Ordinanza del 17 ottobre 2017 – Giudice estensore: dott.ssa Vincenza Agnese

La fattispecie di cui all’art. 98 c.p.i. è connotata dalla presenza di specifici requisiti che devono essere tutti allegati e provati dalla parte che invoca la relativa tutela, sicché anche l’assenza di uno solo di essi impedisce di sussumere i relativi fatti nell’alveo normativo del codice della proprietà industriale.

Costituisce atto di concorrenza sleale ex art. 2598, nn. 1 e 2, c.c. la realizzazione di dispositivi meccanici sulla base di disegni e progetti, ancorché non coperti da brevetto, identici a quelli utilizzati per realizzare i medesimi dispositivi del concorrente.

Nell’ambito di un procedimento cautelare, quanto al periculum, stante la natura dei diritti violati, la pericolosità del ritardo deve essere considerata insita nelle conseguenze irreversibili che gli atti di concorrenza sleale possono produrre sul mercato nel tempo necessario a far valere il diritto in via ordinaria. A tale riguardo, la perdita di clientela, rappresentando il tipico effetto dannoso dell’attività concorrenziale illecita, integra gli estremi del pregiudizio irreparabile ed irreversibile.

Principio espresso in sede cautelare, a seguito di ricorso proposto in corso di causa, con il quale veniva invocata la tutela di cui agli artt. 98 e 99 c.p.i. e quella di cui agli artt. 2598 e ss. c.c. Escluso il fumus della violazione dell’art. 98 c.p.i., per la ritenuta insussistenza, ad un esame sommario, del requisito della novità delle informazioni segrete oggetto di causa, è stato invece ritenuto sussistente il fumus della concorrenza sleale, ai sensi dell’art. 2598, nn. 1 e 2, c.c., avendo la resistente commissionato ad una società di lavorazioni meccaniche la produzione di mandrini sulla base di un disegno identico a quello utilizzato per realizzare i medesimi prodotti abitualmente commissionati dalle ricorrenti. È stato inoltre reputato sussistente il requisito del periculum in mora, rappresentato dal rischio di perdita di clientela che avrebbe potuto conseguire all’attività concorrenziale illecita, integrante gli estremi del pregiudizio irreparabile ed irreversibile.

Ord. 17.10.2017

(Massima a cura di Sara Pietra Rossi)




Decreto del 26 settembre 2017 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott. Stefano Franchioni

In tema di ammissione al passivo, pur essendo tendenzialmente esclusa l’applicabilità al credito per compenso di appalto d’opera del privilegio previsto per i crediti dell’impresa artigiana relativamente ai corrispettivi dei servizi prestati e della vendita dei manufatti (conf. Cass. 20116/2010), detto privilegio può ritenersi applicabile laddove sia verificata in concreto la prevalenza dell’attività lavorativa prestata dall’impresa rispetto alla fornitura della materia prima ed alle spese generali.

I principi sono stati espressi nel giudizio di opposizione ex art. 98 l. fall. promosso dal creditore, nel caso di specie, un’impresa artigiana, avverso il decreto di esecutività dello stato passivo che aveva disposto l’ammissione del credito integralmente al chirografo, trattandosi di credito relativo a corrispettivi per l’esecuzione di opere in subappalto.

L’opponente, in particolare, chiedeva l’ammissione del credito al privilegio c.d. artigiano censurando l’erronea applicazione dell’indirizzo giurisprudenziale che afferma l’incompatibilità tra il contratto d’appalto e l’impresa artigiana del creditore. 

Sul punto il Tribunale, accertata la prevalenza dell’attività lavorativa svolta dall’impresa rispetto alla fornitura eseguita, nonché la sussistenza dei presupposti richiesti ai fini del riconoscimento del privilegio c.d. artigiano, ha parzialmente accolto l’opposizione e, in parziale riforma del decreto di esecutività dello stato passivo, ha disposto l’ammissione di parte del credito dell’opponente al privilegio c.d. artigiano (ex art. 2751-bis, n. 5, c.c.).

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 16 settembre 2017, n. 2665 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: Dott. Raffaele Del Porto

Non ha diritto al risarcimento dei danni ex art. 2409-novies, quinto comma, c.c. il consigliere di gestione cessato dalla carica per effetto della decadenza dell’intero consiglio in conseguenza delle spontanee e legittime dimissioni rassegnate dalla maggioranza dei suoi componenti non sorrette da ragioni pretestuose od arbitrarie, non configurandosi alcuna ipotesi di uso improprio (o abuso) della clausola simul stabunt simul cadent.

Principi espressi in ipotesi di rigetto della domanda di risarcimento del danno ex art. 2409-novies, quinto comma, c.c., formulata dal vice-presidente del consiglio di gestione di una s.p.a. decaduto per effetto della clausola statutaria simul stabunt simul cadent.

Sent. 16.9.2017, n. 2665

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza dell’11 settembre 2017 – Giudice designato: dott. Stefano Franchioni

All’amministratore di una società non può essere imputato, a titolo di responsabilità, di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di sua revoca, ma non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società. Ne consegue che il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione o le modalità e circostanze di tali scelte, anche se presentino profili di rilevante alea economica, ma solo la diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere, e quindi, l’eventuale omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità.

La ratio del principio di postergazione del rimborso del finanziamento dei soci sancito dall’art. 2467 c.c. dettato le s.r.l., consistente nel contrastare fenomeni di sottocapitalizzazione nominale in società chiuse, è compatibile anche con altre forme societarie, come si desume dall’art. 2497 quinquies c.c., che ne estende l’applicabilità ai finanziamenti effettuati a favore di qualsiasi società da parte di chi esercita nei suoi confronti attività di direzione e coordinamento. Pertanto, ai fini dell’applicabilità dell’art. 2467 c.c. alla s.p.a., occorre valutare se questa, per le sue modeste dimensioni o per l’assetto dei rapporti sociali, sia idonea a giustificare l’applicazione di detta disposizione.

Principi espressi in ipotesi di conferma parziale del decreto, emesso inaudita altera parte, con il quale era stato autorizzato il sequestro conservativo dei beni mobili e immobili degli ex amministratori e sindaci di una s.p.a. fallita, a seguito di ricorso proposto ante causam dalla Curatela, preordinato all’esercizio dell’azione di responsabilità nei loro confronti ai sensi degli artt. 2392-2394 e 2407 c.c.

Ord. 11.9.2017

(Massima a cura di Sara Pietra Rossi)




Decreto del 5 settembre 2017 – Presidente relatore: dott. Raffaele Del Porto

In tema ammissione allo stato passivo, la prova del contratto traslativo del credito non può essere ricavata dall’avvenuta pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell’avviso di cessione di crediti pro soluto ex art. 58, co. 2, d.lgs. n. 385/1993, idonea a dar prova del mero adempimento pubblicitario, ma che nulla dimostra quanto alla effettiva (e valida) conclusione del preteso contratto di cessione dei crediti in blocco.

La pacifica estraneità del debitore ceduto al negozio di cessione non esonera il cessionario dall’onere di documentare tale sua (effettiva) qualità al debitore onde consentire a quest’ultimo di provvedere a un pagamento effettivamente liberatorio anche rispetto al (preteso) cedente. Tale principio, trova implicita conferma, sul piano normativo, nel disposto dell’art. 115, co. 2, l. fall., laddove, nel caso di cessione di crediti anteriori alla ripartizione, onera il cessionario, non solo della comunicazione della cessione, ma anche della documentazione idonea a dar prova dell’effettiva (e valida) stipula dell’atto (di norma negoziale) traslativo del credito.

I principi sono stati espressi nel giudizio di opposizione ex art. 98 l. fall. promosso dal creditore cessionario del credito avverso il decreto di esecutività dello stato passivo che aveva escluso la sussistenza del privilegio ipotecario, ritenuto il difetto di prova dell’acquisizione del credito da parte dell’istante.

Sul punto il Tribunale, accertato il mancato assolvimento dell’onere probatorio quanto alla cessione, ha rigettato l’opposizione.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 17 agosto 2017, n. 2563 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott. Raffaele Del Porto

Quando lo statuto di una società cooperativa prevede la devoluzione ad arbitri di tutte le controversie insorgenti tra i soci o tra i soci e la società aventi ad oggetto diritti disponibili, nelle controversie medesime deve ricomprendersi anche l’opposizione del socio cooperatore avverso il diniego del proprio recesso di cui all’art. 2532, secondo comma, c.c.; e ciò anche se, come nel caso di specie, sia lo stesso statuto a prevedere che tale opposizione debba essere proposta avanti al tribunale.

Lo scoordinamento testuale tra la clausola compromissoria ed altre disposizioni statutarie “di tutela del socio” (ossia, in generale, volte a sottrarre talune decisioni dalla discrezionalità degli organi sociali – quali, tipicamente, quelle relative all’esclusione o recesso del socio) deve trovare soluzione alla stregua della volontà dei contraenti, sicuramente rinvenibile nella prevalenza della generale cognizione arbitrale statuita dallo stesso statuto per il contenzioso endosocietario.

Allo stesso modo, la clausola compromissoria (e, dunque, l’incompetenza del tribunale) si estende anche all’eventuale domanda di condanna al pagamento di prestazioni conferite dal socio nel periodo della pretesa operatività del recesso, afferendo anch’essa al contenzioso endosocietario.

Principi espressi in ipotesi di rigetto dell’opposizione avanzata dal socio cooperatore (nel caso di specie, una società semplice) dinanzi al tribunale avverso il diniego consigliare del proprio recesso in presenza di clausola compromissoria.

Sent. 17.8.2017, n. 2563

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 29 luglio 2017, n. 2365 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott. Stefano Franchioni

La circostanza che, in base al terzo comma dell’art. 2476 c.c., a ciascun socio è attribuita la titolarità dell’esercizio dell’azione sociale non significa che la società, quale titolare del diritto al risarcimento del danno, non sia legittimata all’esercizio dell’azione in questione: il socio agisce come sostituto processuale, in nome proprio ma nell’interesse della società, la quale è e rimane titolare del diritto al risarcimento del danno sofferto a causa della condotta di mala gestio del proprio amministratore e pertanto è pienamente legittimata ad agire per far valere tale diritto.

Devono ritenersi nulle, ai sensi dell’art. 34 d. lgs. 5/2003, le clausole compromissorie contenute negli atti costitutivi delle società che non conferiscano il potere di nomina di tutti gli arbitri a soggetto estraneo alla società medesima. Tale disciplina è applicabile anche alle cause promosse nei confronti degli amministratori, come si evince dall’art. 34, 4° co., d. lgs. 5/2003, a mente del quale la clausola compromissoria può avere ad oggetto “controversie promosse da amministratori, liquidatori e sindaci ovvero nei loro confronti”.

Principi espressi in ipotesi di esercizio dell’azione di responsabilità promossa ex art. 2476 c.c. da due s.r.l., a mezzo del medesimo amministratore di diritto e legale rappresentante, nei confronti degli amministratori di fatto delle stesse, ritenuti responsabili di condotte distrattive che avevano depauperato il patrimonio sociale a proprio esclusivo vantaggio.

Sent. 29.7.2017, n. 2365

(Massima a cura di Sara Pietra Rossi)




Ordinanza del 26 luglio 2017 – Presidente: dott. Stefano Rosa, Giudice relatore: dott. Stefano Franchioni

Secondo l’interpretazione preferibile, l’art. 591-ter c.p.c. disciplina un rimedio – quello del reclamo al giudice dell’esecuzione contro gli atti del professionista delegato – di natura “preventiva”, funzionale cioè a consentire l’intervento giudiziale nel corso delle operazioni di vendita in caso di “difficoltà”, prima che dette operazioni giungano a compimento; conseguentemente, non può trovare accoglimento il ricorso ex art. 591-ter c.p.c. promosso dopo la conclusione delle operazioni di vendita, non essendo, peraltro, tale strumento processuale, utilmente proponibile nemmeno al fine di ottenere la sospensione dell’efficacia del decreto di trasferimento, nonché della validità del precetto notificato, la cui opposizione può essere eventualmente proposta, ricorrendone i presupposti, nelle forme di cui all’art. 615 c.p.c.

I principi sono stati espressi nel giudizio di reclamo promosso, ex artt. 591-ter e 669-terdecies c.p.c., dal debitore esecutato avverso il provvedimento di aggiudicazione emesso a conclusione delle operazioni di vendita.

Il ricorrente, in particolare, chiedeva (con contestuale istanza di sospensione) l’accertamento dell’inefficacia di tale atto, nonché di quelli presupposti, connessi e consequenziali, fondata sull’inapplicabilità della disciplina di cui art. 571, co. 2, c.p.c., in quanto, in tesi, l’esperimento di vendita avrebbe dovuto considerarsi “prosecuzione di (altra) precedentemente sospesa”. Sul punto il Tribunale, accertata l’inammissibilità delle domande proposte, ha rigettato il reclamo, confermando il provvedimento impugnato.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Decreto del 6 luglio 2017 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott. Stefano Franchioni

In tema di privilegio delle retribuzioni dei professionisti exart. 2751-bis, n. 2, c.c., la rinuncia al mandato, costituendo – a differenza della revoca – atto riconducibile alla mera volontà del professionista, non rileva ai fini della decorrenza della prescrizione; conseguentemente, con riferimento agli affari non terminati, trova applicazione la seconda parte del secondo comma dell’art. 2957 c.c., che individua quale dies a quola data dell’ultima prestazione.

Nel giudizio di opposizione allo stato passivo, il curatore, in quanto terzo rispetto al fallito e privo della capacità di disporre del diritto controverso, non può essere sollecitato alla confessione su interrogatorio formale con riferimento a vicende solutorie attinenti all’obbligazione dedotta in giudizio, né gli è deferibile il giuramento decisorio (conf. Cass. n. 15570/2015).

I principi sono stati espressi nel giudizio di opposizione ex art. 98 l. fall. promosso dal creditore, nel caso di specie, un professionista “forense”, avverso il decreto di esecutività dello stato passivo che aveva disposto l’ammissione del credito al chirografo “per prescrizione presuntiva di cui all’art. 2957, secondo comma, c.c.”.

L’opponente, in particolare, chiedeva l’ammissione del credito al privilegio ex art. 2751-bis, n. 2, c.c., ritenuto quale momento di decorrenza del termine prescrizionale la rinuncia all’incarico.

Sul punto il Tribunale, esclusa la possibilità di assimilare la rinuncia al mandato alla “revoca” espressamente prevista all’art. 2957 c.c., ha rigettato l’opposizione, confermando l’ammissione del credito in via chirografaria.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 16 maggio 2017 – Giudice estensore: dott. Stefano Franchioni

Nel caso in cui il fallimento di un consorzio agisca per ottenere la condanna dei consorziati, enti pubblici, al pagamento di una somma a titolo di ripianamento delle perdite subite e ad essi imputabili, nonché a titolo di ristoro delle spese sostenute per loro conto e dei danni sofferti, non trova fondamento l’eccezione di carenza di giurisdizione del giudice ordinario a favore di quella del giudice amministrativo, poiché si tratta di una controversia avente ad oggetto posizioni di diritto soggettivo derivanti da ragioni di credito, che, dunque, non rientra tra quelle concernenti la formazione, conclusione ed esecuzione di un accordo tra pubbliche amministrazioni ai sensi dell’art. 15 della l. 241/1990.

Nel caso in cui il fallimento di un consorzio faccia valere in giudizio un diritto già ricompreso nel patrimonio del fallito, la clausola compromissoria contenuta nello statuto dell’ente fallito, che demanda ad un arbitro la definizione delle controversie tra consorziati e tra questi ed il consorzio, è ad esso opponibile, anche alla luce del principio generale secondo il quale dal fallimento dell’ente non consegue l’estinzione dello stesso (arg. ex art. 118 l. fall.).

Principi espressi in ipotesi di accoglimento dell’eccezione di incompetenza del giudice ordinario in relazione ad una domanda proposta dal fallimento di un consorzio avente ad oggetto il ripianamento, da parte dei consorziati (enti pubblici), delle perdite subite e ad essi imputabili, nonché il ristoro delle spese sostenute per loro conto e dei danni sofferti, alla luce della clausola compromissoria prevista nello statuto del consorzio. Il Tribunale ha ritenuto opponibile al fallimento detta clausola, posto che il curatore, nell’esercitare diritti del fallito già ricompresi nel suo patrimonio alla data del fallimento, ne deve sopportare i relativi limiti, tra i quali rientra, a pieno titolo, l’operatività della clausola compromissoria.

Sent. 16.5.2017

(Massima a cura di Roberta Benedini)