. n. 3/2012) costituisce passaggio obbligato.
Pertanto, a seguito della dichiarazione di apertura della procedura
liquidazione, in tanto il creditore potrà concorrere alla distribuzione del
ricavato della liquidazione, in quanto egli abbia presentato domanda di
partecipazione ex art. 14-septies l. n. 3/2012 e abbia ottenuto
l’ammissione del proprio credito al passivo formato ai sensi del successivo
art. 14-octies; in mancanza, il credito potrà essere fatto valere solo
alla chiusura della liquidazione e sull’eventuale residuo. Sebbene, dunque, il
procedimento di verifica del passivo nella procedura da sovraindebitamento non
sia per legge connotato da carattere di esclusività, esso costituisce l’unico
mezzo per concorrere alla distribuzione del ricavato in pendenza di
liquidazione.

In sede di azione ex art.
146, secondo comma, l. fall., il curatore fallimentare è legittimato a far
valere la responsabilità degli amministratori della società fallita sia nell’ambito
dell’azione sociale (in presenza dei relativi presupposti, vale a dire il danno
prodotto al patrimonio sociale da un atto, colposo o doloso, commesso in
violazione ai doveri imposti dalla legge o dall’atto costitutivo), sia nell’ambito
dell’azione dei creditori sociali (nella misura in cui il patrimonio sociale
sia divenuto insufficiente per l’integrale soddisfazione dei creditori della
società in conseguenza di un atto, commesso con dolo o colpa, in violazione
degli obblighi funzionali alla conservazione della sua integrità). Le due
azioni, ancorché diverse per presupposti e regime giuridico, vengono ad
assumere, nell’ipotesi di fallimento, carattere unitario e inscindibile, al
fine di consentire l’acquisizione all’attivo della procedura di quel che è
stato sottratto dal patrimonio sociale – unitariamente considerato a garanzia
sia dei soci che dei creditori sociali – per fatti imputabili agli
amministratori (conf. Cass. n. 23452/2019; Cass. n. 19340/2016; Cass. n.
10378/2012).

L’azione sociale di responsabilità
si prescrive nel termine di cinque anni, con decorrenza dal momento in cui il
danno diventa oggettivamente percepibile all’esterno, manifestandosi nella
sfera patrimoniale della società; il decorso di tale termine rimane, peraltro,
sospeso, a norma dell’art. 2941, n. 7, c.c., fino alla cessazione
dell’amministratore dalla carica in ragione del rapporto fiduciario
intercorrente tra l’ente ed il suo organo gestorio (conf. Cass. n. 24715/2015;
Cass. n. 10378/2012; Cass. n. 6719/2008). L’azione dei creditori sociali, anche
laddove promossa dal curatore fallimentare a norma dell’art. 146 l. fall., è
soggetta a prescrizione quinquennale che decorre dal momento dell’oggettiva
percepibilità, da parte dei creditori, dell’insufficienza dell’attivo a
soddisfare i debiti (e non anche dall’effettiva conoscenza di tale situazione),
che, a sua volta, dipendendo dall’insufficienza della garanzia patrimoniale
generica (art. 2740 c.c.), non corrisponde allo stato d’insolvenza ex art.
5 della l. fall., derivante, in primis, dall’impossibilità di ottenere
ulteriore credito. In ragione della onerosità della prova gravante sul
curatore, sussiste una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies
a quo
di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento,
ricadendo sull’amministratore la prova della diversa data anteriore di
insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale (conf. Trib. Brescia, n. 3593/2017;
Cass. n. 24715/2015).

I principi sono stati espressi in
ipotesi di azione di responsabilità
ex art.
146 l. fall., promossa dal curatore fallimentare nei confronti dei soci
(amministratori) per il compimento di atti di
mala gestio. Il Tribunale riteneva procedibile l’azione ordinaria promossa dal fallimento nei
confronti del socio, fermi i limiti della procedura da esdebitamento, ragione
per la quale sono stati poi revocati i provvedimenti di sequestro chiesti dal
fallimento.

Il Tribunale
accertava la non operatività della
clausola compromissoria contenuta nello statuto della società, in
ragione del contenuto unitario e inscindibile dell’azione di responsabilità e dichiarava non prescritte sia l’azione
sociale di responsabilità sia l’azione dei creditori sociali, posto che:
a) i convenuti non avevano
fornito alcun elemento da cui ricavare l’insorgenza di una situazione di
incapienza patrimoniale anteriore alla dichiarazione di fallimento e
conoscibile ai terzi secondo l’ordinaria diligenza;
b) l’esistenza di
tale situazione non poteva essere desunta, a posteriori, dai dati contenuti nel
rapporto riepilogativo semestrale redatto dal curatore, trattandosi di
documento formatosi solo successivamente all’apertura della procedura
concorsuale. A ciò si aggiunga che i bilanci annualmente depositati dal
fallimento sarebbero stati redatti in violazione dei fondamentali principi di
corretta e veritiera rappresentazione della situazione patrimoniale ed
economica dell’impresa stabiliti dal codice civile, e ciò al precipuo scopo di
occultare ai terzi la grave crisi aziendale culminata nel deposito della
domanda di concordato preventivo
ex art. 161, sesto comma, l. fall., prima,
e nel fallimento della società, poi, con la conseguente impossibilità di far
decorrere la prescrizione dalla pubblicazione, in epoca anteriore al
fallimento, dei suddetti bilanci di esercizio.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 3 gennaio 2022 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

In tema di nullità della clausola penale per violazione dell’art. 1526 c.c., è consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la disciplina pattizia delle conseguenze della risoluzione non contrasta con i limiti imposti dall’art. 1526, secondo comma, c.c., nella misura in cui riconosce all’utilizzatrice la deduzione dal credito complessivo del valore residuo del bene (conf. Trib. Brescia, 4 maggio 2021) Si ritiene, infatti, che la clausola penale contenuta nelle condizioni generali del contratto di leasing immobiliare sia pienamente legittima e compatibile con l’art. 1526 c.c., ove si consideri che la norma preveda per il venditore l’obbligo di restituzione delle rate riscosse e il diritto al pagamento di equo compenso per l’uso della cosa (in aggiunta logicamente alla restituzione del bene di proprietà), statuisca, inoltre, che i contraenti possano convenire che le rate pagate restino acquisite al venditore a titolo d’indennità e altresì che la stessa norma faccia salvo il diritto del venditore al risarcimento del danno. Va da sé che anche la quantificazione del danno, come l’indennità, ben possa essere preventivamente determinata dalle parti con clausola penale, e che tale indubbiamente deve qualificarsi la previsione contrattuale del diritto del concedente di pretendere, a titolo di danno, l’importo corrispondente all’attualizzazione delle rate a scadere e del prezzo di riscatto dedotto il ricavato della vendita del bene immobile recuperato.

Oggetto della clausola penale tipicamente è una somma di denaro e, ai fini della sua determinabilità, è sufficiente che le parti ne pattuiscano i criteri di calcolo. Peraltro, con riferimento a tempi, modalità e condizioni di vendita e a tempi e modalità con cui il corrispettivo dovrebbe essere riversato in favore dell’utilizzatore (elementi non essenziali del patto) occorre rilevare come il bene possa essere immesso sul mercato soltanto dopo la restituzione e il corrispettivo ricavato dalla vendita vada imputato a deconto del credito risarcitorio della concedente e, quindi, non possa essere fatto valere prima del nel momento in cui la stessa concedente agisca ai fini del risarcimento del danno da inadempimento.

Sotto il profilo della contestazione di incertezza del credito, discutendosi di finanziamenti con piano di restituzione predefinito, valgono le ordinarie regole in punto di riparto dell’onere della prova nelle azioni di responsabilità contrattuale. Quindi, la concedente è tenuta a provare il titolo (mediante la produzione dei contratti) e ad allegare l’inadempimento, mentre ricade sul debitore l’onere di provare la corretta esecuzione delle prestazioni a proprio carico, principalmente il pagamento puntuale e tempestivo dei canoni. 

In mancanza della fase del cosiddetto “accertamento del passivo”, il provvedimento di omologazione del concordato preventivo, per le particolari caratteristiche della procedura che a essa conduce, determina un vincolo definitivo sulla riduzione quantitativa dei crediti, ma non comporta la formazione di un giudicato sull’esistenza, entità e rango (privilegiato o chirografario) di questi ultimi, né sugli altri diritti implicati nella procedura stessa, presupponendone un accertamento non giurisdizionale, ma meramente amministrativo, di carattere delibativo e finalizzato al solo scopo di consentire il calcolo delle maggioranze richieste ai fini dell’approvazione della proposta, sicché non esclude la possibilità di far accertare in via ordinaria, nei confronti dell’impresa in concordato, il proprio credito e il privilegio che lo assiste (conf. Cass. n. 33345/2018).

I principi sono stati espressi nel giudizio di opposizione promosso dal fideiussore di una s.r.l. avverso il decreto ingiuntivo ottenuto da una banca a titolo di risarcimento del danno patito a seguito della risoluzione anticipata dei contratti di locazione finanziaria per il mancato pagamento dei canoni, in virtù di quanto previsto dalla clausola risolutiva espressa delle condizioni generali dei medesimi contratti.

In particolare, l’opponente eccepiva: i) la nullità della clausola prevista nelle condizioni generali dei contratti di leasing(“risoluzione del contratto” e relativa penale) per mancata specifica approvazione ai sensi degli artt. 1341 e 1342 c.c.; ii) la nullità della medesima clausola per violazione dell’art. 1526 c.c., trattandosi di leasing traslativo; iii) la nullità della medesima clausola per violazione dell’art. 1383 c.c. nonché degli artt. 1418 e 1346 c.c., stante l’indeterminatezza/indeterminabilità dell’oggetto della clausola; iv) la nullità degli articoli previsti nelle condizioni generali dei contratti per indeterminatezza/indeterminabilità dell’oggetto; v) la carenza dei requisiti per l’emissione del provvedimento ingiuntivo, alla luce dell’illiquidità e dell’incertezza del credito oggetto di causa.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Decreto del 9 dicembre 2021 – Presidente: Dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice relatore: Dott. Gianluigi Canali

Nella procedura di concordato
preventivo la proposta e l’attestazione devono: a) individuare, in primo luogo, i creditori e i rispettivi
crediti e, in secondo luogo, qualora detti crediti fossero contestati, tenere
conto della necessità di stanziamento di fondi per rischi, dando atto delle
ragioni degli importi stanziati; b) precisare
se i finanziamenti di natura chirografaria concessi dagli istituti di credito siano
o meno assistiti dalla garanzia pubblicistica rilasciata dal fondo ex L.
662/96; c) verificare se il vincolo
di destinazione di determinati beni possa essere oggetto di impugnazione da
parte dei legittimari, per violazione della quota di legittima.

Al fine di valutare la convenienza
del concordato rispetto all’ipotesi fallimentare, l’attestatore deve verificare:
a) il momento in cui la perdita del capitale sociale si sia verificata; b)
se i componenti dell’organo di controllo abbiano stipulato contratti di
assicurazione e, in caso positivo, per quali somme nonché a quali condizioni
contrattuali. Inoltre, l’attestatore, se nell’eseguire i propri stress test considera
disponibili per la massa i fondi generici, è tenuto a spiegare perché, qualora
si verificassero le prospettate circostanze sfavorevoli, il rischio che quei
fondi siano volti a coprire verrebbe meno.

Principi
espressi nel giudizio di ammissione al concordato preventivo, all’esito del
quale il Tribunale ha giudicato inammissibile la proposta di concordato
formulata, tenuto conto dell’esistenza di lacune e di criticità nel piano proposto
e nell’attestazione, sia in relazione alla quantificazione del passivo
concordatario sia con riferimento alle concrete possibilità di realizzo
dell’attivo. Nello specifico, il Tribunale rilevava che la società debitrice
non aveva preso in debita considerazione le pretese di alcuni professionisti e
che l’attestazione risultava carente in relazione alla valutazione della
convenienza del concordato preventivo rispetto all’ipotesi fallimentare.

(Massima cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 25 novembre 2021 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

In materia di rapporti di leasing con piano di restituzione predefinito vige la regola di riparto dell’onere della prova generalmente applicabile alla responsabilità contrattuale, con la conseguenza che compete al debitore l’onere di provare il corretto adempimento dell’obbligazione.

La clausola penale contenuta nelle condizioni generali del contratto di leasing immobiliare risulta pienamente legittima e compatibile con l’art. 1526 c.c. qualora preveda: (i) per il venditore l’obbligo di restituzione delle rate riscosse e il diritto al pagamento di equo compenso per l’uso della cosa (in aggiunta alla restituzione del bene di proprietà) e (ii) il diritto  del concedente a pretendere i canoni e a trattenere quelli già percepiti sino alla risoluzione del contratto (essendo previsto, al comma secondo della sopra citata disposizione, che i contraenti possano convenire che le rate pagate restino acquisite al venditore a titolo d’indennità). Peraltro, tenuto conto che l’art. 1526, comma primo, c.c. fa salvo il diritto del venditore al risarcimento del danno, anche la quantificazione del danno, come l’indennità, ben può essere preventivamente determinata dalle parti con clausola penale, e come tale deve qualificarsi la previsione contrattuale del diritto del concedente di pretendere, a titolo di risarcimento del danno, l’importo corrispondente all’attualizzazione delle rate a scadere e del prezzo di riscatto, dedotto il ricavato della vendita del bene immobile recuperato (cfr. Trib. Brescia, 4 maggio 2021).

Resta impregiudicata la facoltà per l’utilizzatore, nell’ipotesi in cui il valore residuo dell’immobile superi l’importo spettante alla concedente in forza della clausola penale, di agire in un autonomo giudizio ai fini della restituzione della differenza.

Principi espressi nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, ottenuto da una banca nei confronti del titolare di un’impresa individuale, a titolo di canoni scaduti insoluti e interessi di mora del contratto di leasing immobiliare. 

L’opponente fondava l’opposizione: i) sul controcredito scaturente dall’applicazione dell’art. 1526 c.c. al rapporto, a seguito della risoluzione del contratto per inadempimento comunicato dalla concedente, con conseguente diritto alla restituzione dei canoni di leasing; ii) sulla nullità della clausola penale del contratto sia per contrasto con l’art. 1526 c.c. sia perché vessatoria ed eccessivamente onerosa; iii) sulla nullità della clausola contrattuale relativa agli interessi di mora per superamento del tasso soglia di cui alla L. 108/1996; iv) sull’eventuale applicabilità al contratto di leasing della disciplina introdotta con la L. 124/2017.

Il Tribunale dichiarava l’opposizione infondata per i seguenti motivi: a) la morosità alla base della risoluzione contrattuale per inadempimento non era contestata tra le parti; b) le domande e le eccezioni dell’opponente fondate sull’applicabilità dell’art. 1526 c.c. al rapporto erano infondate in diritto, poiché l’art. 1526, primo comma, c.c. veniva derogato dalla clausola penale prevista nel contratto, in quanto non contrastante con i limiti imposti dall’art. 1526, comma secondo, c.c., né vessatoria e tantomeno eccessivamente onerosa; c) il tasso di interesse di mora dedotto in contratto (12%) non era usurario, risultando sensibilmente inferiore al tasso soglia calcolato, sulla base dei criteri indicati da Cass. n. 19597/2020 (pari approssimativamente al 14,5%); d) la L. 124/2017 non era applicabile al rapporto in esame, risolto per inadempimento prima dell’entrata in vigore delle relative disposizioni in materia di leasing, poiché era stata postulata l’applicabilità dell’art. 1526, primo comma, c.c. a un rapporto che era regolato esclusivamente dalla disciplina pattizia.

(Massima a cura di Simona Becchetti)