Sentenza del 30 maggio 2018 – Presidente: Dott. Giuseppe Magnoli – Consigliere relatore: Dott. Giuseppe Magnoli

Ancorché eventualmente ricompresa nel
medesimo articolo del contratto, la clausola di determinazione dell’interesse
moratorio è autonoma e ben distinta da quella di determinazione dell’interesse
corrispettivo. Di conseguenza, l’eventuale invalidità
della clausola relativa al tasso moratorio non si estende a quella relativa
all’interesse corrispettivo, che resta
valida e pienamente efficace anche nel caso in cui la prima risulti nulla
perché usuraria.

Se il tasso
soglia viene superato dall’interesse moratorio ma non anche da quello
corrispettivo, la pattuizione del primo è nulla ma non quella del secondo; non
è infatti possibile mescolare i piani, quello dell’interesse corrispettivo, che
è dovuto sempre, con quello dell’interesse moratorio, che è dovuto solo in caso
di ritardo nel rimborso, e quindi in caso di inadempimento.

Per chiara disposizione di legge (art.1224 cpv. cc), di regola il
tasso mora si sostituisce e non si aggiunge al tasso corrispettivo pattuito,
ciò potendosi verificare soltanto in caso di espressa pattuizione convenzionale
in tal senso.

Nei
c.d. mutui ad ammortamento, la formazione delle rate di rimborso, nella misura
composita predeterminata di capitale ed interessi, attiene alle mere modalità
di adempimento di due obbligazioni poste a carico del mutuatario – aventi ad
oggetto l’una la restituzione della somma ricevuta in prestito e l’altra la
corresponsione degli interessi per il suo godimento – che sono ontologicamente
distinte e rispondono a finalità diverse. Il fatto che nella rata esse
concorrano, allo scopo di consentire all’obbligato di adempiervi in via
differita nel tempo, non è dunque sufficiente a mutarne la natura né ad
eliminarne l’autonomia (Cassazione n. 11400/2014).

Secondo l’art.3 della delibera CICR del 9 febbraio 2000,
l’anatocismo realizzato in conseguenza dell’inadempimento nel versamento del
rateo di ammortamento è da ritenersi pienamente legittimo ed efficace ove
sussista pattuizione al riguardo nel contratto di mutuo e quest’ultimo sia
stato stipulato nel vigore della delibera medesima.

La decisione è stata resa a seguito dell’impugnazione, ad opera
dei fideiussori del mutuatario, della sentenza del Tribunale che aveva
confermato il decreto ingiuntivo emesso a loro carico e a favore dell’istituto
di credito mutuante; gli appellanti chiedevano la revoca del decreto ingiuntivo
opposto, previo accertamento della nullità/invalidità/inefficacia, totale o
parziale, del contratto di mutuo per usurarietà del tasso di interesse.

(Massime a cura di Lorena Fanelli)




Decreto del 3 maggio 2018 – Presidente: dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice relatore: dott. Stefano Franchioni

In tema di ammissione al passivo, il decreto ingiuntivo, non munito, prima della dichiarazione di fallimento, del decreto di esecutorietà non è passato in cosa giudicata formale e sostanziale e non è opponibile al fallimento, neppure nell’ipotesi in cui il decreto ex art. 647 c.p.c. venga emesso successivamente, tenuto conto del fatto che, intervenuto il fallimento, ogni credito deve essere accertato nel concorso dei creditori ai sensi dell’art. 52 l. fall. (conf. Cass. n. 25191/2017, n. 1650/2014, n. 23202/2013, n. 28553/2011); sicché, alla luce del principio di accessorietà che connota l’ipoteca rispetto al credito garantito, il venir meno o, come nel caso di specie, l’inopponibilità (al fallimento) del titolo giudiziale che “consacra” il credito comporta anche il venir meno o l’inopponibilità dell’ipoteca costituita in forza di detto titolo giudiziale.

Ai fini della formazione dello stato passivo fallimentare, il quantum dell’ammissione del credito non può influire sul rango del credito medesimo.

I principi sono stati espressi nel giudizio di opposizione ex art. 98 l. fall. promosso dal creditore, nel caso di specie, una banca, avverso il decreto di esecutività dello stato passivo che aveva disposto l’ammissione del credito integralmente al chirografo. L’opponente, in particolare, chiedeva l’ammissione del credito in via ipotecaria, in forza di ipoteca giudiziale iscritta sulla scorta del decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo ottenuto nei confronti della società, poi fallita.

Sul punto il Tribunale, accertata l’inopponibilità al fallimento dell’ipoteca iscritta in forza di decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, ha rigettato l’opposizione, confermando l’ammissione del credito in via meramente chirografaria.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 28 aprile 2018 – Presidente relatore: Dott. Stefano Rosa

Deve ritenersi sussistente la legittimazione della società a responsabilità limitata ad esperire azione di responsabilità nei confronti degli amministratori ex art. 2476 c.c., in quanto l’attribuzione della predetta azione a ciascun socio, ai sensi dell’art. 2476, co. 3, c.c., non vale ad escludere l’interesse sociale alla pretesa risarcitoria.

La legittimazione de quo è tanto più sicura nel caso della responsabilità degli ex amministratori, ipotesi in cui la ratio ordinamentale non è tanto quella di attribuire un potere diffuso (a tutti i soci) di azione per eludere il conflitto di interessi proprio dei soci di maggioranza-amministratori, ma di ricostruire con precisione il fondamento ed il contenuto della pretesa risarcitoria nei confronti della pregressa gestione amministrativa, compito certamente più agevole per la nuova amministrazione che per il singolo socio.

Ai fini della responsabilità di cui all’art. 2476 c.c., la direzione societaria di cui agli artt. 2497 e ss. c.c., in linea di principio, non può costituire base di pretese risarcitorie da parte della società che quel controllo-direzione abbia esercitato.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso da una s.r.l. nei confronti degli ex amministratori e componenti del consiglio di amministrazione ai fini dell’accertamento della responsabilità dei medesimi ex art. 2476 c.c.

La causa petendi era costituita dall’aver i convenuti asseritamente dato corso a violazione di legge per aver omesso, nell’esercizio della loro carica, di approvare e depositare bilanci societari per un periodo di tempo determinato, di convocare l’annuale assemblea dei soci, di amministrare con diligenza, buona fede e la correttezza richiesta nella gestione del patrimonio altrui, di aver impedito il controllo da parte dei soci mediante l’adozione di “idonei artifici” e di aver garantito “sovrafatturazioni” da parte delle aziende direttamente intestate agli ex consiglieri per importi tali da annullare il finanziamento e quindi il patrimonio netto della società attrice.

A conforto del petitumrisarcitorio l’attrice rilevava che si era palesato inesigibile il finanziamento a suo tempo dalla stessa erogato ad una s.r.l. controllata, discendente dalla dichiarazione di fallimento della debitrice, impegnata in un’iniziativa immobiliare asseritamente minata dalla determinazione contrattuale di “corrispettivi fuori mercato” e “sovraffatturazioni” a favore delle società appaltatrici e subappaltatrici appartenenti agli amministratori convenuti. 

Sul punto il Tribunale, accertata la carenza dei presupposti ai fini dell’applicazione dell’art. 2476 c.c., ha rigettato le domande formulate dalla società attrice.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 23 marzo 2018 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott. Stefano Franchioni

Ove alla stipula di un contratto preliminare segua ad opera delle stesse parti la conclusione del contratto definitivo, quest’ultimo costituisce l’unica fonte dei diritti e delle obbligazioni inerenti al particolare negozio voluto, in quanto il contratto preliminare, determinando soltanto l’obbligo reciproco della stipulazione del contratto definitivo, resta superato da questo, la cui disciplina, con riguardo alle modalità e condizioni, anche se diversa da quella pattuita con il preliminare, configura un nuovo accordo intervenuto tra le parti e si presume sia l’unica regolamentazione del rapporto da esse voluta. La presunzione di conformità del nuovo accordo alla volontà delle parti può, nel silenzio del contratto definitivo, essere vinta soltanto dalla prova di un accordo posto in essere dalle stesse parti contemporaneamente alla stipula del definitivo dal quale risulti che altri obblighi o prestazioni, contenuti nel preliminare, sopravvivono al contratto definitivo (conf., ex multis, Cass. n. 30735/2017). Conseguentemente, non può trovare applicazione la clausola compromissoria contenuta nel contratto preliminare, laddove la stessa non sia prevista anche nel definitivo ovvero in altro separato accordo contestualmente concluso. 

La prescrizione quinquennale di cui all’art. 2949, co. 1, c.c. opera con riguardo ai diritti che scaturiscono dal rapporto societario, e cioè dalle relazioni che si istituiscono fra i soggetti dell’organizzazione sociale in dipendenza diretta dal contratto di società o che derivano dallo svolgimento della vita sociale, mentre ne restano esclusi tutti gli altri diritti che trovano la loro ragion d’essere negli ordinari rapporti giuridici che una società (o il singolo socio) può contrarre al pari di ogni altro soggetto (conf., ex multis, Cass. n. 21903/2013). Pertanto, soggiacciono al termine di prescrizione ordinario i rapporti giuridici aventi titolo nel contratto di cessione di partecipazione azionaria stipulato tra il singolo socio e il soggetto acquirente della partecipazione ceduta.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso dal curatore fallimentare nei confronti dei soci di una s.p.a., con cui il medesimo chiedeva: (i) da un lato, la declaratoria di nullità per violazione dell’art. 2358 c.c. del contratto preliminare di cessione delle azioni stipulato tra di essi, quali promittenti venditori, e la società poi fallita, quale promissaria acquirente, nonché dei successivi contratti di vendita e, (ii) dall’altro, la condanna dei convenuti alla restituzione di quanto da ognuno di essi incassato a titolo di prezzo per la cessione.

I convenuti si costituivano in giudizio eccependo, preliminarmente, l’incompetenza/difetto di giurisdizione del tribunale adito in ragione della clausola compromissoria contenuta nel contratto preliminare (e non prevista nei definitivi), nonché il decorso della prescrizione quinquennale ex art. 2949 c.c. delle domande di nullità dei predetti contratti.

Sul punto il Tribunale, rilevato che le somme chieste in restituzione erano state corrisposte in forza dei singoli contratti di cessione (produttivi dell’effetto traslativo), e non del contratto preliminare, accertata l’infondatezza delle eccezioni di carenza di giurisdizione/incompetenza del tribunale adito e di prescrizione dell’azione di nullità, ha rigettato le domande preliminari formulate da parte convenuta, disponendo, con separata ordinanza, la prosecuzione del giudizio.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 22 marzo 2018 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott.ssa Alessia Busato

La condotta del socio-amministratore di una s.r.l. che consista nell’abusivo esercizio del diritto di voto in assemblea – come, ad esempio, nel caso di ostruzionismo all’approvazione del bilancio d’esercizio – non configura un’ipotesi di responsabilità ex art. 2476 c.c., neppure con riferimento al comma 7 dell’articolo medesimo, dal momento che non costituisce un contributo intenzionale al compimento di un diverso atto gestorio dannoso per la società e dovendosi ritenere presupposto imprescindibile, per l’applicazione della norma in esame, la concorrente responsabilità degli amministratori nella causazione del danno eziologicamente riconducibile all’atto deciso o autorizzato dal socio stesso

La responsabilità dell’amministratore non è invocabile in ordine all’opportunità o meno delle scelte gestionali e della loro eventuale incidenza negativa sul patrimonio societario, dal momento che la sua configurabilità esige piuttosto la ricorrenza di un fatto illecito, ossia di un comportamento che integri la violazione di obblighi specifici, inerenti alla carica, o generali.

Ricorre la situazione di conflitto di interessi del socio allorquando lo stesso sia portatore di un interesse extrasociale – antitetico e incompatibile rispetto a quello societario – che non possa essere perseguito dal socio se non mediante il corrispondente sacrificio dell’interesse societario. Nel perseguire l’interesse extrasociale, poi, il voto del socio in conflitto deve essere determinante per l’approvazione della deliberazione anche solo potenzialmente dannosa per la società.

Decisione resa con riferimento all’azione di responsabilità esercitata dal socio-persona giuridica di una s.r.l. nei confronti di un socio-amministratore che, in forza di previsioni statutarie, aveva de facto un diritto di veto sulle deliberazioni e assembleari e gestorie.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)




Sentenza del 22 marzo 2018 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott. Davide Scaffidi

Gli unici limiti entro cui
l’ordinamento riconosce al socio di una s.r.l. la legittimazione a promuovere
un’azione di responsabilità nei confronti di un altro socio sono quelli
previsti dall’art. 2476 settimo comma c.c., secondo cui i soci della s.r.l.
sono solidalmente responsabili con gli amministratori qualora abbiano
intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la
società, i soci, i terzi, in tal modo ingerendo nell’amministrazione della
società.

La mancata approvazione dei
bilanci da parte del socio, quand’anche illegittima, non integra il diverso
presupposto previsto dall’ art 2476 c.c. dal momento che, pur essendo
suscettibile di arrecare un pregiudizio in via di fatto alla società, in realtà
non costituisce un contributo intenzionale al compimento di un diverso atto
gestorio dannoso per la società, dovendosi ritenere presupposto imprescindibile
ai fini della configurazione della responsabilità solidale del socio ex art.
2476 settimo comma c.c., la concorrente responsabilità degli amministratori
nella causazione del danno eziologicamente riconducibile all’atto deciso o
autorizzato dal socio stesso.

L’ordinamento predispone
quali meccanismi di tutela contro la violazione degli obblighi di correttezza e
di collaborazione del socio nell’ambito della partecipazione alla vita
assembleare del socio, l’esclusione dello stesso dalla compagine sociale, o, in
ipotesi estrema, lo scioglimento della società per impossibilità di
funzionamento dell’assemblea.

Ricorre una situazione di
conflitto di interessi del socio quando lo stesso sia portatore di un interesse
extrasociale – antitetico e incompatibile rispetto a quello societario – che
non possa essere perseguito dal socio se non mediante il corrispondente
sacrificio dell’interesse societario.

La responsabilità dell’amministratore non è invocabile in ordine
all’opportunità o meno delle scelte gestionali e della loro eventuale incidenza
negativa sul patrimonio societario, dal momento che la sua configurabilità
esige piuttosto la ricorrenza di un fatto illecito, ossia di un comportamento
che integri la violazione di obblighi specifici, inerenti alla carica, o
generali.

La omessa o ritardata sottoscrizione del verbale del consiglio di
amministrazione da parte di uno degli amministratori non determina alcuna
invalidità della delibera dell’organo gestorio, ma, al più, una mera
irregolarità del relativo processo verbale.

Principi
espressi in ipotesi di rigetto di un’azione, proposta
nei confronti di un amministratore e socio di
società, per ottenere l’accertamento e la condanna al risarcimento, ex art.
2476 c.c., dei danni asseritamente cagionati da plurime condotte negligenti ed
ostative, in relazione, in particolare, ad un esercizio del diritto di voto
abusivo, per conflitto di interessi, nella “forma” del diritto di veto
consentito dall’assetto statutario.

Nel dettaglio la curia bresciana ha affermato che l’esercizio
di veto da parte del socio nella delibera di approvazione dei bilanci, pur
essendo suscettibile di arrecare un pregiudizio in via di fatto alla società,
non configura la fattispecie
disciplinata dall’art 2476 settimo comma c.c, in quanto difetta
della concorrente responsabilità degli amministratori nella causazione del
danno eziologicamente riconducibile all’atto deciso o autorizzato dal socio
stesso.

I giudici, inoltre, hanno ritenuto
che la  proposta, peraltro non approvata,
di azzerare i compensi degli amministratori non integra una situazione
conflitto di interessi, quando tale scelta è dettata dalla sola opportunità di
scongiurare l’avvio di procedimenti di verifica fiscale  nei confronti della società.

Sul punto, è stato sottolineato che, in tema di conflitto di interessi socio/amministratore e di compensi dell’amministratore, deve essere specificatamente allegata l’effettiva consistenza dell’interesse extrasociale perseguito dal socio nonchè di quello societario compromesso, non potendosi limitatare ad un generico risparmio di spesa causato dalla forte contrazione delle vendite  o da difficoltà di tipo fiscale.

(Massima
a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza del 19 marzo 2018, n. 840 – Giudice designato: dott. Stefano Rosa

In tema di successione nei contratti aziendali, è onere di chi invochi gli effetti “automatici” dell’art. 2558 c.c. comprovarne i presupposti e cioè che sia effettivamente intervenuta una cessione di azienda o di un ramo di azienda, secondo la definizione dell’art. 2555 c.c. A tal fine, alla pluralità di beni (ceduti) deve accompagnarsi il requisito dell’organizzazione attuale e non solo futura (conf. Cass. n. 21481/2009), sicché non può essere decisiva la astratta e statica idoneità del complesso di beni ad essere (divenire) azienda.

In particolare, ai fini dell’accertamento del subentroex legedel cessionario (del ramo) di azienda nel contratto di leasingfinanziario immobiliare, deve essere provata l’appartenenza del rapporto contrattuale ad una azienda di effettiva operatività (attuale, pregressa o potenziale) in capo al titolare (cedente), essendo presupposto dell’art. 2558 c.c. non il mero godimento del bene in leasing, ma il suo inserimento nella dinamica di impresa; né potrebbe, infatti, il contraente ceduto subire gli effetti propri della predetta norma esclusivamente sulla base della mera declamazione (ad opera delle parti dell’atto di cessione) dell’esistenza di un ramo aziendale e dell’appartenenza del bene oggetto del contratto di locazione a tale ramo, ovvero sulla base della mera intenzione del cessionario di utilizzare in modo produttivo gli immobili (e rapporti contrattuali di godimento) conferiti.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso dalla società Alfa s.r.l. (cessionaria del ramo di azienda) nei confronti della società Beta s.p.a. (società di leasing) al fine di ottenere: (i) l’accertamento del proprio subentro ex lege nel contratto di leasingimmobiliare originariamente sottoscritto da Gamma s.r.l. (cedente, poi fallita); (ii) la condanna della società di leasingalla restituzione, in proprio favore, dell’imposta indebitamente riscossa o, in alternativa, il risarcimento del danno provocato dall’errore nella riscossione; (iii) il ricomputo del debito residuo e dei canoni di locazione inesattamente determinati; (iv) la restituzione dell’interesse versato con riferimento ad una rata del canone di locazione, ritenuto usurario.

Le istanze dell’attrice, in particolare, fondavano sull’asserito trasferimento, in suo favore, del contratto di locazione finanziaria immobiliare (originariamente sottoscritto da Gamma, cedente) per effetto di cessione del ramo di azienda da parte di Gamma s.r.l. (poi fallita): trasferimento contestato dalla convenuta Beta (società di leasing), che si era sempre rifiutata di volturare il contratto nonostante la percezione dei canoni da parte dell’attrice Alfa s.r.l.

Le ulteriori domande presupponevano la previa declaratoria giudiziale del subentro di Alfa nel rapporto di leasing immobiliare originariamente costituito tra Beta e Gamma.

Il Tribunale, accertata l’insussistenza dei presupposti necessari ai fini dell’applicazione dell’art. 2558 c.c., ha rigettato le domande proposte dall’attrice.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Decreto del 27 febbraio 2018 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott.ssa Angelina Augusta Baldissera

È ammissibile la domanda di omologa dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, ex artt. 182-bis e 182-septies l.f., quando il piano prevede che i creditori vengano soddisfatti non mediante la liquidazione dell’attivo patrimoniale – in larga parte formato da immobili – ma esclusivamente mediante le disponibilità liquide già esistenti presso le casse sociali e l’apporto di finanza esterna da parte dei soci.

E’ possibile estendere, ex art. 182-septies l.f., gli effetti dell’accordo di ristrutturazione dei debiti ad una banca non aderente qualora siano ravvisabili i presupposti quantitativi di cui ai commi 1 e 2 di tale norma, posto che: i) il ceto creditorio della società debitrice è rappresentato per la quasi totalità da banche e quelle aderenti rappresentano oltre la metà dei crediti della categoria; ii) sussistono posizioni giuridiche e interessi economici omogenei, considerata la natura chirografaria dei crediti delle banche interessate; iii) risulta verificata dall’attestatore l’insussistenza di alternative concretamente praticabili più favorevoli in caso di liquidazione del patrimonio della società debitrice; iv) sono state documentate le trattative intercorse fra la società debitrice e il ceto creditorio.

Principi espressi in ipotesi di accoglimento della domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti, della quale il Tribunale ha ritenuto sussistenti i presupposti di legge in assenza di opposizioni da parte degli interessati.

(Massima a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Ordinanza del 5 febbraio 2018 – Presidente relatore: dott. Stefano Rosa

In tema di concorrenza sleale, ai fini della concessione della misura cautelare dell’inibitoria a seguito di descrizione, appare incoerente rispetto alla ratiodell’istituto, che risponde ad una logica di prevenzione del danno o del maggior danno, pretendere la compiuta attuazione di un programma di sviamento e storno di clientela e collaboratori quale presupposto della misura, risultando sufficiente l’acquisizione, in sede di descrizione, di consistenti indizi circa la natura potenzialmente non lecita dell’attività svolta dal soggetto contro il quale la predetta misura sia richiesta. 

Nel caso di specie, in particolare, in sede di descrizione erano state rinvenute numerose e-mail ad oggetto lavorativo sul telefono cellulare dell’amministratore (di fatto) della società contro cui la misura era stata richiesta, ritenendosi pertanto che il carattere personale del mezzo informatico adoperato per i contatti commerciali e l’occultamento della (inequivoca) qualità di amministratore (di fatto) deponessero per una occulta utilizzazione di dati commerciali pertinenti alla società ricorrente in sede cautelare, intesa a determinare una più agevole collocazione sul mercato della concorrente di nuova costituzione (contro cui la misura era stata chiesta).

Il principio è stato espresso nel giudizio di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. promosso da una s.r.l.s. (reclamante) nei confronti di una s.r.l. (reclamata) avverso l’ordinanza cautelare che aveva inibito alla reclamante e all’amministratore (di fatto) della medesima società di intrattenere rapporti commerciali, per un periodo di tempo determinato, con taluni clienti ed intermediari della reclamata.

La reclamante, in particolare, chiedeva la revoca dell’ordinanza impugnata o comunque la riduzione del periodo di divieto, affermando la sostanziale inettitudine della documentazione acquisita in sede di descrizione a comprovare un’attività illecita – sul piano concorrenziale – ad essa imputabile.

Sul punto il Tribunale, ritenuta la descrizione quale momento di presumibile interruzione dell’attività illecita (sul piano concorrenziale), in parziale riforma dell’ordinanza impugnata, ha parzialmente accolto il reclamo disponendo la riduzione del periodo di divieto.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Decreto del 12 gennaio 2018 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott.ssa Angelina Augusta Baldissera

Nell’ambito di un accordo di ristrutturazione dei debiti di cui alla l. 3/2012, mutuando i principi elaborati in materia di concordato preventivo, al quale sembra avvicinarsi detta procedura, è da ritenersi inammissibile una proposta che escluda in radice un soddisfacimento, sia pure minimo, dei creditori chirografari, posto che l’art. 8, 1° co., l. 3/2012 dispone che la proposta di accordo debba prevedere “la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti”.

Principio espresso in sede di rigetto del reclamo proposto, ai sensi dell’art. 10, ult. co., l. 3/2012, avverso il decreto che aveva dichiarato l’inammissibilità di una proposta di accordo di ristrutturazione dei debiti in quanto non prevedeva alcun pagamento per i creditori chirografari.

Decr. 12.1.2018

(Massima a cura di Sara Pietra Rossi)