Sentenza del 30 novembre 2018 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott. Lorenzo Lentini

Il rimedio della nullità in ambito societario, con particolare riferimento alle impugnative di deliberazioni assembleari aventi un oggetto asseritamente illecito, è volto alla tutela di interessi generali, sicché esso non può trovare applicazione laddove il socio lamenti, in concreto, la violazione di norme poste a tutela dell’interesse del singolo azionista non sussumibili in alcuno dei motivi di nullità tassativamente previsti (conf. Cass. n. 1624/2015 e Cass. n. 26842/2008).

In caso di domanda di annullamento di deliberazioni assembleari da parte del socio di società per azioni quotata, ai fini della dimostrazione della relativa legittimazione, non risulta sufficiente la produzione, da parte di quest’ultimo, di un estratto conto corrente bancario, dovendo il medesimo produrre la necessaria attestazione dell’intermediario abilitato exart. 83-quinquies d.lgs. n. 58/1998.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso dal socio di società per azioni ai fini della dichiarazione di nullità delle deliberazioni adottate dell’assemblea speciale degli azionisti di risparmio e dall’assemblea straordinaria degli azionisti ordinari con cui la società aveva disposto la conversione in misura non paritaria di azioni di risparmio in azioni ordinarie.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 27 novembre 2018 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

In tema di storno di dipendenti la concorrenza illecita non può in alcun caso derivare soltanto dalla mera constatazione di un passaggio di collaboratori da un’impresa ad un’altra concorrente, né dalla contrattazione intrattenuta con il collaboratore di un concorrente. Lo storno infatti non costituisce di per sé concorrenza sleale, sempre che non sia stato attuato con l’intenzione di danneggiare l’altrui azienda in misura che ecceda il normale pregiudizio che ad ogni imprenditore può derivare dalla perdita di dipendenti che scelgono di lavorare presso altra impresa. L’illiceità della concorrenza deve essere desunta dall’obiettivo, che l’imprenditore concorrente si proponga attraverso il passaggio di personale, di vanificare lo sforzo di investimento del suo antagonista ed a tal fine è necessaria la sussistenza del c.d. “animus nocendi”, nel senso che il reclutamento di personale dipendente dell’imprenditore concorrente si connota di intenzionale slealtà soltanto quando esso venga attuato con modalità abnormi per il numero o la qualità dei prestatori d’opera distolti ed assunti, così da superare i limiti di tollerabilità del reclutamento medesimo che, nella sua normale estrinsecazione, è del tutto lecito. Non basta infatti che l’atto in questione sia diretto a conquistare lo spazio di mercato del concorrente, anche attraverso l’acquisizione dei migliori collaboratori, ma è necessario che sia diretto a privarlo del frutto del “suo” investimento (conf. Cass. n. 5671/1998).

L’indagine sulla sussistenza del requisito dell’animus nocendi va condotta su di un piano puramente oggettivo, potendo esso essere desunto dalle circostanze di fatto nelle quali lo storno è avvenuto, dai mezzi utilizzati e dalle modalità di reclutamento dei dipendenti stornati, valutando altresì effetti potenzialmente “destrutturanti” sull’altrui organizzazione aziendale e la conseguente parassitaria sottrazione di avviamento,  Lo storno è illecito, dunque, soltanto ove risulti provato che l’assunzione del dipendente altrui sia motivata esclusivamente dal fine di danneggiare l’altrui azienda e non anche quando il concorrente tenda ad ottenere per sé la prestazione di lavoro dell’altrui dipendente, il che sarebbe lecito nel rispetto del principio della libera circolazione del lavoro (conf. Trib. Milano 01.02.2016 e Trib. Torino 05.01.2006).    

In tema di concorrenza sleale, la pratica di prezzi sottocosto non può considerarsi di per sé connotata da profili di illiceità, ben potendo inerire a una temporanea e razionale politica di aggressione del mercato, e ciò in quanto la libera concorrenza poggia proprio su iniziative quali l’avvicinamento di clienti altrui e la formulazione di proposte migliorative, anche se molto competitive.

Deve ritenersi esclusa la possibilità di riconoscere la responsabilità contrattuale da inadempimento derivante dalla violazione del patto di non concorrenza in capo all’impresa presso cui il soggetto (vincolato dal patto) abbia iniziato a prestare la propria opera lavorativa (asseritamente in violazione del predetto patto di non concorrenza), non essendo la medesima parte del contratto.

L’assenza di elementi di antigiuridicità delle condotte asseritamente concorrenziali esclude la possibilità di accoglimento della domanda di risarcimento del danno all’immagine o alla reputazione formulate dal preteso danneggiato. 

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso da una società per azioni nei confronti della concorrente, nonché nei confronti dell’ex dipendente, al fine di ottenere il ristoro: (i) del danno commerciale correlato alla diminuzione del fatturato; (ii) del danno da inadempimento contrattuale con riferimento alla violazione del patto di non concorrenza (concluso con l’ex dipendente) da parte della società convenuta; (iii) del danno al nome, all’immagine e alla reputazione commerciale.

Al riguardo, l’attrice deduceva atti di concorrenza sleale da parte della società convenuta e segnatamente: (i) la presa di contatti con un proprio cliente “storico” e la proposta di vendita di prodotti concorrenti ad un prezzo inferiore, sfruttando informazioni in possesso dell’ex dipendente (quali, il listino prezzi); (ii) la presa di contatti con propri ex agenti e l’offerta di prodotti concorrenti ad un prezzo inferiore; (iii) la presa di contatti con un proprio agente e la proposta di avvio di un rapporto di collaborazione; (iv) la presa di contatti con propri fornitori per l’acquisto di prodotti già commercializzati dalla stessa attrice.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza del 27 novembre 2018 – Presidente: dott. Raffaele del Porto – Giudice relatore: dott.ssa Angelica Castellani

Nell’ipotesi in cui sia domandato il sequestro giudiziario della quota di una s.r.l. (nel caso concreto il 50% di essa) nel corso di una causa volta all’accertamento della nullità o dell’inefficacia della sua cessione, in quanto avvenuta in violazione della clausola statutaria di prelazione, con conseguente domanda di trasferimento della quota stessa ex art. 2932 c.c., non può ritenersi esistente il requisito del fumus boni iuris. La violazione da parte del socio di una s.r.l. della clausola statutaria che contempli il diritto di prelazione degli altri soci per le ipotesi di cessione, totale o parziale, della quota non comporta la nullità del trasferimento avvenuto in violazione di tale patto e nemmeno il diritto del socio pretermesso di riscattare presso il cessionario la quota oggetto di trasferimento. Tale violazione genera, infatti, l’inefficacia della cessione, dalla quale non discende il diritto di riscatto, essendo quest’ultimo un rimedio eccezionale, non suscettibile di applicazione oltre i casi espressamente previsti dalla legge e non estendibile alla prelazione societaria avente natura convenzionale e non legale (conf. Cass. n. 24559/2015 e n. 12370/2014). In tal caso, gli unici rimedi ammissibili sono la tutela risarcitoria, che può essere accordata al socio pretermesso secondo le regole generali in materia di inadempimento delle obbligazioni, e la facoltà della società partecipata di negare all’acquirente l’iscrizione nel libro soci, posto che l’osservanza del meccanismo della prelazione costituisce condizione per l’efficace acquisto della qualità di socio.

Principi espressi in accoglimento del reclamo avverso l’ordinanza cautelare che in corso di causa aveva concesso il sequestro giudiziario della metà di una quota di s.r.l. oggetto di controversia a seguito di cessione avvenuta in violazione del diritto di prelazione previsto dallo statuto sociale.

Ord. 27.11.2018

(Massima a cura di Sara Pietra Rossi)




Ordinanza del 30 ottobre 2018 – Giudice designato: dott. Raffaele Del Porto

In tema di sequestro conservativo, deve ritenersi sussistente il requisito del fumus boni iuris laddove l’amministratore “di diritto” di una società a responsabilità limitata (poi fallita) abbia ceduto, dopo la perdita del capitale sociale e la cessazione, di fatto, dell’attività d’impresa, un ramo d’azienda, con trasferimento all’acquirente della parte più significativa dell’attivo sociale, a fronte di un corrispettivo “irrisorio”, senza acquisire, al contempo, adeguate garanzie quanto all’effettivo pagamento dei debiti inerenti il ramo d’azienda ceduto. In tal caso il danno può essere quantificato in misura pari all’ammontare di tali debiti non pagati dall’acquirente ed ammessi al passivo del fallimento dell’alienante.

La mera partecipazione di un soggetto alla stipula di un atto, in ipotesi, alla cessione di un ramo d’azienda, non può, per il suo carattere isolato, costituire prova idonea di quella condotta reiterata che, per giurisprudenza costante, è necessaria per la configurabilità del ruolo di amministratore di fatto.

(Conforme a Cass. n. 4045/2016).

Ai fini della concessione del sequestro conservativo, il fumus della responsabilità dell’amministratore “di fatto” di società di capitali non può essere ricavato da generiche allegazioni della curatela relative a violazioni di carattere formale (quale, esemplarmente, l’omessa tenuta di contabilità adeguata), qualora non siano dedotte eventuali conseguenze lesive, legate alle prime da idoneo nesso causale.

Il requisito del periculum in mora può essere desunto anche da elementi oggettivi, rappresentati dall’elevata entità del credito vantato dal ricorrente in rapporto alla consistenza patrimoniale del debitore, nella specie neppure conoscibile sulla base di informazioni attendibili.

 Principi espressi in ipotesi di parziale riforma del provvedimento, concesso inaudita altera parte, che aveva autorizzato il sequestro conservativo nei confronti dell’amministratore “di diritto” e dell’amministratore “di fatto” di s.r.l. fallita, a fronte dell’accertamento della responsabilità risarcitoria di questi ultimi per il danno patito dalla società (poi fallita), causalmente collegato alla (specifica) condotta negligente consistente nell’aver ceduto un ramo d’azienda, con trasferimento all’acquirente della parte più significativa dell’attivo sociale, senza aver acquisito adeguate garanzie quanto all’effettivo pagamento dei debiti inerenti il ramo d’azienda ceduto.

Nella specie, il decreto concesso inaudita altera parte è stato riformato, nella parte in cui aveva autorizzato il sequestro conservativo ai danni dell’amministratore “di diritto”, limitatamente all’importo fino a concorrenza del quale tale misura cautelare è stata concessa, mentre è stato revocato nella parte in cui aveva autorizzato il sequestro conservativo ai danni dell’amministratore “di fatto”.

Ord. 30.10.2018

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza del 30 ottobre 2018 – Giudice designato: Dott. Davide Scaffidi

In tema di responsabilità dei componenti degli organi sociali per l’aggravamento del dissesto patrimoniale, costituiscono elementi rilevanti ai fini della qualificazione della natura dissipativa degli atti di disposizione: il titolo di erogazione a fondo perduto, l’atto abdicativo di rinuncia al credito, il titolo di cessione del credito in assenza di corrispettivo o di finanziamento infruttifero con scarsa probabilità di recupero del capitale e in assenza di richieste di restituzione. In ipotesi in cui tali atti siano disposti in favore di società asseritamente controllate o collegate, per esimersi da responsabilità, i componenti degli organi sociali devono dare prova dell’esistenza di specifici vantaggi compensativi in favore dei creditori sociali idonei a neutralizzare gli svantaggi immediati ad essi procurati.

Principi espressi in ipotesi di parziale accoglimento della domanda cautelare di sequestro conservativo promossa dal curatore di una s.r.l. ai danni degli amministratori e dei sindaci della società, poi fallita, a fronte dell’accertamento della responsabilità risarcitoria dei medesimi in conseguenza di atti di natura distrattiva.

Più precisamente, la curatela contestava ai resistenti le seguenti condotte:

i) aver omesso di adottare i provvedimenti di legge allorché la situazione contabile manifestava un patrimonio netto negativo o comunque aver omesso di rilevare la causa di scioglimento della società per impossibilità di conseguire l’oggetto sociale;

ii) aver erogato indebitamente, anche a seguito dell’emersione dell’impossibilità di conseguire l’oggetto sociale, finanziamenti a fondo perduto e prestiti con scarsa probabilità di recupero del capitale, senza peraltro che vi fosse stata alcuna richiesta di restituzione, nonché aver ceduto gratuitamente crediti in favore di altre società facenti parte del medesimo gruppo con disposizioni estranee all’oggetto sociale, operazioni disposte in una situazione di conflitto di interessi (stante la identica composizione soggettiva dell’organo gestorio o comunque la presenza tra essi di stretti rapporti di parentela);

iii) aver sostenuto costi il cui onere doveva essere sopportato da soggetti diversi dalla società fallita.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Decreto del 24 ottobre 2018 – Presidente: dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice relatore: dott.ssa Angelina Augusta Baldissera

La domanda omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l.f. è inammissibile qualora la relazione del professionista presenti carenze e vizi talmente gravi da comportare un giudizio di irragionevolezza dell’attestazione ivi contenuta, tanto per quel che riguarda l’aspetto della veridicità dei dati aziendali, quanto ciò che concerne il profilo della prognosi dell’attuabilità dell’accordo e della sua idoneità ad assicurare l’integrale e tempestivo pagamento dei creditori non aderenti. 

Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità formulato in tema di concordato preventivo, ma valevole anche per l’accordo di ristrutturazione dei debiti ai sensi dell’art. 182-bis l.f., il giudice ha il dovere di esercitare il controllo di legittimità sul giudizio di fattibilità della proposta di concordato, non restando questo escluso dall’attestazione del professionista, mentre rimane riservata ai creditori la valutazione in ordine al merito di detto giudizio, che ha ad oggetto la probabilità di successo economico del piano e dei rischi inerenti (conf. Cass. Sez. Un. 23.01.2013, Corte d’Appello di Torino 03.01.2015, n. 141).

L’impossibilità di cristallizzare l’attivo ed il passivo patrimoniale ad una data coeva a quella del deposito della domanda preclude ogni valutazione sulla concreta attuabilità del piano, in quanto poggia su valori non più attuali e, quindi, inattendibili.

Principi espressi in ipotesi di declaratoria di inammissibilità della domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l.f., in quanto la società proponente non aveva depositato nel termine assegnato ex art. 162, co. 1, l.f. l’integrazione dell’attestazione del professionista sulla veridicità del piano e sull’attuabilità dell’accordo, mentre quella depositata unitamente dalla domanda presentava vizi e carenze tali da comportare un giudizio di irragionevolezza dell’attestazione ivi contenuta, essendo priva di un vaglio critico dei dati aziendali e di qualsiasi riscontro circa i numerosi profili di inammissibilità della proposta di accordo che hanno giustificato un giudizio di non fattibilità giuridica del piano (profili costituiti dalla mancanza di un’aggiornata relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria della società, di uno stato analitico ed estimativo delle attività completo ed attendibile, nonché di un elenco aggiornato dei creditori, ed infine dall’incompatibilità con le previsioni del piano degli accordi raggiunti dalla debitrice con le banche, i fornitori e la cessionaria del ramo d’azienda).

(Massima a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Decreto del 23 ottobre 2018 – Presidente: dott.ssa Angelina Augusta Baldissera – Giudice relatore: dott. Stefano Franchioni

In tema di ammissione al passivo fallimentare, la domanda proposta da uno studio associato fa presumere l’esclusione della personalità del rapporto d’opera professionale da cui il credito è derivato e, dunque, l’insussistenza dei presupposti per il riconoscimento del privilegio ex art. 2751-bis, n. 2, c.c., salvo che l’istante dimostri che il credito si riferisca ad una prestazione svolta personalmente dal professionista, in via esclusiva o prevalente, e sia di pertinenza dello stesso professionista, pur se l’ammissione del credito sia stata formalmente richiesta dall’associazione professionale (conf. Cass. n. 9927/2018).

I principi sono stati espressi nel giudizio di opposizione ex art. 98 l. fall. promosso dal creditore, formalmente, uno studio professionale associato, avverso il decreto di esecutività dello stato passivo che aveva disposto l’ammissione del credito integralmente al chirografo in considerazione della qualifica formale del creditore istante quale, appunto, studio associato.

L’opponente, in particolare, chiedeva l’ammissione di parte del credito in via privilegiata ex art. 2751-bis, n. 2, c.c., in quanto le relative prestazioni erano state svolte personalmente da uno dei professionisti associati. 

Sul punto il Tribunale, accertato lo svolgimento personale delle prestazioni, ha accolto l’opposizione e, in parziale riforma del decreto di esecutività dello stato passivo, ha disposto l’ammissione del credito dell’opponente, per il relativo importo, al privilegio ex art. 2751-bis, n. 2, c.c.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Decreto dell’11 ottobre 2018 – Presidente relatore: dott.ssa Angelina Augusta Baldissera

La causa del concordato preventivo risiede nel superamento della crisi mediante il soddisfacimento dei crediti e, pertanto, non può prescindere, qualora si tratti di procedura antecedente alla riforma di cui al d.l. 83/2015, da un pagamento, anche solo minimo, dei creditori chirografari, i soli del resto che sono legittimati ad approvare la proposta qualora questa preveda il soddisfacimento integrale dei creditori privilegiati (conf. Cass. n.  18738/2018).

L’impossibilità di soddisfare i creditori chirografari in un tempo ragionevole dalla scadenza del piano conduce a ritenere gravemente compromesso l’equilibrio previsto dall’accordo concordatario, essendo venuto meno l’assetto di interessi sul quale il ceto creditorio aveva espresso il proprio assenso approvando la proposta concordataria. Per i concordati antecedenti alla riforma di cui al d.l. 83/2015, nei quali la percentuale di soddisfacimento dei chirografari è minima, l’assenso del ceto creditorio alla proposta non può che fondarsi sulla garanzia di essere pagati entro un termine ragionevole e certo. Laddove, invece, anche questa utilità venga meno, divenendo incerta e, comunque, inammissibilmente lunga la tempistica di realizzo del proprio credito, è evidente come non vi sia più l’equilibrio su cui si reggeva l’accordo tra la società debitrice ed i creditori.

Per esprimere un giudizio di gravità dell’inadempimento della proposta concordataria è necessario verificare la misura in cui la mancata realizzazione degli atti di liquidazione ivi indicati incida sulla possibilità di soddisfare i creditori della procedura nella misura indicata nella proposta medesima. Pronunciata la risoluzione del concordato, è precluso al Tribunale dichiarare d’ufficio il fallimento della società debitrice in mancanza di un’espressa domanda da parte del creditore ricorrente, ostando a ciò il principio dispositivo che governa la procedura prefallimentare, di cui all’art. 17, co. 1, d.lgs. n. 169/2007, che ha modificato l’art. 186 l.f. nella parte in cui prevedeva il potere del Tribunale di pronunciare d’ufficio il fallimento una volta dichiarata la risoluzione del concordato.

Principi espressi in un’ipotesi di risoluzione per inadempimento ex art. 186 l.f. di un concordato preventivo, avendo il Tribunale ritenuto che per la società ammessa al concordato non fosse più possibile la realizzazione delle operazioni indicate nel piano concordatario nei tempi previsti, a causa della manifestata indisponibilità della promittente acquirente a stipulare il definitivo di compravendita dell’azienda oggetto del contratto d’affitto, che costituiva la parte essenziale del piano di liquidazione. 

(Massima a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Ordinanza del 9 ottobre 2018 – Giudice istruttore: dott. Lorenzo Lentini

In caso di ricorso in corso di causa per sequestro giudiziario della quota di una s.r.l. (nel caso concreto il 50% di essa), ceduta in violazione della clausola statutaria di prelazione, può ravvisarsi l’esistenza del requisito del fumus boni iuris laddove nel giudizio di merito pendente venga domandato l’accertamento della nullità o, in subordine, dell’inefficacia della cessione ed il trasferimento della quota a favore dell’istante ai sensi dell’art. 2932 c.c.

Alle clausole di prelazione previste negli statuti di società di capitali può essere attribuita efficacia reale sicché, in caso di violazione, le stesse sono opponibili anche al terzo acquirente, il quale ben può conoscerne l’esistenza mediante l’esame dello statuto (conf. Cass. n. 12797/2012). Pertanto al socio pretermesso può essere riconosciuto il diritto di riscatto onde assicurare la piena effettività della tutela giudiziaria; diversamente, qualora gli venisse accordato unicamente il rimedio risarcitorio, sarebbe posto nella medesima condizione in cui si sarebbe trovato in caso di violazione della prelazione c.d. convenzionale con effetti meramente obbligatori.

In caso di decesso del socio pretermesso, il diritto di prelazione può essere esercitato dai suoi eredi, ancorché lo statuto preveda la facoltà dei soci superstiti di continuare l’attività d’impresa con gli eredi o di liquidare a questi la quota del socio defunto.

Il periculum in mora è integrato dalla necessità di provvedere, nelle more del giudizio di cognizione, alla custodia dei beni di cui è controversa la proprietà, impedendo il compimento di atti di alienazione o comunque idonei a pregiudicare i diritti vantati dai ricorrenti.

In un contesto altamente conflittuale può essere opportuna la nomina di un custode giudiziale della partecipazione societaria contesa, allo scopo di assicurare una gestione della stessa idonea a preservarne il valore mediante un prudente esercizio dei diritti, amministrativi e patrimoniali, da essa scaturenti.

Principi espressi in accoglimento del ricorso, proposto in corso di causa, per sequestro giudiziario di una quota di s.r.l. (nel caso concreto il 50% di essa) ceduta in violazione di una clausola statutaria di prelazione. Gli eredi del socio pretermesso promuovevano un giudizio nei confronti della società partecipata e degli altri due soci superstiti, chiedendo l’accertamento della nullità o, in subordine, dell’inefficacia della cessione intercorsa fra questi ultimi, e domandando, ai sensi dell’art. 2932 c.c., il trasferimento a loro favore della metà della quota ceduta, atteso che anche l’acquirente era socio della medesima società e titolare del diritto di prelazione; in subordine rispetto a tale ultima domanda, chiedevano il risarcimento del danno.

Ord. 9.10.2018

(Massima a cura di Sara Pietra Rossi)




Ordinanza del 1° ottobre 2018 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

L’opposizione proposta dal socio di cooperativa ex art. 2533, 3° co., c.c. avverso la deliberazione consiliare di esclusione non richiede il possesso in capo all’opponente di una particolare quota di capitale, né appare applicabile in via analogica il requisito di legittimazione di cui all’art. 2377, 3° co., c.c., in ragione degli elementi di specialità che la norma da ultimo citata presenta.

Ove il socio di cooperativa di produzione e lavoro abbia avuto formale comunicazione della delibera di esclusione, oltre che del licenziamento, il termine di decadenza per l’impugnazione di cui all’art. 2533 c.c. opera anche in relazione alla denuncia dei vizi che attengano, non alla sussistenza dei presupposti sostanziali dell’esclusione, bensì alla formazione della volontà dell’organo societario legittimato ad adottare il provvedimento (conf. Cass. n. 3836/2016).

Nel caso in cui il presidente del c.d.a. versi in conflitto d’interessi, non sussiste alcun divieto di partecipazione alle riunioni del consiglio, posto che l’art. 2391 c.c. si limita a prevedere in capo a ciascun amministratore l’obbligo di comunicazione agli altri amministratori e al collegio sindacale degli interessi di cui è titolare in una determinata operazione della società.

Nell’ipotesi di omessa convocazione di taluno degli amministratori aventi diritto a partecipare alle riunioni consiliari, si determina impossibilità di costituzione dell’organo, con la conseguente sua inidoneità a riferire la propria volontà alla società, senza che rilevi che, anche a considerare voti contrari quelli dei soggetti non convocati, la maggioranza si sarebbe comunque conseguita (conf. Cass. n. 9314/1995).

La sospensione prevista dall’art. 2378, 3° co., c.c. risponde alla ratio di evitare che il diritto o l’interesse di chi agisce impugnando una deliberazione assembleare possa subire gravi pregiudizi nelle more del procedimento d’impugnazione della stessa. In tal senso assume rilevanza anche l’interesse a proteggere la società dal pericolo che la delibera impugnata venga prima eseguita e subito dopo annullata. Ne consegue che, ai fini della cautela provvisoria, non vi è distinzione tra esecuzione ed efficacia della stessa, dovendo l’atto risultare semplicemente suscettibile di produrre ulteriori effetti rispetto all’organizzazione sociale (conf. Trib. Milano 23.03.2016).

È lecito invocare la sospensione per tutte le delibere che, anche se non bisognevoli in senso proprio di “atti esecutivi”, o già iscritte presso il Registro delle Imprese con piena “efficacia” ed opponibilità nei confronti dei terzi, siano tuttavia suscettibili di esplicare i loro effetti pregiudizievoli per tutto il tempo in cui la situazione dalle stesse creata è destinata a perdurare. In altri termini, possono essere sospese tutte le delibere in relazione alle quali non possa dirsi concretata una “irreversibilità” degli effetti, cioè le delibere suscettibili di dispiegare “efficacia” in modo continuativo (conf. Trib. Bologna 24.01.2018).

L’art. 2378, co. 4, c.c. richiede al giudice del procedimento cautelare investito della sospensione dell’esecuzione della delibera la valutazione della sussistenza di un nesso causale fra l’esecuzione (ovvero la protrazione dell’efficacia) della deliberazione impugnata ed il pregiudizio temuto ed implica l’apprezzamento comparativo della gravità delle conseguenze derivanti, sia al socio impugnante sia alla società, dalla esecuzione e dalla successiva rimozione della deliberazione impugnata. Così, il provvedimento cautelare di sospensione dell’efficacia della delibera potrà essere concesso soltanto ove si ritenga prevalente, rispetto al corrispondente pregiudizio che potrebbe derivare alla società per l’arresto subito alla sua azione, il pregiudizio lamentato dal socio (conf. Trib. Roma 22.4.2018).

I principi sono stati espressi nel procedimento cautelare promosso, in corso di causa, con ricorso ex artt. 2378, co. 3, e 2388, co. 4, c.c. dal socio di società agricola cooperativa al fine di ottenere la sospensione in via cautelare dell’efficacia della deliberazione – impugnata con atto di citazione nel giudizio di merito – adottata dall’organo di amministrazione della società resistente avente ad oggetto l’esclusione del ricorrente dalla compagine sociale, nonché l’applicazione di penalità nei confronti del medesimo.

Sotto il profilo del fumus boni iuris, il ricorrente deduceva: (i) la nullità della deliberazione per eccessiva genericità e indeterminatezza della previsione statutaria in forza della quale era stata assunta; (ii) l’omesso invio al presidente della comunicazione di convocazione dell’organo di amministrazione, in violazione degli artt. 2381 e ss. c.c., nonché delle disposizioni dello statuto sociale in tema di funzionamento del suddetto organo; (iii) l’insussistenza dei presupposti di merito per l’adozione della deliberazione e l’infondatezza delle valutazioni; (iv) in ogni caso, la sproporzione delle sanzioni al medesimo inflitte rispetto alla violazione contestata, nonché la loro contraddittorietà, atteso che l’applicazione di penalità economiche presuppone la permanenza del vincolo sociale (reciso dal contestuale provvedimento di esclusione).

Sotto il profilo del periculum in mora, il ricorrente deduceva la difficoltà di reperire altro soggetto in ambito cooperativo in favore del quale eseguire i propri conferimenti e i conseguenti danni economici irreparabili derivanti dalla eventuale cessione dei medesimi al settore industriale.

(Massima a cura di Marika Lombardi)