Decreto del 14 agosto 2019 – Presidente: dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice relatore: dott. Stefano Franchioni

L’amministrazione finanziaria, come tutti gli altri creditori, deve rispettare il termine annuale di cui all’art. 101, 1°  co., l. fall.; sicché, dopo aver avuto conoscenza della dichiarazione di fallimento, la stessa deve immediatamente attivarsi per predisporre i titoli per la tempestiva insinuazione dei propri crediti al passivo, senza che i diversi e più lunghi termini previsti per la formazione dei ruoli e l’emissione delle cartelle possano costituire una esimente di carattere generale dal rispetto del citato termine (conf. Cass. n. 17787/2015 e Cass. n. 21189/2011).

In quest’ottica, l’intervenuta dichiarazione di fallimento del contribuente giustifica l’emissione dell’avviso di accertamento senza l’osservanza del termine dilatorio previsto dal c.d. statuto del contribuente, discendendo l’urgenza dalla necessità dell’Erario di procurarsi tempestivamente il titolo per insinuarsi al passivo del fallimento (conf. Cass. n. 13294/2016); il fallimento del contribuente viene ritenuto inoltre circostanza che integra di per sé il requisito del periculum in mora richiesto per l’iscrizione delle imposte nel ruolo straordinario (conf. Cass. n. 12887/2007).

L’agente della riscossione ha la possibilità di richiedere l’ammissione allo stato passivo di crediti sia previdenziali che tributari sulla base del semplice estratto di ruolo, senza che occorra la previa notifica della cartella esattoriale (conf. Cass. n. 2732/2019), e di presentare istanza di insinuazione con documentazione incompleta, con conseguente ammissione del credito ai sensi dell’art. 96 l. fall. con riserva di produzione dei documenti (conf. Cass. n. 21189/2011).

I principi sono stati espressi nel giudizio di opposizione allo stato passivo promosso dall’agente della riscossione, con la chiamata in causa dell’ente creditore, avverso il decreto che aveva dichiarato inammissibile l’istanza di insinuazione depositata oltre il termine annuale di cui all’art. 101, 1° co., l. fall., posto che il ritardo non poteva essere considerato non imputabile al creditore in base alla previsione dell’ultimo comma della disposizione citata. Il Tribunale di Brescia ha confermato la decisione del Giudice delegato, avendo ritenuto non assolto, da parte dell’amministrazione finanziaria, l’onere di provare la scusabilità del ritardo, ex art. 101, ult. co., l. fall.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 12 agosto 2019 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Angelica Castellani

La disciplina del rapporto tra nudo proprietario e usufruttuario nelle società di persone deve essere ricercata nelle norme del contratto sociale e nei principi generali (ricavabili anche dalle disposizioni in materia di società capitali, laddove aventi carattere non eccezionale e, pertanto, suscettibili di applicazione analogica). In particolare, in tema recesso del socio nudo proprietario, deve escludersi, ai fini del legittimo esercizio di tale facoltà, il necessario concorso della volontà del titolare di usufrutto sulla quota oggetto di recesso. A sostegno di tale impostazione militano i seguenti argomenti:

a) l’opinione assolutamente prevalente in dottrina – formatasi in relazione all’art. 2352 c.c. ante e post riforma, estendibile, in considerazione della sua portata generale, alle società di persone – secondo cui il recesso non è qualificabile – se non parzialmente e per difetto – come mero diritto amministrativo, essendo maggiormente accostabile alle facoltà il cui esercizio incide direttamente sulla partecipazione societaria o sulla sua misura (come il diritto di opzione o come la stessa vicenda traslativa): la quasi totalità degli interpreti ha, conseguentemente, sostenuto che, in presenza di vincoli sulle partecipazioni, la titolarità del diritto di recesso rimanga di competenza esclusiva del socio, ancorché nudo proprietario o debitore pignoratizio;

b) la tesi avallata, ante riforma, dalla Corte di Cassazione, che ha ulteriormente escluso che il titolare del diritto parziario (in quel caso un creditore pignoratizio) possa esercitare il recesso in via surrogatoria ex art. 2900 c.c., affermando il seguente principio giuridico: “il creditore pignoratizio delle azioni – ancorché, ai sensi dell’art. 2352 cod. civ., a lui competa, in luogo del socio suo debitore, il diritto di voto (anche) nelle deliberazioni concernenti il cambiamento dell’oggetto o del tipo della società o il trasferimento della sede sociale all’estero – non è legittimato ad esercitare il diritto di recesso di cui all’art. 2437 cod. civ., configurandosi questo come un atto di disposizione in ordine alla partecipazione societaria, di esclusiva spettanza del socio, ed essendo d’altra parte la tutela del creditore pignoratizio affidata, in presenza di una diminuzione del valore delle azioni conseguente a quei deliberati mutamenti societari, all’istituto della vendita anticipata ex art. 2795 cod. civ.” (Cass. n. 10144/2002);

c) la considerazione secondo cui attribuire all’usufruttuario il diritto di recesso contrasterebbe con il principio di cui all’art. 981, co. 1, c.c., che impone al titolare del diritto reale parziario l’obbligo di rispettare la destinazione economica del bene, nonché con lo stesso art. 832 c.c., poiché si verrebbe a creare una limitazione al diritto esclusivo di disposizione del proprietario non prevista dalla legge;

d) argomento contrario a tale tesi non può, infine, essere ricavato dall’art. 1000 c.c., che, attenendo alla mera “riscossione” di capitali fruttiferi e riferendosi non già al “consenso” dell’usufruttuario, bensì al solo “concorso” dello stesso nelle operazioni esecutive di liquidazione, non può essere applicato estensivamente alla manifestazione di volontà inerente lo scioglimento del vincolo sociale.

Il credito relativo alla liquidazione della quota del socio uscente, avendo fin dall’origine ad oggetto una somma di denaro, ha natura pecuniaria e costituisce, quindi, un credito di valuta (conf. Cass. n. 11598/1995 e Cass. n. 5548/2004). Inoltre, l’impugnazione del socio recedente della delibera societaria che giustifica l’esercizio del diritto di recesso (nel caso di specie, della delibera di trasformazione della società da s.a.s. a s.r.l.) determina il venir meno dei requisiti di certezza ed esigibilità del credito, sicché deve escludersi che la società, che ometta il richiesto pagamento della quota di liquidazione, abbia assunto un comportamento inadempiente che giustifichi l’applicazione degli interessi moratori secondo il regime “sanzionatorio” previsto dall’art. 1284, co. 4, c.c.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso dal socio accomandante di una s.a.s., titolare della piena proprietà del 10% del capitale sociale e della nuda proprietà del 35% del predetto capitale sociale, quota quest’ultima gravata da usufrutto, nei confronti della società, al fine di far accertare il proprio intervenuto recesso dalla stessa e ottenere la condanna della convenuta alla liquidazione in proprio favore della quota di cui all’epoca del recesso risultava titolare.

A fondamento della domanda l’attore ha esposto che i soci avevano deliberato, senza la sua partecipazione e senza che lo stesso fosse stato avvisato dello svolgimento della riunione, la trasformazione della s.a.s. in s.r.l. con contestuale aumento del capitale sociale.

(Massime a cura di Marika Lombardi)




Decreto del 24 luglio 2019 – Presidente: Dott.ssa Angelina Augusta Baldissera – Giudice relatore: Dott. Stefano Franchioni

Nell’ambito del giudizio di opposizione allo stato passivo, le domande svolte, in via subordinata, dalla curatela per la rideterminazione dell’ammontare del credito ammesso dal giudice delegato non sono ammissibili, in quanto il curatore che intenda contestare l’accertamento del giudice delegato deve impugnare lo stato passivo nel termine di rito, non essendo sufficiente la proposizione di una mera eccezione sul punto nel giudizio di opposizione promosso dal creditore istante (conf. Cass., 20 aprile 2018, n. 9928).

Il mutuo è un contratto di natura reale che si perfeziona con la consegna di una determinata quantità di danaro (o di altre cose fungibili) ovvero con il conseguimento della giuridica disponibilità di questa da parte del mutuatario; ne consegue che la tradito rei può essere realizzata attraverso l’accreditamento in conto corrente della somma mutuata a favore del mutuatario, perché in tal modo il mutuante crea, con l’uscita delle somme dal proprio patrimonio, un autonomo titolo di disponibilità in favore del mutuatario (conf. Cass., 21 febbraio 2001, n. 2483).

Il curatore fallimentare che intenda promuovere l’azione revocatoria ordinaria, per dimostrare la sussistenza dell’eventus damni,ha l’onere di provare tre circostanze: (a) la consistenza del credito vantato dai creditori ammessi al passivo nei confronti del fallito; (b) la preesistenza delle ragioni creditorie rispetto al compimento dell’atto pregiudizievole; (c) il mutamento qualitativo o quantitativo del patrimonio del debitore per effetto di tale atto (conf. Cass., 31 ottobre 2008, n. 26331).

Principi espressi nell’ambito di un procedimento di opposizione allo stato passivo in cui il creditore insisteva per l’ammissione del credito al passivo in via privilegiata ipotecaria. Si costituiva il fallimento chiedendo il rigetto dell’opposizione e la conferma dell’ammissione del creditore al passivo in via chirografaria.

(Massime a cura di Giulia Ballerini)




Decreto del 22 luglio 2019 – Giudice estensore: dott.ssa Angelina Augusta Baldissera

La procedura di liquidazione del patrimonio, pur instaurandosi ad istanza del debitore, una volta avviata non rientra più nella sfera di disponibilità della parte istante, rilevando interessi di natura pubblicistica alla sua prosecuzione, con conseguente inammissibilità della domanda di rinuncia alla liquidazione.

Principio espresso nel contesto della procedura di liquidazione del patrimonio ex articolo 14-ter e seguenti della legge 3 del 2012 (in materia di sovraindebitamento).

(Massima a cura di Giovanni Fumarola)




Sentenza del 10 luglio 2019 – Presidente estensore: Dott. Giuseppe Magnoli

In
caso di leasing c.d. traslativo, è applicabile la disciplina dell’art.
1526 c.c., cosicché, laddove una clausola delle condizioni generali di
contratto preveda l’acquisizione definitiva
in capo al concedente dei canoni già riscossi, la situazione è certamente da
ricondursi a quella descritta dal secondo comma della norma citata. Pertanto,
non è ammissibile la domanda di restituzione dei canoni corrisposti, che
vengono trattenuti a titolo di indennità, potendo l’utilizzatore chiedere
esclusivamente la riduzione dell’indennità convenuta, se eccessiva.

Principi espressi a seguito dell’appello proposto
dal curatore del fallimento di un’impresa utilizzatrice avverso la sentenza del
Tribunale che, dopo aver dichiarato la risoluzione del contratto di leasing
per inadempimento di quest’ultima, aveva disatteso la domanda dalla stessa
formulata, volta ad ottenere la restituzione dei canoni pagati.

(Massima
a cura di Lorena Fanelli)




Sentenza del 9 luglio 2019 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott. Davide Scaffidi

Il soggetto, che anche al di fuori dell’orario lavorativo, apporti modifiche di qualsivoglia genere al codice sorgente di un programma per elaboratore, non può reclamare la paternità del medesimo, potendo al più ritenersi coautore o autore delle modifiche apportate con le successive versioni, sì che la paternità dell’opera spetta in ogni caso al datore di lavoro.

La contraffazione del software può integrare altresì un atto di concorrenza sleale per violazione dei principi della correttezza professionale ex art. 2598 n. 3 c.c. allorquando l’imprenditore che si appropri ingiustificatamente del contenuto di un omologo programma altrui realizza una forma di concorrenza sleale parassitaria, avvantaggiandosi indebitamente dei risultati dell’impresa concorrente senza aver sostenuto corrispondenti oneri economici e gestionali, connessi a investimenti, organizzazione del lavoro e ricerca che sono normalmente sottesi all’elaborazione di qualsiasi software.

I programmi per elaboratore sono stati qualificati dal legislatore alla stregua delle opere letterali, come tali soggetti alla disciplina in materia di diritto d’autore, e non di proprietà intellettuale. Pertanto, non può accordarsi la tutela offerta dall’art. 98 c.p.i.

Decisione resa con riferimento al software, sviluppato da un dipendente in prossimità della cessazione del suo rapporto di lavoro con una società, commercializzato poi da altra società della quale tale ex dipendente diveniva collaboratore, prima e amministratore, poi; software asseritamente plagio di altro analogo già sviluppato e commercializzato dalla prima società.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)




Sentenza del 24 giugno 2019 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott.ssa Alessia Busato

Nell’ambito di una società a responsabilità limitata, deve ritenersi che gli amministratori nominati a tempo indeterminato possano essere revocati in ogni tempo e ciò in applicazione analogica della disciplina generale di cui all’art. 1725 cod. civ. in tema di revoca del mandato oneroso, salvo il diritto dell’amministratore revocato in assenza di giusta causa ad un congruo preavviso, la cui omissione determina solo ragioni risarcitorie in capo all’amministratore.

L’abuso o eccesso di potere può costituire motivo di invalidità della delibera assembleare, quando vi sia la prova che il voto determinante del socio di maggioranza è stato espresso allo scopo di ledere interessi degli altri soci, oppure risulta in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell’esecuzione del contratto.

In tema di delibere di nomina (o revoca) dei componenti dell’organo amministrativo, ciascun socio è libero di nominare amministratori di propria fiducia e gradimento, senza che ciò comporti, di regola, il perseguimento di un interesse “personale antitetico a quello sociale” mentre gli amministratori nominati dall’assemblea della società debbono, a loro volta, adempiere il loro mandato nel rispetto di precisi obblighi e responsabilità (stabiliti nell’interesse della società amministrata).

Principi espressi nel decidere una controversia avente ad oggetto la rimozione – asseritamente senza giusta causa – di un amministratore della società con delega alla redazione delle scritture contabili dalle quali non emergeva un credito della società medesima nei confronti di altra società unipersonale del predetto amministratore delegato. Parte attrice chiedeva la rimozione della delibera assunta, a suo dire, con abuso di potere della maggioranza e che aveva ad oggetto non soltanto la rimozione dell’amministratore “infedele” ma anche la nomina di un amministratore unico il quale sarebbe stato nominato solo formalmente, come avrebbe dovuto emergere dalla durata ed il compenso dell’incarico previsti, così da lasciare la gestione di fatto della società ad altro soggetto.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)




Sentenza del 24 giugno 2019 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Relatore: dott.ssa Alessia Busato

In assenza di limitazioni convenzionali, il soggetto che sia stato amministratore ovvero dipendente di una società può ben intraprendere un’attività lavorativa nel medesimo settore nel quale operava quale amministratore ovvero dipendente, così da non veder azzerata la professionalità acquisita e senza che ciò costituisca violazione del divieto di concorrenza.

Non può ritenersi contrario a correttezza il fatto che il soggetto già amministratore ovvero dipendente intrattenga rapporti commerciali con un cliente della società nel quale operava quale amministratore ovvero dipendente, qualora non vi sia la prova che tali rapporti siano conseguenza di un diverso comportamento scorretto (derivante ad esempio dall’acquisizione di notizie riservate, da attività denigratoria o altro).

L’acquisizione di un numero irrisorio di clienti parametrato al totale di quelli della società asseritamente svantaggiata non può qualificarsi quale sviamento della clientela, specialmente in assenza di qualsivoglia comportamento idoneo a svantaggiare l’impresa altrui.

Principi espressi in una vertenza in materia di atti di concorrenza sleale ex art. 2598 co. 3 c.c. nella quale, secondo parte attrice, i convenuti avrebbero perpetrato a danno della stessa una serie di atti incompatibili con la precedente carica di amministratore della società attrice e con la successiva qualità di amministratore unico e socio di altra società concorrente. Il difetto di allegazione probatoria e l’assenza di un qualunque danno causalmente imputabile ai convenuti, hanno indotto la corte a decidere nel senso di rigettare tutte le domande attoree.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)




Decreto del 20 giugno 2019 – Presidente relatore: dott.ssa Angelina Augusta Baldissera

Nel procedimento di concordato fallimentare la proposta che prevede la formazione di classi, prima di essere comunicata ai creditori ai fini del voto, va sottoposta al giudizio del Tribunale ex art. 125, terzo comma, l.f., affinché verifichi il corretto utilizzo dei criteri di cui all’articolo 124, secondo comma, lettere a) e b), l.f., tenendo conto della relazione resa ai sensi del terzo comma della norma da ultimo citata.

Nel procedimento di concordato fallimentare la formazione delle classi in senso giuridico, ai fini del voto, rileva per la suddivisione dei soli creditori chirografari, ab origine o declassati (conf. Trib. Milano 5.3.2012).

Principi espressi ai sensi dell’art. 125, co. 3, l. f. in un procedimento di concordato fallimentare nel quale il Tribunale ha dichiarato non corretta la formazione di classi con riferimento ai creditori privilegiati in quanto la proposta non avrebbe configurato delle classi in senso tecnico-giuridico, ma delle categorie di creditori privilegiati soddisfatti in percentuali diverse.

(Massima a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza del 10 giugno 2019 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott.ssa Alessia Busato

Nel caso di valutazione peritale del patrimonio sociale, finalizzato alla determinazione del prezzo unitario azionario prodromico alla cessione di partecipazioni, la parte pienamente informata in merito a tutte le circostanze di rilievo che possono incidere sulla valutazione della consistenza patrimoniale della società non può lamentare alcuna condotta decettiva dell’alienante parimenti informato.

Nel caso in cui parte di un contratto di cessione di partecipazioni azionarie sia un membro dell’organo gestorio della società, questi non può lamentare un comportamento decettivo perpetrato da altra parte contrattuale che sia anch’essa membro dell’organo gestorio. Infatti, gli obblighi informativi posti dall’ordinamento in capo ai componenti l’organo gestorio di una società di capitali lasciano intendere che questi debbano essere pienamente informati circa la consistenza patrimoniale della società il cui bilancio concorrono a redigere.

Decisione resa con riferimento alla cessione di partecipazioni azionarie al prezzo, concordato tra le parti del negozio di cessione, pari al rapporto tra titoli in circolazione e patrimonio sociale. La valutazione fatta del patrimonio sociale, tuttavia, ha tenuto in considerazione un credito già allora inesigibile in concreto per essere la società debitrice in stato di insolvenza. Tuttavia, gli acquirenti erano membri del consiglio d’amministrazione della società le cui azioni hanno rappresentato oggetto di cessione e, pertanto, devono reputarsi pienamente informati quanto alle circostanze di rilievo che possono incidere sulla valutazione della consistenza patrimoniale della società.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)