Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 26 aprile 2023 n. 710 – causa del contratto di fideiussione e del contratto autonomo di garanzia, applicabilità dell’art. 1957 c.c. nei rapporti consumeristici

Il tratto di cardinale distinzione tra il contratto di fideiussione e il contratto autonomo di garanzia (c.d. Garantievertrag) è costituito dalla mancanza del carattere dell’accessorietà dell’obbligazione, propria del primo contratto e non del secondo. La causa concreta del contratto autonomo è, infatti, quella di trasferire integralmente da un soggetto ad un altro il rischio economico connesso alla mancata esecuzione di una prestazione contrattuale, sicché l’obbligazione del garante è qualitativamente diversa da quella garantita, poiché non necessariamente sovrapponibile ad essa come invece nella fideiussione (Cass. SS.UU. n. 3947/2010).  Infatti, nel caso di fideiussione, la richiesta di adempimento è rivolta al garante anziché all’obbligato, mentre nel caso di garanzia autonoma, a prescindere dalla natura dell’inadempimento e dalla sua maggiore o minore gravità, la richiesta ha ad oggetto una prestazione diversa, di regola costituita da un indennizzo predeterminato svincolato dalla prestazione oggetto del rapporto fondamentale.

Il termine decadenziale di cui all’art. 1957 c.c., relativo all’azione del creditore nei confronti del fideiussore, si riferisce alla scadenza dell’obbligazione garantita, a decorrere dalla quale va computato il semestre previsto dalla norma menzionata.

Nel contratto di fideiussione, come da giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, i requisiti soggettivi per l’applicazione della disciplina consumeristica dipendono dalle parti di esso e non dal tipo di contratto (CGUE, 19 novembre 2015, in causa C-74/15, Tarcau, e 14 settembre 2016, in causa C-534/15, Dumitras). Dunque, alla persona fisica che stipuli il contratto di garanzia per finalità estranee alla propria attività professionale – nel senso che la prestazione della fideiussione non costituisce atto espressivo di tale attività, né è strettamente funzionale al suo svolgimento – si applicherà la disciplina consumeristica di favore (Cass. SS.UU., 27/02/2023, n. 5868).

La clausola che contempla la rinuncia ad avvalersi della decadenza di cui all’art. 1957 c.c. rientra tra le clausole di cui all’art. 33, c. 2, lett. t) del d.lgs. n. 206/2005 (c.d. Codice del Consumo). Dunque, la clausola in questione potrà sì risultare idonea a derogare la disciplina dispositiva di cui all’art. 1957 c.c. anche nel caso di rapporto consumeristico, ma solo se oggetto di specifica trattativa individuale tra le parti, nel rispetto della disciplina prevista a favore del consumatore (art. 34, c. 4, Codice del Consumo).

Princìpi espressi nel contesto di un giudizio di appello proposto avverso la decisione del giudice di prime cure che aveva integralmente rigettato l’azione in primo grado. Parte ricorrente in primo grado si era opposta a un decreto ingiuntivo, emesso a favore di una banca avverso due fideiussori di un contratto di mutuo inadempiuto, disconoscendo le firme in calce alla fideiussione, nonché eccependo la nullità del mutuo, e conseguentemente della fideiussione, per violazione del limite di finanziabilità e, infine, la decadenza dalla fideiussione ex art.1957 c.c. Il giudice di seconde cure ha rigettato integralmente l’appello confermando la sentenza di primo grado.

(Massime a cura di Giovanni Gitti)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 26 aprile 2023, n. 711 – Contratti bancari e finanziari, mutuo agrario, interessi convenzionali e moratori, tasso soglia di usura

Qualora il decreto ingiuntivo avente ad oggetto l’importo residuo di un mutuo agrario non venga opposto ex art. 645 c.p.c., il giudicato sostanziale ex art. 2909 c.c.  copre non soltanto l’esistenza del credito azionato, del rapporto che ne è oggetto e del titolo su cui il credito ed il rapporto si fondano, ma anche l’inesistenza di fatti impeditivi, estintivi e modificativi del rapporto e del credito precedenti al ricorso per ingiunzione e non dedotti con l’opposizione. Conseguentemente non è più possibile dedurre in altra sede le questioni connesse alla pretesa erroneità o illiceità dell’applicazione, sulla sorte capitale, degli interessi e dunque anche quelle relative all’usurarietà dei tassi pattuiti (cfr. Cass. n. 9299/2018).

Posto che i decreti ministeriali di cui all’art. 2, 1° co., l. n. 108/1996 anteriori al 25 marzo 2003 non indicavano la maggiorazione media degli interessi moratori, ne discende che, per i contratti conclusi fino al 31 marzo 2003, il tasso soglia di mora coincide con il tasso soglia dei corrispettivi, per cui il criterio di calcolo che va applicato al fine di determinare il tasso soglia degli interessi moratori non prevede la maggiorazione di 2,1 punti percentuali del Tasso effettivo globale medio (T.E.G.M.) riferito all’interesse corrispettivo, ma solo l’aumento del 50% (art. 2 l. n. 108/1996 vigente ratione temporis), secondo la formula: T.S.U. = T.E.G.M. x 1,5.

In tema di interessi convenzionali la disciplina antiusura si applica sia agli interessi corrispettivi (e ai costi posti a carico del debitore per il caso di regolare adempimento del contratto), sia agli interessi moratori (e ai costi posti a carico del medesimo debitore per il caso dell’inadempimento), ma non consente la sommatoria tra tasso corrispettivo e tasso di mora al fine di determinare il superamento, o meno, del tasso soglia usura, poiché gli interessi corrispettivi e quelli moratori si fondano su presupposti diversi e antitetici, essendo i primi previsti per il caso di (e fino al) regolare adempimento del contratto e i secondi per il caso di (e in conseguenza dell’) inadempimento del contratto (cfr. Cass. n. 14214/2022).

Gli interessi moratori devono ritenersi sicuramente assoggettabili alla disciplina dell’usura e anche la sola pattuizione di interessi moratori usurari è sufficiente a determinare l’applicazione delle norme di cui agli artt. 1815 e 1224 c.c., senza che tuttavia ciò possa portare alla gratuità del mutuo, restando comunque dovuti gli interessi corrispettivi, ove lecitamente convenuti (cfr. Cass., S.U., n. 19597/2020).

Chi agisce in giudizio per la ripetizione di somme corrisposte a titolo di interessi usurari deve dare prova dall’avvenuto effettivo pagamento degli stessi.

La ripetizione dell’indebito oggettivo invoca un pagamento, che, considerate le modalità di funzionamento del rapporto di conto corrente, si rende configurabile soltanto all’atto della chiusura del conto, chiusura che necessariamente deve precedere l’introduzione del giudizio di prime cure, salvo cadere in ipotesi non già di emendatio quanto piuttosto di vera e propria mutatio libelli (Cass., S.U., n. 24418/2010).

Principi espressi nell’ambito di un giudizio d’appello promosso nei confronti di un istituto di credito per domandare l’accertamento della natura usuraria dei tassi pattuiti relativamente a contratti di mutuo anteriori al 31 marzo 2003 e di conto corrente stipulati dagli attori, con conseguente declaratoria di gratuità di detti mutui, restituzione delle somme asseritamente indebite corrisposte dai correntisti e condanna al risarcimento dei danni patrimoniali da questi lamentati.

(Massime a cura di Carola Passi)




Tribunale di Brescia, sentenza del 20 aprile 2023, n. 900 – diritto d’autore, sfruttamento economico di opere, responsabilità solidale

Il solo fatto che una società abbia acquistato il diritto di sfruttare economicamente (in tutto o in parte) determinate opere dal precedente editore non implica alcuna co-obbligazione per i debiti pregressi del cedente. Una simile obbligazione solidale, in mancanza di previsioni contrattuali in tal senso, potrebbe unicamente derivare da una cessione d’azienda o da vicende societarie straordinarie (come una ipotetica fusione).

Non si può pervenire a diverso risultato nemmeno ipotizzando il perfezionamento di una cessione contrattuale ex artt. 1406 ss. c.c. Posto che, quale operazione trilatera, detta fattispecie richiederebbe il consenso del contraente ceduto, la “sostituzione” del cessionario al cedente nei rapporti derivanti dal contratto con il contraente ceduto avrebbe comunque effetto nei confronti di quest’ultimo solo dal momento della notifica della cessione o della sua accettazione (cfr. art. 1407 c.c.) e limitatamente alle prestazioni “non ancora eseguite” (cfr. art. 1406 c.c.), dunque non per quelle già perfezionatesi anteriormente al trasferimento.

Princìpi espressi nell’ambito di una controversia avente ad oggetto il mancato pagamento da parte dell’editore di proventi di diritto d’autore per le utilizzazioni economiche di opere musicali e registrazioni fonografiche, nonché la responsabilità in solido rispetto a tale obbligazione della cessionaria dell’editore.

(Massime a cura di Laura Zoboli)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza dell’11 aprile 2023, n. 623 – segnalazione alla Centrale Rischi di una posizione “in sofferenza”, segnalazione di una posizione “ad incaglio”, contratto di leasing

La segnalazione di una posizione “in sofferenza” presso la Centrale Rischi della Banca d’Italia richiede una valutazione, da parte dell’intermediario, riferibile alla complessiva situazione finanziaria del cliente e non può, quindi, scaturire dal mero ritardo nel pagamento del debito o dal volontario inadempimento, ma deve essere determinata dal riscontro di una situazione patrimoniale deficitaria, caratterizzata da una grave e non transitoria difficoltà economica equiparabile, anche se non coincidente, con la condizione d’insolvenza (cfr. Cass. n. 15609/2014).

In tema di leasing, la sospensione dei pagamenti protrattasi anche solo per diversi mesi giustifica la segnalazione alla Centrale Rischi, come “in sofferenza”, atteso che, ai fini di tale segnalazione, la nozione di insolvenza non si identifica con quella propria fallimentare, ma si concretizza in una valutazione negativa della situazione patrimoniale, apprezzabile come “deficitaria”, ovvero come di “grave difficoltà economica”, senza, quindi, alcun riferimento al concetto di incapienza o irrecuperabilità e senza che assuma rilievo la manifestazione di volontà di non adempiere, che sia giustificata da una seria contestazione sull’esistenza del credito (cfr. Cass. n. 1447/2019).

L’appostazione a sofferenza del credito non può essere frutto dalla sola analisi del singolo o degli specifici rapporti in essere tra la banca segnalante e il cliente e implica, piuttosto, una valutazione della situazione patrimoniale complessiva del debitore. Le Istruzioni della Banca d’Italia indicano lo stato di insolvenza non come definitiva irrecuperabilità o incapienza, bensì come una situazione di insolvenza “levior” rispetto a quella indicata dalla legge fallimentare, quindi una situazione patrimoniale deficitaria, di grave difficoltà economica non transitoria. Poiché l’appostazione a sofferenza implica una valutazione da parte dell’intermediario della complessiva situazione finanziaria del cliente e non può scaturire automaticamente da un mero ritardo di quest’ultimo nel pagamento del debito, ne consegue che ciò che rileva è la situazione “oggettiva” di incapacità finanziaria (incapacità non transitoria di adempiere alle obbligazioni assunte), mentre nessun rilievo assume la manifestazione di volontà di non adempimento, se giustificata da una seria contestazione sull’esistenza del titolo del credito vantato dalla banca. Pertanto, il giudice chiamato a valutare la legittimità di una segnalazione alla Centrale dei Rischi non deve limitarsi a prendere atto che il debito oggetto della segnalazione era effettivamente dovuto, ma con valutazione ex ante deve verificare: (i) dal punto di vista oggettivo, se le ragioni addotte dal debitore a fondamento del rifiuto di pagamento fossero sorrette almeno da un fumus di fondatezza; (ii) dal punto di vista soggettivo, se il debitore potesse ritenersi in buona fede nel momento in cui quelle ragioni ha accampato. È, infatti, evidente che il debitore non potrebbe pretendere di sottrarsi alle conseguenze giuridiche del proprio inadempimento (tra le quali rientra anche la segnalazione alla Centrale dei Rischi) né sollevando eccezioni che egli ben sapeva essere pretestuose né sollevando eccezioni senza accertare, con un minimo di diligenza, se esse fossero giuridicamente sostenibili (cfr. Cass. n. 3130/2021).

Per effettuare la segnalazione alla Centrale Rischi non è necessario che la concedente debba attendere che il cliente raggiunga uno stato di definitiva incapacità di far fronte alle proprie obbligazioni, attesa la funzione e l’utilità della segnalazione stessa e il sistema in cui essa si inscrive, volto a rendere noto agli operatori economici la situazione deficitaria conclamata di determinati soggetti, al fine di evitare l’alterazione del mercato creditizio, concedendo credito a soggetti incapienti. Tuttavia, la segnalazione di una posizione di rischio tra le sofferenze non è più dovuta quando viene a cessare lo stato di insolvenza o la situazione ad esso equiparabile.

La revoca retroattiva della segnalazione a “sofferenza”, sostituita con la segnalazione ad “incaglio”, non ha valore confessorio da parte della concedente, in mancanza di ulteriori elementi univoci in tal senso.

La segnalazione di una posizione “ad incaglio”, posta a confronto con la segnalazione “a sofferenza”, è certamente più favorevole per il segnalato, considerati i presupposti sulla quale la stessa si fonda. Il fatto che l’incaglio si basi su una situazione di temporanea difficoltà, che si ritiene possa essere sanata in tempi ragionevoli e non su una situazione di difficoltà economica grave e non transeunte, fa sì che tale segnalazione ponga il soggetto in una posizione più favorevole nei confronti del mercato creditizio e dell’accesso al credito.

I principi sono stati espressi nel giudizio di appello proposto dall’utilizzatore di un contratto di leasing finanziario contro la sentenza di primo grado che aveva rigettato la domanda, dal medesimo proposta, di risarcimento danni da illegittima segnalazione alla Centrale Rischi della Banca d’Italia e aveva dichiarato inammissibile la domanda riconvenzionale, proposta dalla società concedente, per il pagamento della penale per estinzione anticipata del contratto, avente ad oggetto un’imbarcazione (ancora in via di costruzione).

In particolare, l’appellante impugnava la sentenza di prime cure per: (i) violazione delle norme contenute nella Circolare di Banca d’Italia n. 139/1991, oltre che l’errata valutazione degli elementi di prova; (ii) violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere il Tribunale statuito in merito ai motivi dell’inadempimento che avrebbero determinato società concedente a procedere alla segnalazione, nonostante tali motivi non rientrassero nell’oggetto del giudizio, pronunciandosi dunque su fatti e situazioni estranei alla materia del contendere; (iii) violazione del disposto di cui all’art. 112 c.p.c. e omessa pronuncia relativamente alla domanda di condanna della società concedente all’immediata cancellazione della segnalazione per incaglio.

Rilevato che la segnalazione operata dalla società concedente appariva del tutto legittima (e tanto si è potuto affermare non solo con riferimento alla segnalazione a sofferenza, ma, a maggior ragione
anche per la segnalazione ad incaglio), in quanto: (
i) l’utilizzatore aveva dimostrato, con il proprio contegno, di versare in una situazione complessiva di difficoltà economica e, in sostanza, aveva ammesso nelle proprie comunicazioni che il contratto era divenuto eccessivamente oneroso e di non essere in grado di adempiere all’obbligo di pagamento assunto con il contratto di leasing; e (ii) che mancavano i presupposti della pretesa responsabilità a carico della concedente su cui l’appellante fondava la pretesa risarcitoria (rimanendo assorbita ogni questione circa l’esistenza e la prova del danno), la Corte adita rigettava l’appello e confermava la sentenza impugnata.

(Massime a cura di Simona Becchetti)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza dell’11 aprile 2023, n. 622 – interessi usurari, risoluzione contratto d’investimento

La disciplina relativa agli interessi usurari trova applicazione anche in materia di interessi moratori (cfr. SS.UU. n. 19597/2020 e Cass. n. 9237/2020); tuttavia, l’usurarietà degli interessi corrispettivi e di quelli moratori deve essere partitamente verificata ed accertata. Non è perciò ammissibile il cumulo degli interessi moratori con quelli corrispettivi, ai fini della valutazione del superamento del tasso soglia usura, giacché gli uni e gli altri costituiscono unità eterogenee, tra loro alternative (riferite l’una al fisiologico andamento del rapporto e l’altra alla sua patologia) ed è del tutto evidente che il debitore non debba corrispondere il cumulo di tali interessi. Inoltre, ove l’interesse corrispettivo sia lecito e solo il calcolo degli interessi moratori applicati comporti il superamento della soglia usuraria (da determinarsi secondo i criteri fissati da SS.UU. n. 19597/2020), ne deriva che solo questi ultimi sono illeciti e preclusi; resta comunque l’applicazione dell’art 1224, comma primo, c.c., con il conseguente computo degli interessi nella misura dei corrispettivi lecitamente pattuiti. Ai fini del superamento del tasso soglia usura, inoltre, non sono rilevanti né le spese relative all’assicurazione del bene né la penale prevista a carico del cliente in caso di estinzione anticipata del rapporto (Cass. n. 7352/2022 e Cass. n. 23866/2022).

Quando un finanziamento non è stato vincolato all’acquisizione delle obbligazioni emesse dall’istituto bancario ed è stato erogato in epoca antecedente al loro acquisto, di talché l’intera somma mutuata entra nella disponibilità della parte mutuataria che la utilizza in massima parte per estinguere altre passività verso altro istituto bancario, la richiesta della ulteriore garanzia costituita dal pegno sulle obbligazioni non determina in capo a quest’ultima vantaggi sproporzionati, non causalmente giustificati dalla erogazione del mutuo.

Nella prestazione dei servizi e delle attività di investimento e accessori, i soggetti abilitati devono comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, con la conseguenza che eventuali inadempimenti degli obblighi informativi previsti dal t.u.f. e dalla pertinente disciplina di attuazione costituiscono di per sé inadempimento grave, tale da condurre all’accoglimento della domanda di risoluzione del contratto. Rispetto al corrispettivo versato, compete all’investitore il diritto alla restituzione, il quale ha natura di debito di valuta e come tale non soggetto a rivalutazione monetaria, se non nei termini del maggior danno rispetto a quello soddisfatto dagli interessi legali. L’effetto retroattivo della risoluzione del contratto di investimento relativo a strumenti finanziari poi assoggettati a garanzia pignorativa a favore dello stesso intermediario, non pone nel nulla l’effetto estintivo del debito garantito che si è realizzato proprio attraverso la vendita dei titoli espressamente autorizzata dal debitore-datore di pegno.

Princìpi espressi nell’ambito di un giudizio di rinvio post Cassazione nel quale la parte attrice censurava l’usurarietà degli interessi moratori convenuti in un contratto di mutuo stipulato con un istituto bancario in ragione del cumulo degli interessi corrispettivi e di quelli moratori nonché dell’inclusione delle spese relative all’assicurazione del bene oggetto di garanzia e della penale prevista a carico del cliente per l’estinzione anticipata del rapporto. L’attrice si doleva altresì che la banca convenuta aveva vincolato l’erogazione del finanziamento all’acquisto di obbligazioni dalla stessa emesse nonché della violazione in relazione all’acquisto di dette obbligazioni degli obblighi informativi e comportamentali previsti dalla disciplina relativa alla prestazione dei servizi e delle attività di investimento ratione temporis vigente.

(Massime a cura di Chiara Alessio)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 11 aprile 2023, n. 624 – leasing, nullità delle clausole contrattuali, riduzione ad equità, valutazione valore immobile CTU, violazione del patto commissorio, lease-back

È valida ed è meritevole di tutela la clausola penale presente nelle condizioni generali del contratto di leasing finanziario che prevede che, nel caso in cui, a seguito della risoluzione dello stesso, il bene venga restituito al concedente, il debito dell’utilizzatore venga ridotto di un importo pari al ricavato della vendita dello stesso o della sua ricollocazione in leasing, o in alternativa pari al valore determinato secondo perizia di stima giurata eseguita da un professionista incaricato dal concedente. Nel caso di specie, l’applicazione di siffatta clausola non produce effetti distorsivi che portano al concedente di percepire somme maggiori rispetto a quelle che avrebbe ottenuto dall’adempimento del contratto e non può ritenersi eccessivamente onerosa, mancando i presupposti per la riduzione ad equità ex art 1384 c.c. (cfr. Cass. n. 15202/2018; Cass. n. 26531/2021; Cass. n. 15202/2018; Cass. n. 21762/2019; Cass. n. 25031/2019; Cass. n. 1581/2020)).

La risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore di un contratto di leasing traslativo, concluso anteriormente al 29 agosto 2017 (entrata in vigore della disciplina prevista dall’art. 1, commi 136 e ss., L. 4 agosto 2017 n.124), è sottoposta all’applicazione analogica dell’art. 1526 c.c. Pertanto, qualora il giudice, ove ritenga che le parti abbiano pattuito una clausola penale, che prevede il diritto del concedente di trattenere tutte le rate pagate a titolo di corrispettivo del godimento nonostante il mantenimento della proprietà, ha il potere di ridurre detta penale, in modo da contemperare, secondo equità, il vantaggio che essa assicura al contraente adempiente ed il margine di guadagno che il medesimo si riprometteva di trarre dalla regolare esecuzione del contratto (cfr. Cass. n. 10249/2022).

Ai fini della determinazione del valore di un immobile da parte del CTU è preferibile l’utilizzo dei dati forniti dalla Banca dati delle quotazioni Immobiliari relativi alle compravendite già concluse, rispetto ai prezzi per gli immobili posti in vendita.

Non è riconducibile ad una violazione del patto commissorio ex art, 2744 c.c. l’operazione di sale and lease back che non presenta gli elementi sintomatici atti ad evidenziare che la vendita sia stata posta in essere con funzione di garanzia quali: i) l’esistenza di una situazione di credito e debito tra la società finanziaria e l’impresa venditrice utilizzatrice; ii) le difficoltà economiche dell’impresa venditrice utilizzatrice; iii) la sproporzione tra il valore del bene trasferito ed il corrispettivo versato dall’acquirente (cfr. Cass. n. 4664/2021).

Princìpi espressi in grado d’appello ove la Corte ha respinto la domanda con cui l’appellante chiedeva di accertare e dichiarare indebita la percezione da parte della società di leasing degli importi corrisposti in esubero rispetto al valore dei contratti di finanziamento tenuto conto della diversa valutazione dei beni oggetto dell’operazione effettuata dall’appellante, nonché delle deduzioni proposte in ordine all’inefficacia e alla nullità delle clausole contrattuali comportanti un vantaggio indebito per la società di leasing, ovvero di condannare l’appellata alla restituzione degli stessi.

(Massime a cura di Edoardo Compagnoni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 23 marzo 2023 n. 663 – contratto di locazione finanziaria, leasing traslativo, risoluzione per inadempimento, clausola penale

Nei casi di risoluzione per inadempimento dei contratti di locazione finanziaria di tipo traslativo, il comma 138 dell’art. 1 della legge n. 124/2017 riconosce all’utilizzatore il diritto a vedersi corrispondere il ricavato della vendita del bene oggetto di leasing da parte del concedente, dedotte le somme dovute per canoni scaduti e non pagati, del capitale a scadere, del prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione finale e degli ulteriori crediti maturati sino alla vendita.

Il meccanismo previsto dal comma 138 dell’art 1 della legge n. 124/2017  può operare a condizione che l’utilizzatore restituisca il bene e ponga cioè il concedente nelle condizioni di ricollocare il bene sul mercato, poiché evidenti ragioni di logica e di interpretazione secondo buona fede e correttezza del contratto impediscono un’applicazione della normativa che consenta all’utilizzatore di beneficiare dei propri inadempimenti per paralizzare il diritto di credito della concedente e impedire a quest’ultima l’incasso dei canoni scaduti (oltre che di quelli a scadere e delle restanti somme che le spettano).

Devono ritenersi legittime quelle statuizioni pattizie con cui le parti, in applicazione del principio sinallagmatico cui è improntato l’elemento causale del negozio giuridico, risolvono il possibile squilibrio delle prestazioni mediante la previsione che la concedente, una volta ricollocato il bene sul mercato, debba decurtare l’importo così ottenuto dalle somme ancora dovute dall’utilizzatore.

Il giudice che ritenga che le parti abbiano pattuito una clausola penale, prevedendo, per il caso della risoluzione anticipata, il diritto del concedente di trattenere tutte le rate pagate a titolo di corrispettivo del godimento nonostante il mantenimento della proprietà, ha il potere di ridurre detta penale, in modo da contemperare, secondo equità, il vantaggio che essa assicura al contraente adempiente ed il margine di guadagno che il medesimo si riprometteva di trarre dalla regolare esecuzione del contratto, procedendo alla stima del bene secondo il valore di mercato al momento della restituzione (salvo che non sia stato già venduto o altrimenti allocato, considerando, nel qual caso, i valori conseguiti) e poi detrarre tale valore dalle somme dovute dall’utilizzatore al concedente, con diritto del primo all’eventuale residuo (cfr. Cass. n. 10249/2022).

La riduzione della penale contrattuale attinente a un contratto di locazione finanziaria di tipo traslativo non può essere in concreto concessa se al momento dell’introduzione della controversia il bene immobile non è ancora stato rilasciato in favore del concedente e se non vi siano elementi idonei a ritenere che, in ragione del presumibile valore di realizzo del bene immobile da restituirsi, la società di leasing possa ottenere una somma maggiore rispetto a quella che avrebbe conseguito con il corretto adempimento del contratto ovvero se ciò non appare in concreto verosimile.

I principi sono stati espressi nell’ambito del giudizio di opposizione avverso un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo per il pagamento di somme ancora dovute dall’utilizzatrice alla concedente, nell’ambito di un contratto di locazione finanziaria di tipo traslativo.

(Massime a cura di Giada Trioni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 21 marzo 2023, n. 642 – contratto di leasing, usurarietà del tasso di interesse, scostamento tra tasso di leasing e tasso praticato, interessi moratori

In tema di contratti di leasing, l’interesse ad agire per la declaratoria di usurarietà degli interessi moratori sussiste anche nel corso dello svolgimento del rapporto contrattuale e non solo ove i presupposti della mora si siano già verificati, ciò perché l’interesse ad agire in un’azione di mero accertamento non implica necessariamente l’attualità della lesione di un diritto, essendo sufficiente uno stato di incertezza oggettiva. In particolare, nel corso dello svolgimento del rapporto contrattuale si dovrà avere riguardo al tasso-soglia applicabile al momento dell’accordo, mentre, ove i presupposti della mora, la valutazione di usurarietà riguarderà l’interesse concretamente praticato dopo l’inadempimento.

Pertanto, ove il contratto di leasing immobiliare sia in essere alla data di introduzione del giudizio, l’interesse giuridicamente apprezzabile della società utilizzatrice ad agire per ottenere la – eventuale – declaratoria di nullità (per usurarietà) della pattuizione relativa agli interessi moratori, consiste nell’evitarne l’applicazione nell’ipotesi di un proprio – futuro ed eventuale – inadempimento.

L’eventuale (lieve) difformità tra il tasso di leasing contrattualmente indicato e il tasso di leasing effettivamente applicato potendo dipendere da diverse variabili (ive incluse, il pagamento in via eventualmente anticipata anziché posticipata degli interessi, la rateazione dell’obbligo di restituzione) non significa che vi sia stata applicazione di un tasso di interesse difforme dal tasso annuo nominale, né tantomeno viene in rilievo un fenomeno di anatocismo. Pertanto, dalla dedotta difformità non potrebbe mai derivare la nullità parziale del contratto ai sensi dell’articolo 117 t.u.b. con conseguente applicazione del tasso legale sostitutivo (sia esso quello previsto dall’articolo 117, comma settimo, t.u.b. per il caso di inosservanza dei commi quarto e sesto ovvero quello previsto dall’art. 1284 c.c.), né la necessaria prevalenza del primo tasso (indicato) sul secondo (concretamente applicato), risultando perciò escluso il diritto dell’utilizzatore di ripetere gli importi (in ipotesi) versati in eccedenza. Potrebbe se del caso ravvisarsi (in caso di significativa difformità) responsabilità civile per inadempimento dell’obbligazione di trasparenza, ove l’utilizzatore alleghi e provi, che qualora il tasso di leasing fosse stato correttamente rappresentato non avrebbe stipulato il contratto o lo avrebbe stipulato altrove a più favorevoli condizioni.

La pattuizione di interessi moratori in misura usuraria ha natura autonoma e, pertanto, l’eventuale nullità della stessa non si estenda a quella relativa agli interessi corrispettivi, qualora leciti.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso da una società, utilizzatrice, nei confronti di società di leasing finalizzato a far accertare l’usuriarietà della pattuizione relativa agli interessi e/o la nullità della relativa pattuizione per indeterminatezza del tasso contrattuale.

Nella vicenda oggetto del giudizio, in particolare, la società aveva stipulato un contratto di leasing avente ad oggetto l’acquisto di un immobile in relazione al quale, secondo la ricostruzione dell’attore, le previsioni contrattuali relative agli interessi risultavano viziate per: (i) applicazione di un “Tasso Leasing applicato” (TAE) superiore al “Tasso Leasing contrattuale” (TAN); (ii) usurarietà del tasso stabilito per gli interessi moratori; e (iii) indeterminatezza del tasso contrattuale.

A tal fine, la società richiedeva, inter alia, l’accertamento: (i) in via principale, della nullità del contratto di leasing, con condanna della società convenuta alla restituzione, in favore della società, di tutte le somme pagate che non siano imputabili al solo capitale finanziato; (ii) in via subordinata, della nullità della pattuizione relativa agli interessi corrispettivi, ex art. 117, comma sesto, t.u.b., quale conseguenza dell’indicazione di un TAN inferiore TAE, con conseguente rideterminazione del piano di ammortamento mediante applicazione del tasso sostitutivo ex art. 117, comma settimo, lett. a), t.u.b.; e (iii) in ulteriore subordine, della nullità per usurarietà della pattuizione relativa agli interessi moratori, con conseguente gratuità del contratto ex art. 1815 c.c. e condanna della società concedente alla restituzione di tutto quanto indebitamente percepito a titolo di interessi.

Il Tribunale ha rigettato le domande proposte dalla parte attrice nei confronti della società di leasing e, per pertanto, ha condannato la società al pagamento delle spese di lite.

(Massime a cura di Giorgio Peli)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 21 marzo 2023, n. 488 – apertura di credito in conto corrente, interessi anatocistici, commissioni di massimo scoperto, commissioni ex art. 117 bis TUB, nullità di clausole contrattuali, ripetizione di indebito

In tema di ripetizione di indebito opera il normale principio dell’onere della prova a carico dell’attore il quale, quindi, è tenuto a dimostrare sia l’avvenuto pagamento, sia la mancanza di una causa che lo giustifichi (cfr. Cass. n. 30713/2018; Cass. n. 24948/2017). Il principio trova applicazione anche ove si faccia questione dell’obbligazione restitutoria dipendente dalla (asserita) nullità di singole clausole contrattuali, relativamente cioè ad un pagamento dovuto solo in parte, di cui si chieda la restituzione limitatamente alla somma pagata in eccedenza (Cass. n. 7501/2012). In applicazione dei suddetti principi, assunta l’esistenza di un contratto scritto di apertura di credito in conto corrente, l’attore in ripetizione che alleghi la mancata valida pattuizione, in esso, dell’interesse debitore è onerato di dar prova dell’assenza della causa debendi attraverso la produzione in giudizio del documento contrattuale, mediante il quale dimostrare la mancanza, nel contratto, della pattuizione degli interessi o la nullità di essa. 

È da ritenersi valida, sotto il profilo causale, la previsione pattizia della commissione di massimo scoperto, posto che la legge 28 gennaio 2009 n. 2, nel dettare una disciplina in materia, ne ha riconosciuto l’astratta legittimità per il periodo anteriore (Cass., sez. un., n. 16303/2018; Cass. n. 870/2006). Tale corrispettivo, che è pagato dal cliente per compensare l’intermediario dell’onere di dover essere sempre in grado di fronteggiare una rapida espansione nell’utilizzo dello scoperto del conto e che di norma viene applicato allorché il saldo del cliente risulti a debito per oltre un determinato numero di giorni, viene calcolato in misura percentuale sullo scoperto massimo verificatosi nel periodo di riferimento. Tuttavia, a fronte della mancata indicazione, nel contratto, di ulteriori elementi, ed in primo luogo dell’importo su cui la dedotta percentuale andrebbe applicata, si deve ritenere che la previsione pattizia non soddisfi i requisiti di cui all’art 1346 c.c. e che quindi ne vada dichiarata la nullità (cfr. Cass. n. 19825/2022).

Principi espressi, in grado di appello, nell’ambito di un giudizio promosso per l’accertamento dell’illegittimo addebito al correntista di importi a titolo di interessi anatocistici, commissioni di massimo scoperto, commissioni ex art. 117 bis TUB, spese e interessi passivi maturati su tali voci per valori superiori a quelli effettivamente dovuti e per la conseguente condanna dell’intermediario alla restituzione dell’indebito e al risarcimento del danno.

(Massime a cura di Luisa Pascucci)




Tribunale di Brescia, sentenza del 15 marzo 2023 n. 589 – diritto industriale e della concorrenza, violazione del brevetto d’invenzione, competenza territoriale, cessione d’azienda, prova degli accordi di cessione e di licenza, tolleranza, quantificazione del danno

In tema di competenza territoriale in materia di violazione dei diritti di proprietà industriale, il sesto comma dell’art. 120 c.p.i. attribuisce la competenza territoriale all’autorità giudiziaria dotata di sezione specializzata nella cui circoscrizione i fatti sono stati commessi (c.d. forum commissi delicti). A tal fine, la nozione di “fatto lesivo” comprende ogni ipotesi di violazione dei diritti patrimoniali attribuiti al titolare del diritto di proprietà industriale, ivi compresi gli atti di fabbricazione, uso e vendita del bene prodotto in contraffazione, o che comunque si sostanziano nell’attuazione dell’oggetto della privativa o che sono diretti a trarne profitto. Il luogo di consumazione dell’illecito si specifica, poi, in relazione alle singole fattispecie concrete, sicché nel caso di fabbricazione, vendita o utilizzazione di prodotti contraffatti, deve ritenersi competente il giudice del luogo in cui tali prodotti siano stati rispettivamente fabbricati, venduti o utilizzati.

In caso di cessione d’azienda, ai sensi dell’art. 2559 c.c., il cessionario acquista i crediti relativi all’esercizio dell’azienda, tra cui vanno ricompresi, in mancanza di diversa pattuizione, quelli derivanti da fatti illeciti commessi in danno dell’impresa cedente (cfr., tra le altre, Cass. n. 13692/2012).

Sebbene i contratti di cessione e di licenza di diritti brevettuali non richiedano la forma scritta ad substantiam o ad probationem – con la conseguenza che, secondo gli ordinari principi in materia di onere della prova, chi invoca il trasferimento e/o la legittimità dello sfruttamento dei diritti sull’invenzione altrui è tenuto a dimostrare, anche per presunzioni, il titolo costitutivo del diritto invocato -, nel caso in cui, come nel caso di specie, gli accordi di cessione e di licenza del titolo brevettuale siano stati stipulati per iscritto, trova applicazione la regola probatoria di cui all’art. 2722 c.c., con conseguente impossibilità di provare tramite testimoni o presunzioni l’esistenza di patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, per i quali si alleghi che la stipulazione è stata contemporanea.

Peraltro, in caso di eventuali accordi successivi a un originario contratto di concessione di diritti di sfruttamento del brevetto, troverebbe comunque applicazione la regola probatoria di cui all’art. 2723 c.c., in base alla quale la prova per testimoni o presuntiva può essere consentita soltanto se, avuto riguardo alla qualità delle parti, alla natura del contratto e a ogni altra circostanza, appare verosimile che siano state fatte aggiunte o modificazioni verbali.

In caso di licenza di brevetto, sebbene la tolleranza del licenziante allo sfruttamento da parte del licenziatario, di privative diverse da quelle oggetto di licenza, non sia, di per sé, idonea a integrare una modifica dei patti stipulati tra le parti per iscritto (nel senso che non consente di estendere la licenza contrattuale anche ad un altro brevetto), potendo tale condiscendenza essere ispirata da ragioni ulteriori e diverse rispetto alla volontà di modificazione del patto), nondimeno, la manifestata acquiescenza del titolare del brevetto all’utilizzo, noto, di esso da parte dell’utilizzatore esclude la sussistenza dell’illecito, dovendosi ritenere l’attività oggettivamente dannosa posta in essere con il consenso del titolare avente diritto incompatibile con la volontà di farlo valere. Ne consegue che, il temporaneo assenso allo sfruttamento del brevetto, pur dovendosi ritenere inidoneo alla costituzione del vincolo contrattuale, fa venir meno l’antigiuridicità della condotta posta in essere nel periodo di tempo in cui perdurava l’assenso.

In caso di illecito sfruttamento dell’altrui brevetto, il danno patito del titolare della privativa deve essere quantificato ai sensi dell’art. 125 c.p.i., in forza del quale il lucro cessante è determinato in una somma non inferiore ai canoni che l’utilizzatore del brevetto avrebbe dovuto pagare in favore del titolare qualora avesse ottenuto regolare licenza di utilizzo e, nella misura in cui eccedano l’importo dei canoni, nella retroversione degli utili realizzati dall’autore della violazione.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso da una società che lamentava l’abusivo sfruttamento del brevetto di cui era titolare da parte della società convenuta e chiedeva, previo accertamento di tale contraffazione e/o comunque della violazione delle regole di correttezza professionale ex art. 2598 n. 3 c.c., la conferma dell’inibitoria già disposta in sede cautelare, la pronuncia degli ordini di distruzione dei prodotti in contraffazione, dell’inibizione della reiterazione dell’illecito, dell’ordine di ritiro dal commercio dei prodotti contraffatti e la fissazione di una penale per ogni violazione, oltre che il risarcimento dei danni subiti in misura pari alle mancate royalties da licenza d’uso e comunque agli utili illecitamente ricavati dalla convenuta, di cui chiedeva la retroversione. La società attrice chiedeva, inoltre, la pubblicazione della sentenza.

La convenuta si costituiva in giudizio eccependo, in via pregiudiziale, l’incompetenza territoriale del Tribunale.

Nel merito, la convenuta sosteneva che lo sfruttamento del brevetto oggetto del contenzioso fosse oggetto di accordi commerciali tra le parti, avendo la convenuta stipulato con una società fallita – da cui la società attrice aveva acquistato il brevetto – un accordo in virtù del quale venivano regolamentati i rapporti di cessione, concessione e sfruttamento delle privative riferite ad un altro brevetto e sosteneva che anche il brevetto per cui l’attrice chiedeva la tutela dovesse ritenersi ricompreso nel predetto accordo. In ogni caso, la convenuta sosteneva che il brevetto oggetto di causa avrebbe dovuto considerarsi quale estensione del brevetto concesso in licenza alla convenuta stessa dalla società, poi fallita, da cui l’attrice aveva acquistato il brevetto.

Il Tribunale: (i) ha parzialmente accolto le domande dell’attrice e, nello specifico, ha accertato la violazione da parte della società convenuta del brevetto di titolarità dell’attrice, condannando la convenuta al risarcimento dei danni in un importo comprensivo di interessi compensativi e rivalutazione, oltre interessi legali successivi al deposito della sentenza; (ii) ha inibito alla convenuta la fabbricazione, il commercio e l’uso dei prodotti costituenti violazione del brevetto e fissato una penale per ogni violazione o inosservanza successivamente contestata; (iii) ha ordinato il ritiro definitivo dal commercio dei prodotti in contraffazione nei confronti di chi ne sia proprietario o ne abbia comunque la disponibilità e la distruzione a cura e spese della convenuta di tutte le cose costituenti la violazione. Tenuto conto del significativo lasso di tempo trascorso dal momento delle violazioni, il Tribunale ha rigettato la domanda di pubblicazione della sentenza, essendo venuto meno il concreto interesse dell’attrice o della collettività alla diffusione capillare dell’accertamento in essa contenuto.

(Massime a cura di Alice Rocco)