Sentenza del 7 giugno 2019 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott. Lorenzo Lentini

Ai fini del riconoscimento della responsabilità degli amministratori di società di capitali, poi fallita, per l’aggravamento del dissesto patrimoniale in conseguenza dell’omessa adozione dei provvedimenti di cui all’art. 2482-ter c.c., l’operazione sociale “nuova”, ossia incompatibile con un’opera di “mero completamento”, che abbia portata quantitativamente e qualitativamente rilevante, deve considerarsi estranea alla prospettiva liquidatoria, in quanto non funzionale alla liquidazione del patrimonio sociale, sicché l’eventuale pregiudizio che possa derivarne in capo alla società e ai creditori sociali deve ritenersi causalmente e soggettivamente imputabile agli amministratori.

Ai fini dell’accertamento della responsabilità degli amministratori per condotte distrattive, deve ritenersi rilevante l’operazione che sia connotata da significativi indici di anomalia, quali, esemplarmente, la complessità dell’operazione sul piano soggettivo, la modalità di pagamento (nel caso di specie, tramite “partite di giro contabili”, senza movimentazioni finanziarie) e il momento di conclusione dell’operazione, successivo al deposito della domanda di ammissione al concordato preventivo. D’altra parte, una fattispecie distrattiva non sanzionabile penalmente può nondimeno rilevare sotto il profilo delle conseguenze civili nell’ambito delle quali la negligenza e l’imprudenza costituiscono atteggiamenti soggettivi sufficienti a radicare la responsabilità dell’amministratore.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso dalla curatela fallimentare di una società a responsabilità limitata nei confronti degli amministratori in conseguenza: (i) della mancata adozione delle misure previste dalla legge agli artt. 2482-bis e 2482-ter c.c. in ipotesi di perdita del capitale sociale; (ii) della prosecuzione dell’attività aziendale nonostante la perdita del capitale sociale; (iii) di condotte distrattive, quali la distrazione di cespiti aziendali presenti nell’inventario e non rinvenuti e la cessione di un credito Iva a favore del socio di maggioranza senza contropartita alcuna; (iv) dell’errata tenuta delle scritture contabili.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 7 giugno 2019 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott. Lorenzo Lentini

Nel giudizio promosso dal socio in opposizione alla delibera di esclusione della società, quest’ultima assume veste sostanziale di parte istante per la risoluzione del rapporto ed è, per l’effetto, tenuta a provare il fatto specifico in base al quale risulti adottata quella deliberazione, senza poter invocare in giudizio, a sostegno della legittimità della medesima, fatti distinti e diversi, ancorché potenzialmente idonei a giustificare l’interruzione del rapporto societario (conf. Trib. Milano 15.03.2017).

La deliberazione di esclusione del socio di società cooperativa deve rispondere ai canoni dell’autonomia e della completezza, nel senso che dal suo contenuto devono emergere i fatti specifici oggetto dell’addebito. La delibera di esclusione di un socio di società cooperativa, per le gravi conseguenze che ne derivano e che investono la stessa qualità di socio, richiede chiarezza e, in particolare, la precisa enunciazione dei fatti addebitabili a fondamento dell’esclusione. Pertanto, il provvedimento deve essere univoco ed autonomo, senza che sia necessario un collegamento con elementi desumibili in altro modo (conf. Trib. Roma 26.01.2018; conf. Cass. n. 4402/2017 e n. 22097/2013).

In ipotesi di opposizione del socio di società cooperativa avverso la deliberazione di esclusione, trattandosi di delibera che incide sui diritti individuali del socio medesimo, il rimedio applicabile è l’annullamento.

I principi sono stati espressi nel giudizio di opposizione promosso, ai sensi dell’art. 2533 c.c., dal socio di società cooperativa avverso la deliberazione di esclusione adottata dal consiglio di amministrazione della società medesima.

Al riguardo, il socio escluso deduceva la nullità delle comunicazioni pervenutegli in quanto generiche e prive di qualsivoglia riferimento agli addebiti oggetto di contestazione.

Inoltre, l’attore lamentava l’invalidità della deliberazione in quanto il provvedimento di esclusione sarebbe stato adottato sulla base di motivazioni infondate.

Sul punto il Tribunale, in accoglimento dell’opposizione, ha annullato la deliberazione consiliare nella parte in cui disponeva l’esclusione del socio.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 5 giugno 2019 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Alessia Busato

Ai fini del riconoscimento degli onorari professionali del Collegio Sindacale, per quanto attiene la quantificazione dei compensi in assenza di riconoscimento per la mancata loro iscrizione nel libro giornale, occorre fare riferimento all’art. 37 D.M. 2 settembre 2010 n. 169.

Gli onorari professionali del Collegio Sindacale, nel caso di maggiore o minore durata dell’esercizio sociale o di nomina in corso d’esercizio, sono determinati in funzione del tempo di permanenza nella carica.

Principi espressi in ipotesi di accoglimento della richiesta di liquidazione dei compensi professionali per l’attività di revisione contabile svolta dal Collegio Sindacale. 

In particolare, il Tribunale, accertata l’avvenuta nomina del collegio nella assemblea ordinaria della S.r.l., ha affermato che per la quantificazione dei compensi professionali, in assenza di un riconoscimento per la mancata loro iscrizione nel libro giornale, occorre fare riferimento ai parametri stabiliti dall’art. 37 D.M. 2 settembre 2010 n. 169, che prevede che al professionista, che svolge la funzione di sindaco, spettano onorari specifici per le attività di cui agli artt. 2403 e 2404 c.c. nonché per la redazione della relazione di bilancio dell’esercizio precedente e per il rilascio di valutazioni, pareri e relazioni.

(Massima a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza del 3 giugno 2019 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott.ssa Alessia Busato

Deve intendersi revocata implicitamente una deliberazione impugnata da un socio per esser stata assunta in conflitto di interessi ovvero con abuso della maggioranza allorquando la società provveda ad assumere una successiva deliberazione che, in ragione del suo contenuto, sia incompatibile con la precedente.

Decisione resa con riferimento ad una delibera assembleare che approvava la stipulazione di un nuovo contratto di locazione avente ad oggetto un immobile di pregio di proprietà della società: questo sarebbe stato condotto da altra società nella quale i soci espressione della concreta maggioranza assembleare avevano interessi in conflitto con la società proprietaria dell’immobile. Successivamente, l’assemblea dei soci della società titolare dell’immobile dato in locazione assumeva una nuova deliberazione assembleare determinando nuovi – e più vantaggiosi – criteri per la stipula del contratto di locazione.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)




Decreto del 30 maggio 2019 – Presidente: dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice relatore: dott. Stefano Franchioni

Deve essere considerato amministratore di fatto colui che, privo della corrispondente investitura formale, si sia ingerito nella gestione della società,  impartendo direttive e condizionandone le scelte operative, qualora tale ingerenza riveli carattere di sistematicità e completezza e non si esaurisca nel compimento di atti eterogenei ed occasionali (conf. Cass. 1.3.2016, n. 4045).

Qualora si accerti la natura simulata del contratto di lavoro subordinato concluso fra l’amministratore di fatto e la società poi fallita, va rigettata la domanda del primo di ammissione al passivo, in via privilegiata ex art. 2751-bis n. 1 c.c., del credito per retribuzioni non percepite e t.f.r.

Principi espressi in un’ipotesi di rigetto di opposizione allo stato passivo nella quale il Tribunale ha negato l’ammissione al passivo, in via privilegiata ex art. 2751-bis n. 1 c.c., del credito per retribuzioni non percepite e t.f.r. vantato dal ricorrente, che sosteneva di aver lavorato come dipendente a tempo indeterminato presso la società, poi fallita. 

Dalle prove testimoniali era emerso infatti che la società fallita e il ricorrente avevano simulato la costituzione di un rapporto di lavoro dipendente, avendo quest’ultimo ricoperto fino alla data della dichiarazione di fallimento il ruolo di amministratore (unico) di fatto della società, ingerendosi nei rapporti con i clienti, i fornitori, i professionisti e con gli istituti di credito; adottando autonomamente decisioni sui prezzi e sugli sconti da applicare e nelle relazioni con il personale; provvedendo alla gestione del magazzino ed al controllo sulla contabilità sociale.

(Massima a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza del 22 maggio 2019 – Presidente: dott.ssa Alessia Busato – Giudice relatore: dott. Davide Scaffidi

L’inadempimento degli obblighi gestionali posti in capo agli amministratori di una società di capitali può avere ad oggetto lo svolgimento dell’attività gestionale o di parte di essa, ossia ben può riferirsi ad una serie coordinata di atti legati tra loro da una funzione unitaria. Pertanto, anche la violazione del dovere di tenere la contabilità, in determinate circostanze, non può essere considerata avulsa da altri comportamenti illeciti, i quali per l’appunto hanno materialmente prodotto l’evento dannoso; in questa prospettiva, la violazione inerente la contabilità sociale assume una connotazione strumentale rispetto ad atti illeciti pregiudizievoli nel senso che la scorretta o mancata redazione contabile risulta funzionale ad occultare gli atti dannosi di mala gestio.

Sotto il profilo dell’onere probatorio, non si può pretendere dalla parte che si lamenta del danno subito per inadempimento degli obblighi gestionali di rappresentare compiutamente in giudizio avvenimenti gestionali di cui non ha – né può avere avuto – conoscenza a causa di un’attività di occultamento riconducibile agli amministratori. Diversamente ragionando, si finirebbe per attribuire indebitamente un valore esimente alla circostanza della mancata predisposizione di scritture contabili, imputabile a quegli amministratori che con la loro condotta omissiva hanno di fatto ostacolato una più agevole ricostruzione del nesso eziologico tra comportamento commissivo illecito e pregiudizio effettivamente subito arrecato a società e creditori sociali.

Gli obblighi di provvedere alla regolare tenuta delle scritture contabili e di attivarsi, in caso di riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale, per l’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 2482-bis c.c. incombe su ciascuno dei membri dell’organo gestorio, se plurisoggettivo, i quali sono tenuti ad adempiere indipendentemente dall’eventuale assetto di deleghe adottato all’interno della società. La loro responsabilità deve poi parametrarsi, in via equitativa, sulla base della durata dell’incarico, tenuto conto della composizione dell’organo amministrativo nel tempo e assumendo che il pregiudizio si sia prodotto in misura costante nell’intero arco temporale.

Emerge dal bilancio una serie di dati e valori incongruenti tra loro ma anche – e soprattutto – incongruenti quanto al rapporto tra le voci riportate e l’attività d’impresa svolta dalla società. Pertanto, la Corte è stata chiamata – su impulso della curatela – a stabilire se vi fossero le condizioni per dichiarare responsabili per mala gestio i vari membri dell’organo gestorio della società fallita succedutisi nel tempo e, così, mantenere l’efficacia del sequestro cautelare e conservativo disposto nei loro confronti.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)




Sentenza del 3 maggio 2019 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott.ssa Alessia Busato

Con riferimento ad un patto di non concorrenza che veda, tra le condizioni, la limitazione del ricorso a precisi strumenti software per l’esercizio di una data attività d’impresa, le differenze nelle caratteristiche funzionali e tecniche di software pur simili sono sufficienti a non integrare la fattispecie dedotta in contratto.

La disciplina di cui all’art. 2557 c.c. – che pur si applica in ipotesi formalmente diverse dalla cessione di azienda ma col medesimo effetto sostanziale come, ad esempio, la cessione di rilevanti partecipazioni sociali – non trova applicazione nel caso di espressa regolamentazione pattizia del divieto di concorrenza, atteso che si tratta di norma non servente un interesse pubblico e, pertanto, suscettibile di deroga da parte dei privati nell’esplicazione della loro autonomia negoziale.

La prospettazione di una condotta illecita allegando, quali presupposti, elementi inconferenti o delineati in modo assolutamente generico o addirittura non delineati costituisce quell’abuso del diritto di agire che, determinando uno sviamento del sistema giurisdizionale dai suoi fini istituzionali ed un ingiustificato aumento del contenzioso che ostacolano la ragionevole durata dei processi pendenti e il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione, autorizza l’applicazione dell’art. 96 c.p.c.

Un socio di s.r.l., fuoriuscendo dalla compagine sociale, stipulava un patto di non concorrenza di durata infraquinquennale con la società medesima. Ricorre poi a strumenti tecnici simili a quelli utilizzati dalla società da cui è fuoriuscito per intraprendere attività d’impresa avente il medesimo oggetto, con l’ausilio di alcuni soggetti che già avevano collaborato con la medesima società.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)




Sentenza del 2 maggio 2019 – Presidente: dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice relatore: dott.ssa Angelina Augusta Baldissera

Ai fini del riconoscimento del privilegio di cui all’articolo 2751-bis, n. 2, del codice covile, occorre accertare non se il professionista richiedente abbia o meno organizzato la propria attività in forma associativa, ma se il cliente abbia conferito l’incarico dal quale deriva il credito a lui personalmente ovvero all’entità collettiva, qualificando il credito come privilegiato nel secondo caso, ammettendolo al chirografo nel primo.

Principio espresso nel contesto dell’ammissione allo stato passivo ex art. 101 l.f. nell’ambito di una procedura fallimentare.

(Massima a cura di Giovanni Gitti)




Sentenza del 5 aprile 2019 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott. Lorenzo Lentini

Stante il disposto dell’art. 99, co. 1, c.p.i. che fa salva la disciplina della concorrenza sleale, l’insussistenza dei requisiti per accordare al know-how la tutela offerta dal c.p.i. non fa venire meno l’applicabilità dei principi generali in tema di concorrenza sleale, dovendosi ritenere condotta contraria ai principi della correttezza tra imprenditori lo sfruttamento abusivo di altrui informazioni tecniche o commerciali, aventi carattere riservato (sia pure non “segreto”) e apprezzabile valore economico, di cui l’imprenditore sia venuto in possesso per circostanze fortuite (nel caso di specie, l’esistenza di una passata trattativa tra la società attrice ed un cliente della società convenuta aveva consentito a quest’ultimo di trattenere indebitamente disegni, progetti e altro materiale tecnico, rientrante nella esclusiva titolarità di parte attrice, e di metterlo a disposizione di un diverso “fornitore”, ovvero la società convenuta, al fine di ottenere condizioni commerciali più competitive).

In mercati caratterizzati dalla realizzazione di commesse sulla base di progetti condivisi dal committente e dalla particolare qualificazione dei soggetti che vi operano, l’imitazione di “aspetti esteriori” non è idonea a costituire un illecito confusorio laddove il profilo estetico degli impianti realizzati non rivesta carattere centrale nell’aggiudicazione degli appalti e non sia elemento tale da generare vantaggi competitivi, né rischi di confusione in capo ai fruitori, essendo questi in grado di distinguere i prodotti forniti e i servizi resi dai diversi operatori del mercato in questione. 

L’indebito utilizzo di informazioni riservate tecniche altrui integra la fattispecie “generale” di cui all’art. 2598, n. 3), c.c., sicché deve ritenersi escluso che tale condotta possa integrare altresì l’attività di appropriazione di pregi di cui all’art. 2598, n. 2), c.c.

Non può trovare accoglimento la domanda di risarcimento del danno derivante da atti di concorrenza sleale laddove il danno sofferto in conseguenza della condotta avversaria non risulti provato. In particolare, in ipotesi in cui l’agente lamenti un pregiudizio da ricondurre alla categoria della “perdita di chance”, incombe su quest’ultimo l’onere di provare la sussistenza di elementi oggettivi e certi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità e non di mera potenzialità, l’esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile (conf. Cass. n. 15385/2011).

Deve ritenersi infondata la domanda di tutela di cui all’art. 99 l.d.a. in difetto dei presupposti di applicazione della suddetta norma, presupponendo la medesima il carattere di originalità del progetto ingegneristico (conf. Trib. Milano 31.05.2016). In ogni caso, l’esercizio del diritto all’equo compenso è altresì condizionato alla previa esecuzione degli adempimenti di cui all’art. 99, co. 2, l.d.a., sicché in caso di mancata esecuzione la domanda deve ritenersi infondata anche alla luce del disposto di cui all’art. 11 del regolamento per l’esecuzione della l.d.a.

Allorché ad una consulenza tecnica d’ufficio siano mosse critiche puntuali e dettagliate da un consulente di parte, il giudice che intenda disattenderle ha l’obbligo di indicare nella motivazione della sentenza le ragioni di tale scelta, senza che possa limitarsi a richiamare acriticamente le conclusioni del proprio consulente, ove questi a sua volta non si sia fatto carico di esaminare e confutare i rilievi di parte (conf. Cass. n. 23637/2016). Argomentando a contrariosi ricava che laddove il C.T.U. abbia esaminato i rilievi mossi dai consulenti di parte e replicato puntualmente, non sussiste in capo al tribunale l’onere di motivazione sul punto, onere già compiutamente assolto dal perito.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso nei confronti della concorrente s.n.c., ai fini dell’accertamento degli illeciti di concorrenza sleale ex art. 2598, nn. 1), 2) e 3), c.c. e della violazione dei diritti autorali connessi di cui all’art. 99 l.d.a.; per l’effetto, l’attore chiedeva: (i) di inibire la prosecuzione degli illeciti eventualmente accertati ai sensi degli artt. 2599 c.c., 99 l.d.a. e 156 l.d.a.; (ii) di ordinare la restituzione di documenti contenenti informazioni riservate e di inibirne qualunque utilizzo futuro; (iii) il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti; (iv) la pubblicazione della sentenza; (v) la fissazione di una penale per ciascuna violazione.

Al riguardo, l’attrice lamentava: (i) l’indebito sfruttamento di dati tecnico-commerciali di sua proprietà trasmessi in forma riservata e in sede precontrattuale ad alcuni potenziali clienti, che li avevano successivamente messi a disposizione della società convenuta; (ii) la realizzazione di impianti con identiche caratteristiche di lay-out ossia estetiche e non necessariamente tecniche; (iii) l’appropriazione di pregi.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 5 aprile 2019 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott.ssa Alessia Busato

Non può applicarsi analogicamente alle società a responsabilità limitata la disciplina del recesso previsto per le società per azioni nella parte in cui si prevede un termine per l’approvazione della deliberazione di scioglimento della società, la quale impedisce al socio che abbia diritto di recedere di farlo e, ove abbia già esercitato il diritto, rende inefficace lo stesso.

Pertanto, il termine per deliberare lo scioglimento della società di cui all’art. 2437 co. 4 c.c. è libero, potendo la società in qualunque momento assumere questa decisione, pur rimanendo possibile per il socio recedente impugnare tale delibera per abuso di potere.

La Corte si è pronunciato sul caso dell’esercizio del diritto di recesso per causa statutaria, in seguito al quale – e prima della liquidazione del valore della partecipazione del socio recedente – la società ha alienato un immobile di sua proprietà, così diminuendo la consistenza patrimoniale utile per liquidare la quota del socio recedente.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)