Decreto del 30 maggio 2019 – Presidente: dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice relatore: dott. Stefano Franchioni

Deve essere considerato amministratore di fatto colui che, privo della corrispondente investitura formale, si sia ingerito nella gestione della società,  impartendo direttive e condizionandone le scelte operative, qualora tale ingerenza riveli carattere di sistematicità e completezza e non si esaurisca nel compimento di atti eterogenei ed occasionali (conf. Cass. 1.3.2016, n. 4045).

Qualora si accerti la natura simulata del contratto di lavoro subordinato concluso fra l’amministratore di fatto e la società poi fallita, va rigettata la domanda del primo di ammissione al passivo, in via privilegiata ex art. 2751-bis n. 1 c.c., del credito per retribuzioni non percepite e t.f.r.

Principi espressi in un’ipotesi di rigetto di opposizione allo stato passivo nella quale il Tribunale ha negato l’ammissione al passivo, in via privilegiata ex art. 2751-bis n. 1 c.c., del credito per retribuzioni non percepite e t.f.r. vantato dal ricorrente, che sosteneva di aver lavorato come dipendente a tempo indeterminato presso la società, poi fallita. 

Dalle prove testimoniali era emerso infatti che la società fallita e il ricorrente avevano simulato la costituzione di un rapporto di lavoro dipendente, avendo quest’ultimo ricoperto fino alla data della dichiarazione di fallimento il ruolo di amministratore (unico) di fatto della società, ingerendosi nei rapporti con i clienti, i fornitori, i professionisti e con gli istituti di credito; adottando autonomamente decisioni sui prezzi e sugli sconti da applicare e nelle relazioni con il personale; provvedendo alla gestione del magazzino ed al controllo sulla contabilità sociale.

(Massima a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza del 22 maggio 2019 – Presidente: dott.ssa Alessia Busato – Giudice relatore: dott. Davide Scaffidi

L’inadempimento degli obblighi gestionali posti in capo agli amministratori di una società di capitali può avere ad oggetto lo svolgimento dell’attività gestionale o di parte di essa, ossia ben può riferirsi ad una serie coordinata di atti legati tra loro da una funzione unitaria. Pertanto, anche la violazione del dovere di tenere la contabilità, in determinate circostanze, non può essere considerata avulsa da altri comportamenti illeciti, i quali per l’appunto hanno materialmente prodotto l’evento dannoso; in questa prospettiva, la violazione inerente la contabilità sociale assume una connotazione strumentale rispetto ad atti illeciti pregiudizievoli nel senso che la scorretta o mancata redazione contabile risulta funzionale ad occultare gli atti dannosi di mala gestio.

Sotto il profilo dell’onere probatorio, non si può pretendere dalla parte che si lamenta del danno subito per inadempimento degli obblighi gestionali di rappresentare compiutamente in giudizio avvenimenti gestionali di cui non ha – né può avere avuto – conoscenza a causa di un’attività di occultamento riconducibile agli amministratori. Diversamente ragionando, si finirebbe per attribuire indebitamente un valore esimente alla circostanza della mancata predisposizione di scritture contabili, imputabile a quegli amministratori che con la loro condotta omissiva hanno di fatto ostacolato una più agevole ricostruzione del nesso eziologico tra comportamento commissivo illecito e pregiudizio effettivamente subito arrecato a società e creditori sociali.

Gli obblighi di provvedere alla regolare tenuta delle scritture contabili e di attivarsi, in caso di riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale, per l’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 2482-bis c.c. incombe su ciascuno dei membri dell’organo gestorio, se plurisoggettivo, i quali sono tenuti ad adempiere indipendentemente dall’eventuale assetto di deleghe adottato all’interno della società. La loro responsabilità deve poi parametrarsi, in via equitativa, sulla base della durata dell’incarico, tenuto conto della composizione dell’organo amministrativo nel tempo e assumendo che il pregiudizio si sia prodotto in misura costante nell’intero arco temporale.

Emerge dal bilancio una serie di dati e valori incongruenti tra loro ma anche – e soprattutto – incongruenti quanto al rapporto tra le voci riportate e l’attività d’impresa svolta dalla società. Pertanto, la Corte è stata chiamata – su impulso della curatela – a stabilire se vi fossero le condizioni per dichiarare responsabili per mala gestio i vari membri dell’organo gestorio della società fallita succedutisi nel tempo e, così, mantenere l’efficacia del sequestro cautelare e conservativo disposto nei loro confronti.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)




Sentenza del 3 maggio 2019 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott.ssa Alessia Busato

Con riferimento ad un patto di non concorrenza che veda, tra le condizioni, la limitazione del ricorso a precisi strumenti software per l’esercizio di una data attività d’impresa, le differenze nelle caratteristiche funzionali e tecniche di software pur simili sono sufficienti a non integrare la fattispecie dedotta in contratto.

La disciplina di cui all’art. 2557 c.c. – che pur si applica in ipotesi formalmente diverse dalla cessione di azienda ma col medesimo effetto sostanziale come, ad esempio, la cessione di rilevanti partecipazioni sociali – non trova applicazione nel caso di espressa regolamentazione pattizia del divieto di concorrenza, atteso che si tratta di norma non servente un interesse pubblico e, pertanto, suscettibile di deroga da parte dei privati nell’esplicazione della loro autonomia negoziale.

La prospettazione di una condotta illecita allegando, quali presupposti, elementi inconferenti o delineati in modo assolutamente generico o addirittura non delineati costituisce quell’abuso del diritto di agire che, determinando uno sviamento del sistema giurisdizionale dai suoi fini istituzionali ed un ingiustificato aumento del contenzioso che ostacolano la ragionevole durata dei processi pendenti e il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione, autorizza l’applicazione dell’art. 96 c.p.c.

Un socio di s.r.l., fuoriuscendo dalla compagine sociale, stipulava un patto di non concorrenza di durata infraquinquennale con la società medesima. Ricorre poi a strumenti tecnici simili a quelli utilizzati dalla società da cui è fuoriuscito per intraprendere attività d’impresa avente il medesimo oggetto, con l’ausilio di alcuni soggetti che già avevano collaborato con la medesima società.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)




Sentenza del 2 maggio 2019 – Presidente: dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice relatore: dott.ssa Angelina Augusta Baldissera

Ai fini del riconoscimento del privilegio di cui all’articolo 2751-bis, n. 2, del codice covile, occorre accertare non se il professionista richiedente abbia o meno organizzato la propria attività in forma associativa, ma se il cliente abbia conferito l’incarico dal quale deriva il credito a lui personalmente ovvero all’entità collettiva, qualificando il credito come privilegiato nel secondo caso, ammettendolo al chirografo nel primo.

Principio espresso nel contesto dell’ammissione allo stato passivo ex art. 101 l.f. nell’ambito di una procedura fallimentare.

(Massima a cura di Giovanni Gitti)




Sentenza del 5 aprile 2019 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott. Lorenzo Lentini

Stante il disposto dell’art. 99, co. 1, c.p.i. che fa salva la disciplina della concorrenza sleale, l’insussistenza dei requisiti per accordare al know-how la tutela offerta dal c.p.i. non fa venire meno l’applicabilità dei principi generali in tema di concorrenza sleale, dovendosi ritenere condotta contraria ai principi della correttezza tra imprenditori lo sfruttamento abusivo di altrui informazioni tecniche o commerciali, aventi carattere riservato (sia pure non “segreto”) e apprezzabile valore economico, di cui l’imprenditore sia venuto in possesso per circostanze fortuite (nel caso di specie, l’esistenza di una passata trattativa tra la società attrice ed un cliente della società convenuta aveva consentito a quest’ultimo di trattenere indebitamente disegni, progetti e altro materiale tecnico, rientrante nella esclusiva titolarità di parte attrice, e di metterlo a disposizione di un diverso “fornitore”, ovvero la società convenuta, al fine di ottenere condizioni commerciali più competitive).

In mercati caratterizzati dalla realizzazione di commesse sulla base di progetti condivisi dal committente e dalla particolare qualificazione dei soggetti che vi operano, l’imitazione di “aspetti esteriori” non è idonea a costituire un illecito confusorio laddove il profilo estetico degli impianti realizzati non rivesta carattere centrale nell’aggiudicazione degli appalti e non sia elemento tale da generare vantaggi competitivi, né rischi di confusione in capo ai fruitori, essendo questi in grado di distinguere i prodotti forniti e i servizi resi dai diversi operatori del mercato in questione. 

L’indebito utilizzo di informazioni riservate tecniche altrui integra la fattispecie “generale” di cui all’art. 2598, n. 3), c.c., sicché deve ritenersi escluso che tale condotta possa integrare altresì l’attività di appropriazione di pregi di cui all’art. 2598, n. 2), c.c.

Non può trovare accoglimento la domanda di risarcimento del danno derivante da atti di concorrenza sleale laddove il danno sofferto in conseguenza della condotta avversaria non risulti provato. In particolare, in ipotesi in cui l’agente lamenti un pregiudizio da ricondurre alla categoria della “perdita di chance”, incombe su quest’ultimo l’onere di provare la sussistenza di elementi oggettivi e certi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità e non di mera potenzialità, l’esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile (conf. Cass. n. 15385/2011).

Deve ritenersi infondata la domanda di tutela di cui all’art. 99 l.d.a. in difetto dei presupposti di applicazione della suddetta norma, presupponendo la medesima il carattere di originalità del progetto ingegneristico (conf. Trib. Milano 31.05.2016). In ogni caso, l’esercizio del diritto all’equo compenso è altresì condizionato alla previa esecuzione degli adempimenti di cui all’art. 99, co. 2, l.d.a., sicché in caso di mancata esecuzione la domanda deve ritenersi infondata anche alla luce del disposto di cui all’art. 11 del regolamento per l’esecuzione della l.d.a.

Allorché ad una consulenza tecnica d’ufficio siano mosse critiche puntuali e dettagliate da un consulente di parte, il giudice che intenda disattenderle ha l’obbligo di indicare nella motivazione della sentenza le ragioni di tale scelta, senza che possa limitarsi a richiamare acriticamente le conclusioni del proprio consulente, ove questi a sua volta non si sia fatto carico di esaminare e confutare i rilievi di parte (conf. Cass. n. 23637/2016). Argomentando a contrariosi ricava che laddove il C.T.U. abbia esaminato i rilievi mossi dai consulenti di parte e replicato puntualmente, non sussiste in capo al tribunale l’onere di motivazione sul punto, onere già compiutamente assolto dal perito.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso nei confronti della concorrente s.n.c., ai fini dell’accertamento degli illeciti di concorrenza sleale ex art. 2598, nn. 1), 2) e 3), c.c. e della violazione dei diritti autorali connessi di cui all’art. 99 l.d.a.; per l’effetto, l’attore chiedeva: (i) di inibire la prosecuzione degli illeciti eventualmente accertati ai sensi degli artt. 2599 c.c., 99 l.d.a. e 156 l.d.a.; (ii) di ordinare la restituzione di documenti contenenti informazioni riservate e di inibirne qualunque utilizzo futuro; (iii) il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti; (iv) la pubblicazione della sentenza; (v) la fissazione di una penale per ciascuna violazione.

Al riguardo, l’attrice lamentava: (i) l’indebito sfruttamento di dati tecnico-commerciali di sua proprietà trasmessi in forma riservata e in sede precontrattuale ad alcuni potenziali clienti, che li avevano successivamente messi a disposizione della società convenuta; (ii) la realizzazione di impianti con identiche caratteristiche di lay-out ossia estetiche e non necessariamente tecniche; (iii) l’appropriazione di pregi.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 5 aprile 2019 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott.ssa Alessia Busato

Non può applicarsi analogicamente alle società a responsabilità limitata la disciplina del recesso previsto per le società per azioni nella parte in cui si prevede un termine per l’approvazione della deliberazione di scioglimento della società, la quale impedisce al socio che abbia diritto di recedere di farlo e, ove abbia già esercitato il diritto, rende inefficace lo stesso.

Pertanto, il termine per deliberare lo scioglimento della società di cui all’art. 2437 co. 4 c.c. è libero, potendo la società in qualunque momento assumere questa decisione, pur rimanendo possibile per il socio recedente impugnare tale delibera per abuso di potere.

La Corte si è pronunciato sul caso dell’esercizio del diritto di recesso per causa statutaria, in seguito al quale – e prima della liquidazione del valore della partecipazione del socio recedente – la società ha alienato un immobile di sua proprietà, così diminuendo la consistenza patrimoniale utile per liquidare la quota del socio recedente.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)




Sentenza del 27 marzo 2019 (Presidente: Dott. Donato Pianta – Consigliere relatore: Dott. Giuseppe Magnoli)

In
tema d’intermediazione finanziaria, il requisito della forma scritta del
contratto-quadro, posto a pena di nullità (azionabile dal solo cliente) dall’art.
23 del d.lgs. n. 58 del 1998, va inteso non in senso strutturale, ma
funzionale, avuto riguardo alla finalità di protezione dell’investitore assunta
dalla norma, sicché tale requisito deve ritenersi rispettato ove il contratto
sia redatto per iscritto e ne sia consegnata una copia al cliente, ed è
sufficiente che vi sia la sottoscrizione di quest’ultimo, e non anche quella
dell’intermediario, il cui consenso ben può desumersi alla stregua di
comportamenti concludenti dallo stesso tenuti
” (cfr. Cass., SS.UU., n.
898/2018). Da ciò ne deriva che se il contratto di conto corrente e il
contratto di mutuo, redatti per iscritto, recano il timbro della società
correntista e mutuataria e la firma del suo legale rappresentante, il requisito
di forma prescritto a pena di nullità deve ritenersi soddisfatto.

I principi sono stati espressi nel
giudizio di appello promosso da una banca avverso la sentenza del Tribunale
emessa all’esito dell’opposizione a decreto ingiuntivo promossa da una s.r.l. e
dai suoi fideiussori.

Peraltro in tale procedimento la parte appellata
aveva
censurato l’erroneità del rigetto, contenuto nella
sentenza appellata, dell’eccezione di nullità per difetto di forma scritta dei
rapporti di conto corrente e di mutuo dalla stessa sollevata in primo grado.

(Massima
a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza del 25 marzo 2019 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Davide Scaffidi

In tema di concorrenza sleale confusoria, il giudizio di somiglianza tra segni distintivi, ancorché non oggetto di registrazione, deve essere effettuato in via d’insieme, tenendo conto della percezione del consumatore medio di riferimento, avuto riguardo all’impressione complessiva prodotta dai segni, del livello di attenzione variabile a seconda del tipo di servizio correlato e del fatto che il consumatore non effettua un confronto diretto tra i segni, bensì mnemonico.

In ipotesi di identità geografica e merceologica del mercato di riferimento, tenuto conto della particolarità del tipo di “consumatore” cui sono destinati i servizi e del suo scarso livello di attenzione sul segno distintivo (trattandosi, nel caso di specie, di pazienti di due poliambulatori operanti in un ambito territoriale circoscritto), la discordanza di una sola lettera tra gli acronimi inseriti nei segni figurativi utilizzati nelle insegne e nel materiale pubblicitario da imprese concorrenti apporta una differenza marginale, tale da passare inosservata agli occhi del destinatario dei servizi, per il quale quindi si determina in concreto un rischio di confusione e di indebita associazione.

Il rischio di confusione e associazione tra segni distintivi integra di per sé un pregiudizio imminente e irreparabile, essendo astrattamente idoneo a cagionare la diluzione della forza attrattiva del segno già noto nel mercato di riferimento, sicché, laddove accertato, possono ritenersi sussistenti i requisiti necessari per la concessione della misura cautelare dell’inibitoria.

La fattispecie dello storno di dipendenti presuppone modalità di reclutamento, sotto il profilo qualitativo e quantitativo, abnormi, ossia tali da eccedere i normali limiti di tollerabilità. In particolare, laddove non risulti che l’impresa stornata abbia dovuto sostenere ingenti sforzi aggiuntivi o difficoltà di altro genere al fine di predisporre la riorganizzazione aziendale, deve concludersi che lo storno non abbia dato luogo a una situazione di eccezionalità sotto il profilo gestionale e pertanto non è sanzionabile. A ciò si aggiunga che il requisito necessario ai fini della configurazione della fattispecie di cui all’art. 2598, n. 3, c.c. è l’animus nocendi, in mancanza del quale non può dirsi che la migrazione di professionisti verso un’impresa concorrente possa presentare i tratti di una sottrazione parassitaria di avviamento, non esorbitando i normali limiti della competizione.

L’accertamento della fattispecie dello sviamento di clientela presuppone la dimostrazione dell’esistenza di perdite patrimoniali dell’impresa che ha subito lo sviamento corrispondenti a un equivalente incremento (patrimoniale) dell’impresa concorrente.

Non integra la fattispecie degli atti denigratori di cui all’art. 2598, n. 2, c.c. la diffusione di notizie (in relazione ad un’impresa concorrente) relative all’introduzione di un sistema di prenotazioni mediante call center in luogo del corrispondente servizio offerto dal personale amministrativo, data la mancanza di profili di disvalore sulla qualità dei servizi di impresa. Analoghe considerazioni valgono in ordine alla diffusione della notizia del trasferimento dell’impresa concorrente presso altro indirizzo, in quanto parimenti inidonea ad integrare un atto denigratorio.

Principi espressi nel giudizio di reclamo avverso l’ordinanza emessa all’esito del ricorso ex art. 700 c.p.c. promosso da una s.r.l. nei confronti dell’ex dipendente e della società concorrente, al fine di ottenere la tutela inibitoria e il risarcimento dei danni patiti in conseguenza di condotte contrarie a buona fede e di concorrenza sleale.

Nel dettaglio, la ricorrente/reclamante lamentava lo storno di dipendenti (medici), lo sviamento di clienti (pazienti), la diffusione di informazioni false o denigratorie e l’utilizzo di un segno grafico distintivo idoneo ad ingenerare confusione (costituito da un acronimo).

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 20 marzo 2019 – Presidente: Dott. Donato Pianta – Consigliere relatore: Dott. Giuseppe Magnoli

In
tema di contratto di locazione finanziaria, l’eventuale invalidità della
clausola relativa al tasso moratorio non si estende a quella relativa all’interesse
corrispettivo, che resta valida e pienamente efficace anche nel caso in cui la prima
risulti nulla perché usuraria.

In
tema di locazione finanziaria, nel caso in cui: a) il costo di acquisto del
bene; b) i tassi applicati, corrispettivi e moratori, c) il numero e l’ammontare
delle rate, fisso ed invariabile per tutta la durata del contratto, salvo
modifiche successive concordate dalle parti; d) il corrispettivo globale del leasing,
dato dalla sommatoria delle rate mensili, e) l’ammontare del corrispettivo dell’opzione
d’acquisto e il regime fiscale applicato al contratto, siano indicati sin dall’origine
del rapporto contrattuale deve ritenersi pienamente soddisfatta la prescrizione
di cui all’art. 117, co. 4, TUB, per la quale devono essere indicati in
contratto “il tasso di interesse applicato e ogni altro prezzo e condizione praticati,
inclusi, per i contratti di credito, gli eventuali maggiori oneri in caso di
mora
”, mentre non è richiesta l’esplicita determinazione del TAEG. Infatti
il TAEG e l’ISC non rientrano nel contenuto tipico determinato del contratto di
locazione finanziaria secondo le prescrizioni che la Banca d’Italia ha adottato
in attuazione dell’art. 117, co. 8, TUB.

I principi sono stati espressi nel giudizio di
appello promosso da una s.r.l. nei confronti della società di leasing, con cui
chiedeva la trasformazione del contratto di locazione finanziaria da oneroso a
gratuito ai sensi dell’art. 1815 c.c. per effetto del riscontro dell’usurarietà
del tasso mora e l’accertamento della nullità della clausola relativa al tasso
di interesse.

(Massime
a cura di Marika Lombardi)




Decreto del 7 marzo 2019 – Presidente: dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice relatore: dott.ssa Angelina Augusta Baldissera

Ai sensi dell’art. 161 l.f. la domanda di ammissione al concordato preventivo deve indicare l’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che il proponente si obbliga ad assicurare a ciascun creditore; in caso di concordato con continuità indiretta, essa consiste nelle favorevoli conseguenze per la massa dei creditori derivanti dall’affitto e cessione unitaria dell’azienda, più vantaggiosi della liquidazione atomistica dei singoli beni e in grado di preservarne l’avviamento commerciale.

In ossequio a quanto disposto dall’art. 182-ter l.f., se il credito tributario o contributivo ha natura chirografaria il trattamento non può essere differente in caso di suddivisione dei creditori in classi, rispetto a quello dei creditori per i quali è previsto un trattamento più favorevole.

Principi espressi in sede di ammissione al concordato preventivo con continuità indiretta; tuttavia, essendo stata presentata un’offerta di acquisto di azienda da parte dell’affittuario, è stata disposta l’apertura di un procedimento competitivo ex art. 163-bis l.f. anche con riferimento all’affitto dell’azienda.

(Massima a cura di Francesco Maria Maffezzoni)