Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 22 dicembre 2022, n. 1553 – sommatoria del tasso degli interessi, interessi di mora e interessi corrispettivi, contratto autonomo di garanzia, fideiussione

Per determinare il tasso contrattuale da confrontare con la soglia antiusura, è necessario considerare separatamente e distintamente gli interessi di mora e gli interessi corrispettivi (cfr. Cass. SS.UU. n. 19597/2020). In altre parole, non si può applicare il principio di sommatoria del tasso degli interessi, che non fa distinzione tra i costi associati al regolare adempimento del contratto e quelli legati al suo inadempimento.

Il contratto autonomo di garanzia è un contratto con una causa valida e si distingue dalla fideiussione. Tale contratto, espressione dell’autonomia negoziale ex art. 1322 c.c., ha la funzione di tenere indenne il creditore dalle conseguenze del mancato adempimento della prestazione gravante sul debitore principale, contrariamente al contratto del fideiussore, il quale garantisce l’adempimento della medesima obbligazione principale altrui (cfr. Cass. n. 1186/2020). 

Principi espressi nell’ambito del giudizio di appello promosso da una società a responsabilità limitata avverso la sentenza del giudice di prime cure che respingeva un’opposizione a decreto ingiuntivo non sussistendo l’usurarietà della penale da risoluzione nonché del tasso moratorio.

(Massime a cura di Simona Becchetti)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 19 dicembre 2022, n. 1528 – contratto di leasing, clausola penale, restituzione dei canoni

Il giudicato sostanziale conseguente alla mancata opposizione di un decreto ingiuntivo copre non soltanto l’esistenza del credito azionato, del rapporto di cui esso è oggetto e del titolo su cui il credito ed il rapporto stessi si fondano, ma anche l’inesistenza di fatti impeditivi, estintivi e modificativi del rapporto e del credito precedenti al ricorso per ingiunzione e non dedotti con l’opposizione. Tuttavia, il giudicato non si estende ai fatti successivi allo stesso ed a quelli che comportino un mutamento del “petitum” ovvero della “causa petendi” in seno alla domanda rispetto al ricorso esaminato dal decreto esecutivo.

In un contratto di leasing, la clausola penale che prevede, oltre all’immediata restituzione del bene, anche la definitiva acquisizione da parte della società di leasing di quanto l’utilizzatore aveva corrisposto durante la vigenza del contratto, è pienamente legittima e compatibile con l’art. 1526 c.c. in quanto, al comma primo tale norma prevede per il venditore l’obbligo di restituzione delle rate riscosse e il diritto al pagamento di equo compenso per l’uso della cosa (in aggiunta logicamente alla restituzione del bene di proprietà), mentre al secondo comma statuisce che i contraenti possano convenire che le rate pagate restino acquisite al venditore a titolo d’indennità; inoltre sempre il comma primo fa salvo il diritto del venditore al risarcimento del danno, e la quantificazione del danno ben può essere preventivamente determinata dalle parti con clausola penale.

In un contratto di leasing, la clausola penale è coerente con l’esigenza di riequilibrare la posizione delle parti, in quanto consente alla società concedente di recuperare integralmente il finanziamento erogato, comprensivo dell’utile sperato sino al momento in cui il contratto ha avuto regolare esecuzione, ponendola nella stessa situazione in cui si sarebbe trovata se l’utilizzatore avesse esattamente adempiuto e restando, d’altro canto, esclusa la possibilità di un ingiustificato arricchimento della medesima concedente, atteso l’obbligo di quest’ultima di imputare a credito dell’utilizzatore il valore del bene oggetto del contratto di leasing, dallo stesso restituito.

I principi sono stati espressi nell’ambito di un giudizio d’appello promosso da una società che aveva sottoscritto un contratto di leasing con una banca, la quale aveva prima agito in via monitoria, ingiungendo all’utilizzatrice il pagamento di una somma a titolo di canoni di leasing non pagati e, successivamente, si aveva risolto di diritto il contratto di leasing per inadempimento dell’utilizzatore stesso. Nel giudizio di primo grado, la società utilizzatrice conveniva in giudizio la concedente affinché fosse (i) accertata e dichiarata la nullità della clausola relativa alla determinazione degli interessi convenzionali e moratori usurai e, conseguentemente, fossero dichiarati non dovuti interessi ai sensi dell’art. 1815 c.c.; (ii) accertato che tra le parti era stato stipulato un contratto di leasing traslativo e che la risoluzione comportava, ai sensi dell’art. 1526 c.c. la restituzione dei canoni già pagati e riscossi e, per l’effetto, la società di leasing fosse condannata a restituire le somme riscosse a titolo di canone. Il Tribunale di Brescia, richiamando recente giurisprudenza di legittimità, accoglieva l’eccezione di giudicato della società di leasing convenuta, affermando che la sentenza che aveva respinto l’opposizione al decreto ingiuntivo con cui era stato intimato alla società utilizzatrice il pagamento di una somma a titolo di canoni di leasing non pagati, faceva stato tra le parti non solo sull’esistenza e validità del rapporto contrattuale e sulla misura del canone di leasing preteso, ma anche in ordine all’inesistenza di fatti impeditivi o estintivi non dedotti ma deducibili nel giudizio di opposizione, per cui doveva ritenersi escluso per il conduttore/utilizzatore la possibilità di eccepire la nullità delle clausole del contratto di leasing.

Nel giudizio di appello la società utilizzatrice chiedeva la riforma della sentenza fondata su due motivi di gravame e l’accoglimento delle domande già avanzate in primo grado. In particolare l’appellante contestava che il giudicato concernente il pagamento di alcuni canoni potesse paralizzare la domanda ex art. 1526 c.c. di restituzione dei canoni già pagati e riscossi e la condanna della società di leasing alla restituzione delle somme percepite a titolo di pagamento dei canoni di leasing, in quanto all’epoca di emissione del decreto ingiuntivo non era ancora intervenuta la risoluzione del contratto di leasing, posteriore di circa un anno, sicché la predetta domanda di restituzione non poteva essere dedotta nel giudizio di opposizione. Chiedeva quindi, nel merito, che la società di leasing fosse condannata ex art. 1526 c.c. alla restituzione dei canoni già pagati e riscossi.

La Corte d’Appello ha rigettato l’appello principale proposto dell’utilizzatore e confermato la sentenza del Tribunale. Il Collegio ha ritenuto, infatti, non sussistenti i presupposti per l’accoglimento della domanda di condanna della concedente alla restituzione dei canoni di leasing riscossi in esecuzione del contratto, i quali, in base al regolamento pattizio, era previsto che restassero a mani della concedente in caso di risoluzione contrattuale.

(Massime a cura di Roberta Ponzoni)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 25 novembre 2022, n. 1403 – contratto di leasing

La disciplina antiusura si applica agli interessi moratori essendo la stessa finalizzata a sanzionare non solo la pattuizione di interessi eccessivi convenuti al momento della stipula del contratto quale corrispettivo per la concessione del denaro, ma anche la promessa di qualsiasi somma usuraria dovuta in relazione al contratto. In conseguenza dell’accertamento dell’usurarietà degli interessi moratori, ai sensi dell’art. 1815, comma 2, c.c., non saranno dovuti gli interessi moratori pattuiti, ferma restando, ai sensi dell’art. 1224, comma 1, c.c., la debenza degli interessi corrispettivi lecitamente convenuti, in relazione ai quali, dunque, nessuna pretesta restitutoria può essere giustificata e, pertanto, trovare accoglimento. La soglia sopra la quale gli interessi moratori sono da considerarsi usurari, infatti, va calcolata autonomamente rispetto agli interessi corrispettivi, in forza del principio per cui interessi moratori e corrispettivi hanno cause diverse e sono dovuti in momenti ben distinti, donde la scorrettezza di una loro mera sommatoria e del loro raffronto a un unico parametro.

L’inserimento di una c.d. “clausola di salvaguardia” in forza della quale l’eventuale fluttuazione del saggio di interessi convenzionale dovrà essere comunque mantenuta entro i limiti del c.d. “tasso soglia” antiusura di cui all’art. 2, comma 4, della legge 108/1997, trasforma il divieto legale di pattuire interessi usurari nell’oggetto di una specifica obbligazione contrattuale a carico della banca consistente nell’impegno a non applicare mai, per tutta la durata del rapporto, interessi in misura superiore a quella massima consentita dalla legge. Pregiudiziale rispetto all’insorgenza dell’onere della banca di provare l’adempimento del predetto impegno assunto ai sensi della clausola di salvaguardia è però l’onere del debitore di provare il superamento del tasso soglia antiusura.

I principi sono stati espressi nell’ambito del giudizio di appello avverso sentenza di primo grado relativa a tre contratti di leasing immobiliari finalizzato ad, inter alia (i) accertare il superamento del tasso soglia d’usura di cui alla legge 108 del 1996 e, per l’effetto, rielaborare il piano dei pagamenti senza alcuna applicazione di interessi e determinare le somme indebitamente versate a titolo di interessi usurari, (ii) accertare che il tasso di mora alla data di stipula fosse superiore al tasso soglia di usura di cui alla legge n. 108 del 1996, (iii) accertare che il tasso leasing contrattuale non sia conforme al tasso effettivo globale e, pertanto, venga applicato il tasso sostitutivo di cui all’art. 117, settimo comma, d. lgs n. 285/1993. Inoltre, quale conseguenza dei predetti accertamenti, l’appellante ha richiesto di (i) dichiarare la nullità delle clausole contenenti le condizioni economiche dei predetti contratti di locazione finanziaria per la usurarietà degli interessi in essi pattuiti, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 1815, comma 2, c.c., (ii) imputare a capitale tutte le somme da essa pagate a titolo di interesse, nonché accertare e determinare le eventuali residue somme dovute a saldo e, pertanto, (iii) condannare la società di leasing al pagamento dei compensi e delle spese di giudizio.

La Corte d’Appello ha rigettato l’appello e, per l’effetto, ha confermato la sentenza impugnata. Pertanto la Corte d’Appello ha condannato alle spese legali l’appellante – utilizzatore dei contratti di leasing – risultato soccombente.

(Massime a cura di Emanuele Taddeolini Marangoni)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 25 novembre 2022, n. 1402 – diritto industriale, indicazioni geografiche, IGP

Se è registrata come IGP una denominazione composta, formata sia da parole comuni o generiche che da termini geografici, la protezione dell’indicazione geografica non si estende ai termini comuni, ma riguarda solo la denominazione complessivamente considerata. Il richiamo all’origine del prodotto, la cui componente geografica appare determinante, è elemento essenziale della tutela invocata ex art. 13, par. 1, lett. b), Reg. UE n. 1151/2012 in termini di evocazione illecita. Va quindi esclusa l’evocazione illecita in caso di utilizzo da parte di terzi di termini comuni presenti in una denominazione composta registrata come IGP, a meno che questi siano accompagnati da elementi testuali o figurativi che, richiamando la zona di origine del prodotto IGP, possono generare evocazione di esso o confusione con il medesimo.

I principi sono stati espressi nell’ambito del giudizio d’appello promosso da un consorzio di tutela di una Indicazione Geografica Protetta (IGP), costituita da una denominazione composta non soltanto da una denominazione geografica, ma anche da termini comuni.

Il consorzio appellante domandava l’accertamento della sussistenza di condotte di concorrenza sleale ex art. 2598 c.c. e di evocazione illecita ex art. 13, par. 1, lett. b), Reg. UE n. 1151/2012, asseritamente perpetrate dalla società convenuta e la conseguente tutela inibitoria e risarcitoria. Nello specifico, l’appellante lamentava l’indebito utilizzo da parte della società convenuta, nella denominazione dei propri prodotti, di parole suscettibili di determinare confusione con il prodotto contraddistinto dalla IGP dallo stesso tutelata con conseguente configurabilità della c.d. evocazione illecita di nomi registrati ex art.13, par. 1, lett. b), Reg. (UE) n. 1151/2012.

La società convenuta chiedeva il rigetto delle domande avversarie.

 La Corte d’Appello ha condiviso la decisione del Tribunale che aveva rigettato la domanda del consorzio avendo ritenuto che l’utilizzo sostantivato di uno dei termini che compongono la IGP in esame, unitamente alla somiglianza dei prodotti, delle confezioni e all’identità dei canali distributivi, non fosse sufficiente a realizzare la fattispecie dell’evocazione illecita, in quanto nel prodotto della convenuta non vi era alcun riferimento al territorio di origine della denominazione protetta. Il Tribunale che non aveva neppure ravvisato nel caso di specie la sussistenza di atti di concorrenza sleale, atteso che l’attore non aveva addotto a fondamento della propria domanda risarcitoria elementi fattuali idonei a comprovare un effettivo sviamento della clientela in modo non conforme alla correttezza professionale e quindi la configurabilità di condotte idonee a danneggiare le aziende consorziate. In ogni caso è stata esclusa la possibilità di ravvisare un’ipotesi di concorrenza sleale confusoria ex art. 2598, n. 1, c.c. perché tale norma tutelerebbe i segni distintivi e non le IGP.

All’esito del giudizio, la Corte d’Appello ha respinto il gravame e ha confermato la sentenza di primo grado, condannando l’appellante al pagamento delle spese processuali.

La Corte d’Appello ha rigettato l’appello e confermato la sentenza impugnata, con condanna dell’appellante al pagamento delle spese processuali.

(Massime a cura di Alice Rocco)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza dell’11 novembre 2022, n. 1364 – contratti bancari, mutuo di scopo, mutuo solutorio, anatocismo, ammortamento alla francese, usura

Il mutuo concesso al fine di estinguere debiti pregressi (c.d. “mutuo solutorio”) non è nullo per contrarietà alla legge o all’ordine pubblico, costituendo il ripianamento della passività una possibile modalità di impiego dell’importo mutuato. Deve dunque confermarsi il superamento dell’indirizzo giurisprudenziale per cui tale contratto sarebbe illecito o simulato, in quanto il ricorso al credito come mezzo di ristrutturazione del debito è previsto dalla stessa normativa vigente (Cass. 23419/2022).

La qualificazione del finanziamento come mutuo di scopo (in specie, solutorio), anziché come mutuo ordinario con semplice enunciazione dei motivi, dipende dalla comune volontà delle parti dedotta in contratto. Tale qualificazione impone l’accertamento dell’esistenza di un preciso e ben individuabile interesse del mutuante al raggiungimento degli obiettivi indicati nella clausola di scopo, la quale deve imporre al mutuatario l’utilizzo delle somme ricevute per la realizzazione delle particolari finalità dedotte nel contratto. In caso contrario, tale clausola dovrà intendersi come meramente enunciativa degli intendimenti del mutuatario, a lui solo riferibili e dunque privi di rilievo giuridico (App. Brescia, 29 gennaio 2020 resa nel procedimento 1197/17 RG; App. Brescia, 1344/2015).

L’adozione di un piano di ammortamento c.d. “alla francese” (che prevede la restituzione del finanziamento in rate composte da una quota di capitale e una quota di interessi calcolata sul capitale residuo, in modo tale che al progredire dell’ammortamento la quota di capitale cresca e quella di interessi diminuisca) non implica automaticamente anatocismo, in quanto il calcolo degli interessi è di regola effettuato sul capitale residuo da restituire al finanziatore. A partire dalla quota di interessi riferita alla singola rata, infatti, viene determinata per differenza la quota capitale la cui restituzione viene portata a riduzione del debito. In tal modo, l’interesse non è produttivo di altro interesse e viene separato dal capitale. La costituzione composita delle rate di rimborso attiene esclusivamente alle modalità di adempimento delle due obbligazioni restitutorie poste a carico del mutuatario (quella relativa al capitale e quella relativa agli interessi), che sono ontologicamente distinte e rispondono a finalità diverse. Il fatto che esse concorrano nella stessa rata non è sufficiente a mutarne la natura o a escluderne l’autonomia (Cass. 11400/2014).

Il costo di estinzione anticipata del mutuo non deve essere incluso nel calcolo del TEGM (necessario per la determinazione del tasso usurario rispetto all’operazione posta in essere), in quanto tale spesa è meramente eventuale dovendosi applicare nel solo caso di estinzione anticipata del mutuo. Infatti, non è un effetto che consegue direttamente alla stipula del contratto di mutuo, ma un effetto che può scaturire solo nel momento in cui si verifichino eventi che esulano dalla regolare esecuzione del contratto medesimo. Poiché la disciplina antiusura impone il confronto tra soli dati omogenei, l’importo della penale non può essere incluso tra le voci rilevanti ai sensi della L. 108/1996.

I princìpi esposti sono stati espressi in relazione ad una controversia riguardante la stipulazione, da parte di una società, di alcuni contratti di conto corrente e di mutuo da rimborsarsi secondo un piano di ammortamento c.d. “alla francese”. Rimasta insoluta l’obbligazione restitutoria, la banca creditrice aveva ottenuto l’emanazione di un decreto ingiuntivo, impugnato dalla debitrice e dai suoi garanti, i quali, in prime cure, avevano sollevato plurime contestazioni. Giunta la causa al grado d’appello, deciso con la sentenza massimata, quanto ai contratti di mutuo gli appellanti: (a) contestavano la nullità dei contratti in ragione della qualificazione dei medesimi quali mutui di scopo; (b) lamentavano la natura anatocistica degli interessi pagati nell’ammortamento alla francese; ed infine (c) rilevavano il superamento del tasso-soglia di usura previsto dalla L. 108/1996, poiché nel calcolo del TEGM – parametro base per il computo del tasso usurario – sarebbe stato necessario includere anche i costi di estinzione anticipata del mutuo.

(Massime a cura di Leonardo Esposito)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 19 settembre 2022, n. 1086 – concordato preventivo, anticipazione su ricevute bancarie, mandato all’incasso, patto di compensazione

In tema di anticipazione su ricevute bancarie regolata in conto corrente, qualora le relative operazioni siano compiute anteriormente all’ammissione del correntista ad una procedura concorsuale e l’organo di questa agisca per la restituzione dell’importo delle ricevute incassate dalla banca, occorre accertare se la convenzione relativa a quella anticipazione contenga una clausola attributiva alla banca del diritto di incamerare le somme riscosse (c.d. patto di compensazione o di annotazione ed elisione in conto corrente di partite di segno opposto), atteso che solo in tale ipotesi quest’ultima ha diritto di compensare il suo debito per il versamento al cliente delle somme riscosse con il proprio credito maturato in dipendenza di operazioni regolate sul medesimo conto corrente, senza che rilevi l’anteriorità del credito e la posteriorità del debito rispetto all’ammissione alla procedura concorsuale, non operando, in tale evenienza, il principio della cristallizzazione dei crediti (cfr. Cass. n. 3336/2016 e Cass., n. 17999/2011).

In caso di anticipazioni bancarie con mandato all’incasso e patto di compensazione, l’accordo di compensazione con l’istituto bancario mantiene la sua validità ed operatività anche in ipotesi di successiva ammissione del correntista ad una procedura concorsuale, ragion per cui la banca ha diritto di compensare il credito sorto dall’anticipazione effettuata con il debito correlato all’obbligazione di versamento al cliente delle somme riscosse. Tale diritto sorge con l’effettuazione dell’anticipazione, senza che rilevi la circostanza che gli incassi siano avvenuti dopo la presentazione da parte del correntista della domanda di ammissione al concordato preventivo, posto che il recupero delle somme corrisposte a quest’ultimo dai suoi clienti, in relazione alle quali è stata concessa l’anticipazione da parte della banca, costituisce la fisiologica attuazione della clausola di compensazione che già attraverso l’anticipazione determina il sorgere dell’obbligo di restituzione (contra Cass. n. 6060/2022; Cass. n. 22277/2017).

L’anticipazione bancaria costituisce una particolare operazione finanziaria in relazione alla quale il ricorso alla compensazione è puramente strumentale, in quanto il c.d. patto di compensazione, detto anche patto di annotazione ed elisione in conto corrente delle partite di segno opposto, conferisce alla banca il diritto di compensare, attraverso il mezzo tecnico della annotazione in conto delle somme riscosse ad elisione delle partite di debito verso la banca medesima, il suo debito per il versamento al cliente delle somme riscosse con il proprio credito verso lo stesso cliente conseguente ad operazioni regolate sul medesimo conto corrente.

I principi sono stati espressi nel giudizio di appello promosso da una società per azioni in concordato preventivo avverso la sentenza di primo grado per violazione e falsa applicazione degli artt. 169 e 56 l. fall., nonché per contraddittorietà della motivazione, in quanto, pur avendo il Tribunale ricostruito in termini di mandato all’incasso il rapporto intercorso fra le parti, aveva tuttavia reputato sussistenti i presupposti di operatività della compensazione invocata dalla banca.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 13 settembre 2022, n. 1083 – contratto di fideiussione bancaria, contratto di leasing, clausola penale

La data non costituisce un elemento essenziale del contratto e, pertanto, la mancata indicazione della stessa, così come la mancata indicazione del luogo di sottoscrizione non determina la nullità della fideiussione a garanzia concessa a garanzia delle obbligazioni relative ad un determinato rapporto contrattuale, salvo che sia imposta dalla legge.

Nell’ipotesi di risoluzione anticipata per inadempimento dell’utilizzatore, le parti possono convenire, ai sensi di una clausola penale, l’irrepetibilità dei canoni già versati da quest’ultimo prevedendo la detrazione, dalle somme dovute al concedente, dell’importo ricavato dalla futura vendita del bene restituito, essendo tale clausola coerente con la previsione contenuta nell’art. 1526, secondo comma, c.c. la quale risulta applicabile analogicamente per i contratti di leasing traslativo conclusi anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 1, commi 136 e ss., l. n. 124 del 2017.

In materia di leasing traslativo, le parti possono convenire, ai sensi dell’art. 1526 c.c., applicabile in via analogica, l’irripetibilità dei canoni versati al concedente in esito alla risoluzione del contratto, la cui natura di clausola penale ne preclude, nel giudizio successivamente instaurato, la rilevabilità d’ufficio e la deducibilità dopo il decorso dei termini di cui all’art. 183 c.p.c. trattandosi di eccezione in senso stretto.

Ai fini della riducibilità della clausola penale, ai sensi dell’art. 1384 c.c., occorre considerare se detta pattuizione attribuisca allo stesso concedente vantaggi maggiori di quelli conseguibili dalla regolare esecuzione del contratto, in quanto il risarcimento del danno spettante al concedente deve essere tale da porlo nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se l’utilizzatore avesse esattamente adempiuto. Pertanto, non è riducibile una clausola penale che riconosca alla concedente una somma non superiore a quanto avrebbe ottenuto dall’adempimento e congruo il prezzo di vendita dei beni restituiti. L’utilizzatore può comunque contestare che il prezzo di vendita non sia conforme al valore di mercato, chiedendo l’accertamento di quest’ultimo al fine di conseguire una ulteriore riduzione dell’importo dovuto a titolo di penale e, se del caso, la restituzione dell’eventuale esubero.

I principi sono stati espressi nell’ambito del giudizio di appello relativo alla sentenza di primo grado con la quale era stata rigettata l’opposizione avverso il decreto ingiuntivo ai sensi del quale gli opponenti erano stati condannati al pagamento a favore della società di leasing, inter alia, al risarcimento del danno derivante dalla risoluzione per ritardato pagamento dei canoni relativi a tre contratti di leasing aventi ad oggetto autoveicoli e conclusi anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 1, commi 136 e ss., l. n. 124 del 2017. L’appellante, in particolare, ai sensi dell’atto di appello ha, inter alia, richiesto di accertare (i) la nullità della fideiussione per mancata indicazione della data sulla stessa, (ii) la nullità della clausola penale prevista dai predetti contratti di leasing per indeterminatezza e indeterminabilità dell’oggetto, (iii) l’eccessiva onerosità della clausola penale e, pertanto, la sua riduzione d’ufficio.

La Corte d’Appello ha confermato la sentenza di primo grado ed ha rigettato l’appello con condanna degli appellanti alle spese legali.

(Massime a cura di Giovanbattista Grazioli)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 13 luglio 2022, n. 944 – contratto di leasing, buona fede ed esercizio della clausola risolutiva espressa, art. 1526 c.c., legittimazione processuale del cessionario

Il principio di buona fede, in quanto principio cardine e generale dell’ordinamento, impone di valutare il comportamento dei contraenti sia al momento dell’esecuzione del contratto, sia nel momento patologico dell’inadempimento e della sua risoluzione, senza tuttavia che ciò inverta l’onere della prova nel caso di inadempimento né sovverta il principio in materia di clausola risolutiva espressa riguardo la non sindacabilità della gravità dell’inadempimento pattiziamente predeterminata. In quest’ultima ipotesi, l’indagine della buona fede – da accertarsi sia sul piano oggettivo della condotta che su quello soggettivo della colpa – va ricondotta al momento in cui l’obbligato ha tenuto il comportamento previsto in contratto e la controparte si è avvalsa della predetta clausola. L’attesa del concedente nell’avvalersi della clausola risolutiva espressa anche a seguito del susseguirsi di una serie di inadempimenti da parte dell’utilizzatore, quanto al piano oggettivo della condotta, e la mancata dimostrazione da parte dell’utilizzatore che, nonostante l’uso della normale diligenza, non sia in grado di adempiere alle obbligazioni derivanti dal contratto di leasing per causa a lui non imputabile, quanto al profilo soggettivo della colpa, indicono a considerare legittimo e non connotato da malafede l’utilizzo della clausola risolutiva espressa, anche a fronte del rifiuto della società di leasing a rinegoziare il relativo contratto. 

Alla risoluzione del leasing traslativo, i cui presupposti si siano verificati anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 124 del 2017, si applica analogicamente la disciplina di cui all’art. 1526 c.c. e, pertanto, ove la risoluzione del predetto contratto derivi da un inadempimento dell’utilizzatore, lo stesso ha diritto alla restituzione delle rate pagate solo previa restituzione del bene, dal momento che solo dopo tale restituzione il concedente potrà trarre dalla cosa ulteriori utilità e sarà possibile determinare il c.d. “equo compenso” ad esso spettante per il mero godimento garantito all’utilizzatore nel periodo di durata del contratto. Tuttavia, con riferimento al contratto di leasing, occorre tenere in considerazione l’interesse del concedente che è quello di ottenere l’integrale restituzione della somma erogata a titolo di finanziamento unitamente a interessi, spese e utili dell’operazione e non la restituzione dell’immobile che costituisce piuttosto una garanzia alla restituzione del finanziamento. Pertanto, nel leasing la riconsegna dell’immobile è insufficiente, quale risarcimento del danno, ove non avvenga la restituzione del finanziamento e il valore dell’immobile non ne copra l’intero importo.

In caso di cessione di crediti nell’ambito di un’operazione di cartolarizzazione ex legge 30 aprile 1999 n. 130, ove vi sia contestazione circa la legittimazione del cessionario, è onere di chi assuma di avere, in forza della cessione, acquisito la legittimazione attiva ad agire, sia pure ai soli fini dell’intervento ex art. 111 c.p.c., allegare e dimostrare la effettiva estensione del suo titolo di acquisto sul piano oggettivo in relazione ai rapporti e ai crediti che si assumono essere stati acquistati e, cioè, fornire la prova che il rapporto sia compreso tra quelli compravenduti nell’ambito dell’operazione di cessione in blocco.

I principi sono stati espressi nell’ambito del giudizio di appello promosso dall’utilizzatore avverso l’ordinanza ex articolo 702-ter c.p.c. emessa all’esito del giudizio sommario di cognizione di primo grado, nel quale l’utilizzatore-convenuto, a fronte dell’accertamento della risoluzione di diritto per clausola risolutiva espressa del contratto di leasing immobiliare e condanna all’immediato rilascio dell’immobile oggetto del contratto, oltre al pagamento delle spese di lite, chiedeva, in via riconvenzionale, (i) l’inefficacia dell’utilizzo della clausola risolutiva espressa asserendo un suo utilizzo contrario a buona fede, (ii) l’applicazione analogica del disposto dell’art. 1526 c.c. (condannando la società concedente alla restituzione di tutti i canoni percepiti, dedotto l’equo compenso ad essa spettante per il godimento, da parte dell’utilizzatore, del bene concesso in leasing) e (iii) di accertare la carenza di legittimazione ad agire in capo alla società intervenuta nel giudizio quale cessionaria del credito derivante dal predetto contratto di leasing.

Con sentenza, la Corte d’Appello (i) ha rigettato integralmente l’appello formulato dall’utilizzatore, rilevando, tra l’altro, che la pretesa restituzione dei canoni versati in eccedenza (o la riduzione della clausola penale per eccessiva onerosità) è preclusa dal mancato rilascio del bene che impedisce la sua ricollocazione sul mercato da parte del concedente, non potendosi prospettare alcun credito dell’utilizzatrice in relazione all’asserito esubero di valore del bene e (ii) ha condannato alle spese di lite l’appellante.

(Massime a cura di Emanuele Taddeolini Marangoni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 16 giugno 2022, n. 1687 – fideiussione omnibus, riproduzione di clausole del modulo ABI censurate dalla Banca d’Italia, nullità parziale, clausola floor, differenza rispetto all’opzione floor

Posto che in base al provvedimento della Banca d’Italia n. 55 del 2 maggio 2005 le clausole di cui agli artt. 2, 6 e 8 dello schema contrattuale predisposto dall’ABI per le fideiussioni omnibus sono in contrasto con l’art. 2, 2° co., lett. a), l. n. 287/1990,  le fideiussioni che le riproducono in tutto o in parte  sono a loro volta parzialmente nulle, ai sensi degli artt. 2, 3° co.,  l. n. 287/1990 e 1419 c.c., limitatamente alle sole clausole che riprendono quelle dello schema contrattuale  costituente l’intesa vietata, poiché la nullità dell’intesa a monte si riverbera sul contratto stipulato a valle, che ne costituisce un effetto consequenziale, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti nel senso dell’essenzialità della parte del contratto colpita da nullità (cfr. SS.UU. n. 41994/2021).

L’eccezione di decadenza della banca dall’azione nei confronti dei fideiussori, ai sensi dell’art. 1957 c.c., essendo un’eccezione in senso stretto ex art. 2969 c.c., deve essere sollevata nel rispetto dei termini di cui agli artt. 163, 166 e 167 c.p.c. e quindi, in caso di opposizione a decreto ingiuntivo pronunciato su ricorso della banca garantita, nell’atto di citazione introduttivo del relativo giudizio.

La clausola di un contratto di fideiussione volta a far sì che il tasso di interesse dovuto dal cliente non scenda al di sotto di una determinata percentuale già predeterminata nel suo ammontare, al fine di tutelare l’interesse del mutuante, in ipotesi di mutuo a tasso variabile, a  trarre comunque lucro dalla concessione del credito, non è assimilabile alla c.d. opzione floor, ossia quello strumento finanziario derivato che consente al sottoscrittore, a fronte di un premio da versare, di porre un limite alla variabilità in discesa di un determinato indice o di un prezzo, ricevendo la differenza che alla scadenza o alle scadenze contrattuali si manifesta tra l’indice di riferimento ed il limite fissato, e quindi non trova applicazione la disciplina contenuta, principalmente, nel testo unico della finanza.

Principi espressi nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dalla banca nei confronti dei fideiussori del proprio cliente-debitore.

(Massime a cura di Giovanni Maria Fumarola)




Sentenza del 23 marzo 2022 – Presidente relatore: dott. Donato Pianta

In materia di contratto autonomo di garanzia – improntandosi il rapporto tra il garante e il creditore beneficiario a piena autonomia – il garante non può opporre al creditore la nullità di un patto relativo al rapporto fondamentale, salvo che essa dipenda da contrarietà a norme imperative o dall’illiceità della causa e che, attraverso il medesimo contratto autonomo, si intenda assicurare il risultato vietato dall’ordinamento; tuttavia, si deve escludere che la nullità della pattuizione di interessi ultra legali si comunichi sempre al contratto autonomo di garanzia, atteso che detta pattuizione – eccezion fatta per la previsione di interessi usurari – non è contraria all’ordinamento, non vietando quest’ultimo in modo assoluto finanche l’anatocismo, così come si ricava dagli artt. 1283 c.c. e 120 d.lgs. 385/1993 (conf. Cass. n. 20397/2017). Per altro verso, il garante è legittimato a proporre eccezioni fondate sulla nullità anche parziale del contratto base per contrarietà a norme imperative. Ne consegue che può essere sollevata nei confronti della banca l’eccezione di nullità della clausola anatocistica atteso che la soluzione contraria consentirebbe al creditore di ottenere, per il tramite del garante, un risultato che l’ordinamento vieta (conf. Cass. n. 371/2018, Cass. n. 3873/2021).

L’inserimento in un contratto di fideiussione di una clausola di pagamento “a prima richiesta” generalmente è idonea a qualificare il negozio come contratto autonomo di garanzia, in quanto incompatibile con il principio di accessorietà che caratterizza il contratto di fideiussione; tuttavia, allorquando vi sia un’evidente discrasia tra una clausola di tal guisa e l’intero contenuto della convenzione negoziale, ai fini dell’interpretazione della volontà delle parti, pur in presenza della clausola predetta, il giudice è sempre tenuto a valutarla alla luce della lettura dell’intero contratto (conf. Cass. n. 4717/2019). Come noto, il contratto autonomo di garanzia ha la funzione di tenere indenne il creditore dalle conseguenze del mancato adempimento della prestazione gravante sul debitore principale, che può riguardare anche un fare infungibile, contrariamente al contratto del fideiussore, il quale garantisce l’adempimento della medesima obbligazione principale; inoltre, la causa concreta del contratto autonomo è quella di trasferire da un soggetto ad un altro il rischio economico connesso alla mancata esecuzione di una prestazione contrattuale, sia essa dipesa da inadempimento colpevole oppure no, mentre con la fideiussione, nella quale solamente ricorre l’elemento dell’accessorietà, è tutelato l’interesse all’esatto adempimento della medesima prestazione principale. Ne deriva che, mentre il fideiussore è un “vicario” del debitore, l’obbligazione del garante autonomo si pone in via del tutto autonoma rispetto all’obbligo primario di prestazione, essendo qualitativamente diversa da quella garantita, perché non necessariamente sovrapponibile ad essa e non rivolta all’adempimento del debito principale, bensì ad indennizzare il creditore insoddisfatto mediante il tempestivo versamento di una somma di denaro predeterminata, sostitutiva della mancata o inesatta prestazione del debitore (conf. Cass. n. 3947/2010).

L’Interest Rate Swap è il contratto derivato che prevede l’impegno reciproco delle parti di pagare l’una all’altra, a date prestabilite, gli interessi prodotti da una stessa somma di denaro, presa quale astratto riferimento e denominato nozionale, per un dato periodo di tempo (conf. Cass. n. 8770/2020). Il mark to market esprime, invece, il valore che, in ciascun momento della sua esistenza, assume il contratto di IRS, inteso quale costo che un terzo estraneo al contratto è disposto a pagare o chiede di ricevere, a seconda dei casi, per subentrare nel contratto ovvero quale costo che una delle due parti è tenuta a pagare all’altra o pretende di ricevere da questa per sciogliere anticipatamente il contratto. Dunque, è un metodo di valutazione delle attività finanziarie che si contrappone a quello storico o di acquisizione attualizzato mediante indici di aggiornamento monetario, che consiste nel conferire a dette attività il valore che esse avrebbero in caso di rinegoziazione del contratto o di scioglimento del rapporto prima della scadenza naturale (conf. Cass. n. 8770/2020). Il modello per effettuare la valutazione concreta di tale istituto è standard, cioè l’unico di uso comune per la valutazione degli strumenti finanziari oggetto di causa (cioè Interest Rate Swap del tipo Plan vanilla), non essendovi, quindi, alcuna necessità di un suo richiamo nel contratto (conf. C. App. Milano n. 2003/2020). 

In materia di contratto di conto corrente bancario, ed in riferimento ai rapporti eseguiti, in tutto o in parte, nel periodo anteriore al primo gennaio 2010 – data di entrata in vigore delle disposizioni di cui all’art. 2-bis del D.L. 185/2008 – al fine di verificare se sia intervenuto il superamento del tasso soglia dell’usura presunta, come determinato in base alle disposizioni della L. 108/1996, occorre effettuare la separata comparazione del tasso effettivo globale (TEG) dell’interesse praticato in concreto con il “tasso soglia”, nonché della commissione di massimo scoperto (CMS) applicata, con la “CMS soglia” (conf. Cass. n. 1464/2019; Cass. n. 16303/2018). Allorché il tasso degli interessi concordato superi, in corso di esecuzione del rapporto, la soglia dell’usura, come determinata in base alle disposizioni della L. 108/1996, non si verifica la nullità o l’inefficacia della clausola contrattuale di determinazione del tasso degli interessi stipulata anteriormente all’entrata in vigore della predetta legge o della clausola stipulata successivamente per un tasso non eccedente tale soglia quale risultante al momento della stipula (conf. Cass. n. 24675/2017).

L’art. 2-bis, terzo comma, L. 2/2009 prevedeva esplicitamente che i contratti in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto sono adeguati alle disposizioni del presente articolo entro centocinquanta giorni dalla medesima data. Tale obbligo di adeguamento costituisce giustificato motivo agli effetti dell’art. 118, primo comma, T.U.B., con la conseguenza che l’introduzione di una commissione utilizzi oltre disponibilità su fondi in sostituzione di una precedentemente esistente CMS, che avvenisse mediante il meccanismo di modifica unilaterale del contratto di cui all’art. 118 T.U.B., doveva ritenersi perfettamente legittima. 

I principi sono stati espressi nel giudizio di appello promosso dal fideiussore contro la sentenza di primo grado che rigettava l’opposizione a decreto ingiuntivo con il quale il Tribunale aveva ingiunto ad una s.n.c. e alla garante il pagamento, in via solidale, di una somma a favore di una banca a titolo di saldo debitore e di interessi debitori maturati sul conto corrente. 

In particolare, l’appellante impugnava la sentenza di prime cure, sollevando nove motivi di doglianza per: i) avere il primo giudice ritenuto preclusa alla garante, in quanto parte di un rapporto qualificato alla stregua di un contratto autonomo di garanzia, la facoltà di coltivare eccezioni concernenti l’obbligazione principale; ii) non aver il giudicante accolto la domanda di accertamento circa la nullità per indeterminabilità dell’oggetto contrattuale dei rapporti di IRS; iii) l’illegittima applicazione del tasso di interesse passivo ultra legale determinato senza alcuna pattuizione scritta; iv) accertare la nullità della previsione contrattuale inerente la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi e, conseguentemente, dichiarare non dovute le somme corrisposte a titolo di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi; v) non aver la banca, prima del D.L. 185/2008, reso determinabili né l’ammontare né le modalità con cui veniva computata la commissione di massimo scoperto, mentre a partire dal luglio 2009 avrebbe introdotto la commissione utilizzi oltre disponibilità su fondi, avvalendosi del meccanismo dello ius variandi di cui all’art. 118 T.U.B.; vi) accertare e dichiarare non dovute, per indeterminatezza e indeterminabilità dell’oggetto, ed in ogni caso perché prestazione senza causa, le somme addebitate a titolo di spese di chiusura, di penale di sconfino, di diritti di segreteria e di spese liquidazione interessi debitori; vii) accertare e dichiarare la nullità e l’inefficacia di ogni e qualsivoglia pretesa della convenuta banca, in relazione all’indicato rapporto di apertura di credito, per interessi, spese, commissioni, e competenze per contrarietà al disposto di cui alla L. 108/1996, perché eccedente il cosiddetto tasso soglia nel periodo trimestrale di riferimento; viii) il mancato assolvimento da parte della banca del proprio onere probatorio; ix) revocare il provvedimento monitorio.

Ritenuto che non vi era alcuna effettiva distinzione dell’oggetto tra l’obbligazione del rapporto fondamentale e quella del rapporto di garanzia, né della causa dei due rapporti, che potrebbe giustificare la qualificazione della garanzia contrattualmente assunta come autonoma e rilevato che nella lettera di fideiussione non era compresa alcuna rinuncia generale del fideiussore a proporre eccezioni che spetterebbero al debitore principale, ma soltanto quella ad opporre eccezioni riguardo al momento in cui la banca intenda esercitare la sua facoltà di recedere dai rapporti col debitore, la Corte adita riconduceva la fattispecie alla fideiussione a prima richiesta e non a quella del contratto autonomo di garanzia.

Rilevato che oggetto del contratto erano le reciproche obbligazioni delle due parti di pagare l’una all’altra, a scadenze prestabilite, il differenziale sussistente tra le due somme, calcolate su un medesimo capitale di riferimento, con applicazione di due determinati parametri differenti per le due parti, la circostanza per cui nei contratti derivati contestati non sia evidenziato il criterio per la determinazione del valore del mark to market secondo l’adita Corte non assume rilevanza ai fini dell’accertamento della nullità dei suddetti contratti, posto che tale valore poteva essere pienamente determinabile in via oggettiva nei contratti derivati per cui è causa, come confermato, del resto, dal fatto che il consulente di parte appellante sia stato perfettamente in grado di calcolare tale valore per ciascuno dei contratti derivati presi in esame nella perizia prodotta in giudizio.

Ulteriormente, la Corte non riteneva condivisibile la tesi di parte appellante secondo cui nel computo del T.E.G. andrebbero inserite anche le commissioni di massimo scoperto, essendo pacifico il principio giurisprudenziale secondo cui solamente l’usura c.d. originaria assume rilevanza ai fini della caducazione delle clausole contrattuali che prevedano un tasso di interessi superiore al tasso soglia. 

Quanto alla commissione di massimo scoperto va rilevato, da una parte, che la commissione prevista nel contratto di apertura di conto corrente era nulla per indeterminatezza, non essendo ivi state esplicitate le modalità per il suo calcolo, ma essendo stata prevista meramente la misura percentuale applicabile, mentre, dall’altra, che la commissione di massimo scoperto pattuita successivamente era valida, risultando determinabile sia nella misura che nelle modalità per il suo calcolo. Quanto alla commissione utilizzi oltre disponibilità su fondi veniva dichiarata la nullità, poiché la banca aveva introdotto la suddetta commissione in difformità non solo rispetto al disposto di cui all’art. 118 T.U.B., ma anche rispetto all’art. 2-bis, terzo comma, L. 2/2009.

(Massima a cura di Simona Becchetti)