Tribunale di Brescia, sentenza del 28 maggio 2024, n. 2179 – trascrizione della domanda volta a ottenere l’esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c., effetti dell’azione ex art. 2932 trascritta, opponibilità sentenza di fallimento iscritta nel registro delle imprese, trascrizione sentenza costitutiva

La trascrizione della domanda diretta a ottenere l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre ai sensi dell’art. 2932 c.c., avvenuta prima dell’iscrizione della sentenza di fallimento del promittente venditore nel Registro delle Imprese, non impedisce al curatore di esercitare il potere di sciogliersi dal contratto preliminare ex art. 72 L. Fall.; tuttavia, la dichiarazione di scioglimento non è opponibile, in ragione di quanto previsto dall’art. 2652 n. 2 c.c., al promissario acquirente che ha proposto e trascritto la domanda ex art. 2932 c.c., qualora quest’ultima sia accolta e la sentenza costitutiva sia a propria volta trascritta (Cfr. Cass. n. 18131/2015).

L’azione ex art. 2932 c.c. trascritta produce gli stessi effetti sia che venga promossa contro il fallimento del promittente venditore che contro il fallimento del promissario acquirente, nel regime del potere di scioglimento del curatore ex art. 72 L. Fall. regolato dal D. Lgs. n. 5/2006 e s.m.i.

La sentenza di fallimento iscritta nel registro delle imprese a norma dell’art. 17 L. Fall. produce effetti nei confronti dei terzi, ed è loro opponibile, a partire dalla data della sua iscrizione.

La trascrizione della sentenza costitutiva, indispensabile al perfezionamento dell’effetto prenotativo della trascrizione della domanda e all’opponibilità degli effetti della pronuncia al fallimento, non viene ordinata dal giudice ma deve essere eseguita dall’interessato a norma dell’art. 2658 c.c.

Principi espressi nell’ambito di un procedimento instaurato da una società a responsabilità limitata unipersonale per chiedere l’esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c., di un contratto preliminare di compravendita stipulato e sottoscritto con una società a responsabilità limitata in liquidazione.

In particolare, la domanda giudiziale ex art. 2932 c.c. promossa dalla promittente venditrice era stata trascritta nei registri immobiliari in data anteriore alla sentenza di fallimento e alla relativa iscrizione, oltre che annotata a margine della trascrizione del contratto preliminare ai sensi dell’art. 2645 bis, co. 3, c.c.; sulla base di tale rilievo, la parte attrice aveva invocato l’inopponibilità nei suoi riguardi della dichiarazione del curatore fallimentare di volersi sciogliere dal rapporto contrattuale pendente ai sensi dell’art. 72 della L. Fall.

(Massime a cura di Vanessa Battiato)




Tribunale di Brescia, sentenza del 17 maggio 2024, n. 1688 – Azione di responsabilità, Svalutazione crediti, Liquidazione società di capitali, Perdita di capitale, Responsabilità solidale

Il dies a quo del termine quinquennale di prescrizione per l’azione di responsabilità ex art. 146, comma 2, l.fall. non è rappresentato dalla data in cui viene compiuta la violazione bensì dal momento in cui avviene la cessazione dalla carica di amministratore.

In fase di redazione del bilancio, in ossequio al criterio della prudenza, gli amministratori devono procedere con la svalutazione dei crediti dei clienti falliti per l’intero importo iscritto in bilancio.

L’impegno del socio ad eseguire in futuro un versamento “in conto capitale” a copertura delle perdite, sortisce i medesimi effetti del versamento stesso. Infatti, in entrambi i casi, nel patrimonio della società entra infatti una attività (il credito o il denaro versato) senza una contropartita passiva.

Colui che agisce in giudizio per il risarcimento danni nei confronti degli amministratori di una società di capitali che, dopo il verificarsi di una causa di scioglimento, hanno compiuto attività gestorie con finalità non meramente conservativa del patrimonio sociale (art. 2486 c.c.), ha l’onere di allegare e provare l’esistenza dei fatti costitutivi della domanda. In particolare, è necessario provare sia: i) la ricorrenza delle condizioni per lo scioglimento della società che ii) il successivo compimento di atti negoziali da parte degli amministratori. Tuttavia, non è tenuto a dimostrare che tali atti siano espressione della normale attività d’impresa e non abbiano una finalità liquidatoria. Infatti, spetta agli amministratori convenuti dimostrare che tali atti, benché effettuati in epoca successiva allo scioglimento, non comportino un nuovo rischio d’impresa (come tale idoneo a pregiudicare il diritto dei creditori e dei soci) ma erano giustificati dalla finalità liquidatoria (Cfr. Cass. 198 del 2022).

In caso di perdita del capitale sociale, al fine di valutare se porre la società in liquidazione o se chiedere l’ammissione ad una procedura concorsuale, gli amministratori devono verificare se il patrimonio della società, una volta posta in liquidazione, sia ragionevolmente in grado di assicurare l’integrale soddisfacimento dei creditori, pur al netto di eventuali transazioni effettuate in tale sede.

In tema di risarcimento del danno da responsabilità nei confronti dell’amministratore, il meccanismo di liquidazione del “differenziale dei netti patrimoniali” – previsto dall’art. 2486, comma 3, c.c., a seguito della novella apportata dall’art. 378, comma 2, del d.lgs. n. 14 del 2019 (CCII) – è applicabile, in quanto latamente processuale, anche ai giudizi in corso al momento della entrata in vigore di detta norma. Infatti, questa stabilisce non un nuovo criterio di riparto di oneri probatori, ma un criterio, rivolto al giudice, di valutazione del danno rispetto a fattispecie integrate dall’accertata responsabilità degli amministratori per atti gestori non conservativi dell’integrità e del valore del capitale dopo il verificarsi di una causa di scioglimento della società (cfr. Cass. 5252/2024)

Gli oneri finanziari per il periodo della liquidazione su debiti (verso banche, verso soci ed altri finanziatori) iscritti nel bilancio iniziale di liquidazione (gli oneri maturati fino a tale data sono già iscritti nel rendiconto degli amministratori), comprese le rate relative a contratti di leasing (quota capitale ed interessi) devono essere computati tra gli oneri di liquidazione.

In ragione del fatto che, ai sensi dell’art. 2381 c.c., non possono essere oggetto di delega, gli adempimenti relativi alla redazione del bilancio di esercizio, la responsabilità derivante dalla sua errata redazione e dall’omesso adempimento degli obblighi conseguenti la perdita del capitale sociale deve essere imputata solidalmente a tutti i membri del consiglio di amministrazione e non solo a quelli che si erano arrogarti di tali prerogative in via esclusiva.

La responsabilità degli amministratori e dei sindaci di società ha natura solidale, pertanto, in caso di transazione fra uno dei coobbligati ed il danneggiato, l’art. 1304, comma 1, c.c. si applica soltanto se la transazione abbia riguardato l’intero debito solidale, mentre, laddove l’oggetto del negozio transattivo sia limitato alla sola quota del debitore solidale stipulante, la norma resta inapplicabile. In questo modo, per effetto della transazione, il debito solidale viene ridotto dell’importo corrispondente alla quota transatta, producendosi lo scioglimento del vincolo solidale tra lo stipulante e gli altri condebitori, i quali, di conseguenza, rimangono obbligati nei limiti della loro quota. (cfr. Cass. 16050/2009).

Principi espressi nell’ambito di un procedimento in cui il Curatore chiedeva al Tribunale la condanna dei liquidatori al risarcimento dei danni arrecati alla Società. In particolare, la parte attrice lamentava il fatto che gli amministratori hanno proseguito lo svolgimento dell’attività d’impresa, nonostante il capitale sociale fosse stato integralmente eroso.

(Massime a cura di Edoardo Compagnoni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 13 maggio 2024, n. 1917 – credito di firma, esposizione contestata, erronea/illegittima segnalazione in Centrale Rischi, risarcimento del danno, nesso di causalità

In forza delle indicazioni contenute nella circolare n. 139 dell’11.2.1991 della Banca d’Italia, la scadenza della fideiussione integra evento estintivo del rapporto di garanzia legittimante l’azzeramento dell’accordato operativo, sicché la Banca è obbligata a censire l’azzeramento dell’“accordato” e “dell’accordato operativo”, modificando in tal modo la segnalazione iniziale. In presenza di accertamento giudiziale dotato di indiscutibile coerenza e chiarezza, e di impugnazioni della soccombente fondate su argomenti privi di supporto probatorio ed espressione di un contegno processuale contraddittorio e ondivago, la condotta della banca di voler attendere il passaggio in giudicato della declaratoria di inefficacia della garanzia prima di procedere alla rettifica del censimento in coerenza con il suddetto accertamento giudiziale non può ritenersi conforme ai doveri dell’intermediario in materia di segnalazioni in Centrale Rischi e al generale canone della buona fede: scaduto il termine di tale garanzia senza che nelle more sia stato efficacemente esercitato il diritto di pagamento da parte della beneficiaria, il mantenimento dell’importo dell’utilizzato non trova giustificazione alcuna. Non può dunque trovare accoglimento la tesi per cui, a fronte dell’azzeramento dell’accordato, la Banca possa mantenere l’originario “utilizzato” sino al passaggio in giudicato, anche nei confronti della beneficiaria, della sentenza che ha dichiarato scaduta e inefficace la garanzia, sostenendo che sino a tale evento non si sia verificata alcuna delle condizioni previste dal par. 8, sez. I, cap. II della circolare 139 della Banca d’Italia per il relativo azzeramento.

In presenza di contenzioso promosso dal cliente, il censimento del credito di firma come “non contestato” appare gravemente contrario ai canoni di accuratezza, completezza e pertinenza delle informazioni sanciti dalla normativa di settore, a nulla rilevando che nelle plurime diffide inviate alla Banca la cliente abbia omesso uno specifico riferimento alla erronea rilevazione anche dello stato del rapporto. Con il tredicesimo aggiornamento entrato in vigore il 4 marzo 2010, la circolare n. 139 dell’11.2.1991 della Banca d’Italia ha previsto espressamente che l’intermediario è tenuto a dar conto dell’esistenza di una contestazione concernente la segnalazione, ogni qual volta il cliente abbia sollevato eccezioni promuovendo un giudizio davanti ad un’autorità terza, a prescindere dalla valutazione circa la fondatezza delle eccezioni fatte valere. In tal modo, gli intermediari che accedono al sistema centralizzato, oltre ad avere evidenza della segnalazione del credito come sofferenza o come credito scaduto o sconfinante, apprendono della pendenza di una contestazione relativa alla posizione segnalata e, conseguentemente, della possibilità che il presupposto su cui detta segnalazione si fonda sia, in realtà, insussistente. La giurisprudenza oramai consolidata riconosce indubbia rilevanza alla evidenza di eventuale “contestazione” nelle segnalazioni effettuate dagli istituti di credito, chiarendo come detto stato del rapporto consenta di arguire che il mancato rientro (o gli altri eventi idonei a rappresentare un rischio) è dovuto non necessariamente ad una negativa valutazione dell’affidabilità del cliente, potendo piuttosto dipendere dalla eventualità che la pretesa non sia fondata.

Il nesso causale in tema di responsabilità civile, contrattuale o extracontrattuale  è regolato dai principi di cui agli artt. 40 e 41 c.p., per i quali un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della “condicio sine qua non”), nonché dal criterio della c.d. causalità adeguata, sulla base del quale, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiono – ad una valutazione “ex ante” – del tutto inverosimili.

La valutazione del nesso causale in sede civile presenta, rispetto all’accertamento penale, notevoli discrepanze in relazione al regime probatorio applicabile: a differenza di quanto richiesto in sede penale (ove vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”), nel processo civile vige la regola della “preponderanza dell’evidenza” (altrimenti definita del “più probabile che non”), in coerenza con il principio eurounitario della effettività della tutela giurisdizionale.

L’accertamento del nesso causale in sede civile richiede la concorrente valutazione, da un lato, della (astratta) idoneità della condotta a cagionare il danno lamentato, dall’altro, della (effettiva) correlazione con l’evento in concreto verificatosi, apprezzata sulla scorta delle circostanze esistenti nella loro irripetibile singolarità per come emergenti dall’istruzione probatoria condotta nel processo, sicché non potrà ritenersi sussistente il nesso di causalità tra la condotta illegittima e il pregiudizio prospettato come sua possibile e normale conseguenza, qualora essa, pur se astrattamente idonea a provocare il danno lamentato, non ne costituisca l’effettiva ragione, per essere questo riconducibile in concreto – secondo la valutazione del giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità soltanto sotto il profilo della inadeguatezza o illogicità della motivazione – ad un fatto diverso, idoneo a interrompere il nesso di causalità.

Tutti gli antecedenti in mancanza dei quali un evento dannoso non si sarebbe verificato debbono considerarsi sue cause, abbiano essi agito in via diretta e prossima, o in via indiretta e remota, salvo il temperamento contemplato al capoverso dell’art. 41 c.p., secondo cui la causa prossima sufficiente da sola a produrre l’evento esclude il nesso eziologico fra questo e le altre cause antecedenti, facendole scadere al rango di mere occasioni; pertanto, al fine di escludere che un determinato fatto abbia concorso a cagionare un danno, non basta affermare che il danno stesso avrebbe potuto verificarsi anche in assenza di quel fatto, ma occorre dimostrare, avendo riguardo a tutte le circostanze del caso concreto, che il danno si sarebbe egualmente verificato senza quell’antecedente.

Qualora la produzione dell’evento di danno risulti riconducibile alla concomitanza di una condotta umana e di una causa naturale (o comunque di un fattore estrinseco al comportamento umano imputabile), l’autore del fatto risponde, in base ai criteri della causalità naturale, di tutti i danni che ne sono derivati, non potendo, in tal caso, operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, poiché una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile (cfr. Cass. n. 5737/2023; Cass. n. 30521/2019).

Mentre sul piano della causalità materiale non rileva che i danni siano stati causati anche da eventi esterni alla condotta umana (a meno che gli stessi non siano stati sufficienti a determinare l’evento di danno indipendentemente da tale comportamento), la concomitanza di plurimi fattori causali può incidere sulla stima del danno, ossia sul piano della causalità giuridica, legittimando una proporzionale riduzione volta a identificare il solo danno eziologicamente riferibile alla condotta presa in esame (ex multis, Cass. n. 13037/2023).

Il diritto al risarcimento in relazione ad un eventuale aggravamento che si verifichi nel corso del giudizio non configura una nuova posta risarcitoria, facendo parte della domanda originaria di risarcimento (cfr. Cass. n. 23220/2005; Cass. n. 8292/2008; Cass. n. 1281/2003).

La natura di debito di valore dell’obbligazione risarcitoria (anche derivante da responsabilità contrattuale: cfr. Cass. n. 37798/2022) impone che sull’importo liquidato vadano conteggiati gli interessi compensativi del danno derivante dal mancato tempestivo godimento dell’equivalente pecuniario del bene perduto: secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite della Suprema Corte (n. 1712/1995), tali interessi decorrono dalla produzione dell’evento di danno sino al tempo della liquidazione e si calcolano sulla somma via via rivalutata nell’arco di tempo suddetto e non sulla somma già rivalutata (cfr. Cass. n. 4791/2007).

Principi espressi nell’ambito di un giudizio promosso per l’accertamento della responsabilità risarcitoria di Istituto di Credito per mancata cancellazione di posizione fideiussoria segnalata in Centrale Rischi sebbene non escussa e scaduta nonché per l’erroneo censimento quale posizione “non contestata”, sebbene la società attrice avesse censurato la pretesa della banca convenendola in giudizio.  Il Tribunale, accertata l’erronea/illegittima segnalazione in Centrale Rischi, a seguito di un rigoroso esame dell’andamento degli affidamenti della società attrice e dei possibili riflessi sui risultati dell’attività d’impresa, ha verificato e quantificato, sulla scorta dei formulati principi in materia di nesso di causalità, il pregiudizio patrimoniale effettivamente riconducibile agli inadempimenti dell’intermediario.

(Massime a cura di Ambra De Domenico)




Tribunale di Brescia, sentenza del 10 maggio 2024, n. 1889 – disegno o modello comunitario, disegno internazionale, oggetto della registrazione, contraffazione.

Il Regolamento (CE) n. 6/2002 del 12 dicembre 2001 sui disegni e modelli comunitari attribuisce al titolare di un disegno o modello comunitario sia diritti (fra i quali, a titolo esemplificativo, quelli di privativa) che il beneficio di una protezione uniforme sull’intero territorio dell’Unione europea. Analogamente, la registrazione internazionale produce gli stessi effetti di una registrazione effettuata direttamente nei paesi designati. La predetta protezione uniforme non è, inoltre, limitata ai disegni o modelli identici a quello registrato, ma si estende, altresì, a quelli che presentano differenze, sempreché esse non siano tali da creare un’impressione generale differente sulla base della complessiva interazione dei singoli elementi che li compongono.

In tema di proprietà industriale, la verifica circa la sussistenza di una contraffazione di un modello comunitario – da condursi valutando se il nuovo modello non susciti nel c.d. utilizzatore informato la stessa impressione generale del precedente, sulla base delle caratteristiche estetiche e tenendo conto del settore merceologico più o meno affollato da prodotti simili – integra un giudizio di fatto riservato al giudice di merito. Non vi è, pertanto, la possibilità di sollecitare, in sede di legittimità, un giudizio alternativo più favorevole che sia afferente ai medesimi elementi già oggetto del prudente apprezzamento del giudice (cfr. Cass. n. 23975/2020).

L’art. 31, co. 1, c.p.i., rubricato “Oggetto della registrazione”, prevede che il disegno o modello comunitario tuteli l’aspetto esteriore del prodotto dal punto di vista delle caratteristiche delle linee, dei contorni, dei colori, della forma, della struttura superficiale, dei materiali ovvero del suo ornamento. Identiche considerazioni valgono per il disegno internazionale. Con particolare riferimento alle differenze di colore occorre, tuttavia, rilevare che le stesse non assumono rilevanza in concreto, ai fini del giudizio di interferenza, laddove: a) l’ambito di protezione dei disegni registrati fatti valere non risulti circoscritto all’impiego di determinati colori; b) l’utilizzo di colori differenti non conferisca al prodotto commercializzato un aspetto significativamente differente rispetto a quello oggetto di protezione.

Le differenze di peso e di dimensioni di un macchinario – che risulta, nel resto, copia identica di un altro il cui disegno è registrato – sono, in astratto, elementi inidonei ad escludere la contraffazione, trattandosi di caratteristiche che esulano dall’ambito di protezione dei disegni comunitari e che sono, pertanto, irrilevanti ai fini del giudizio di interferenza.

Le violazioni dei diritti industriali rilevano su base esclusivamente oggettiva, talché l’eventuale ignoranza di ledere il diritto altrui non dispiega alcuna efficacia “scriminante”.

Princìpi espressi nel giudizio di merito volto ad ottenere, inter alia, i provvedimenti definitivi di conferma delle misure già ottenute, in via cautelare ante causam, dell’inibitoria della commercializzazione di macchinari contraffattori delle privative vantate dall’attrice (disegni comunitari registrati, marchi figurativi registrati, marchi di forma di fatto, diritto d’autore), del sequestro industriale, del ritiro dal commercio, della pubblicazione del provvedimento.   

(Massime a cura di Giulio Bargnani)




Tribunale di Brescia, sentenza del 2 maggio 2024, n. 1755 – società a responsabilità limitata, gestione dell’organo amministrativo sostanzialmente liquidatoria, par condicio creditorum, responsabilità dell’organo amministrativo verso i creditori sociali

La responsabilità degli amministratori di s.r.l. verso i creditori sociali per l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, già prima della novella dell’art. 2476, c. 6, c.c. operata dal d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, era principio affermato dalla giurisprudenza (sul punto, cfr. Cass. n. 23452/2019), applicando analogicamente l’art. 2394 c.c.

Qualora la gestione ordinaria di una società a responsabilità limitata sia di fatto cessata tramutandosi in una gestione sostanzialmente liquidatoria e l’attivo patrimoniale sia insufficiente a soddisfare il ceto creditorio, dovrà essere rispettato dall’organo amministrativo il principio della par condicio creditorum nel pagamento dei debiti della società, salvi gli eventuali diritti di preferenza dei creditori aventi una causa di prelazione, a pena di responsabilità ex art. 2394 c.c. o ex art. 2476, c. 6, c.c., nel testo attualmente vigente. L’organo amministrativo risponde pertanto nei confronti dei creditori non soddisfatti per l’inadempimento dei doveri di conservazione del patrimonio sociale nella peculiare conformazione – comportante il rispetto della regola della par condicio creditorum pur in una fase antecedente al formale avvio del procedimento di liquidazione – che questi assumono nello scenario evocato.

In presenza dei presupposti summenzionati (gestione sostanzialmente liquidatoria e attivo patrimoniale insufficiente a soddisfare l’intero ceto creditorio), il mancato rispetto da parte dell’organo amministrativo del principio della par condicio creditorum nel pagamento dei debiti della società, secondo il loro ordine di preferenza, espone altresì gli amministratori a responsabilità ex art. 2395 c.c. o ex art. 2476, c. 7, c.c., nella versione attualmente vigente, nei confronti del creditore pretermesso nel pagamento dei debiti sociali in violazione della par condicio creditorum e, pertanto, direttamente danneggiato dalla condotta degli amministratori.

Princìpi espressi nell’ambito di un giudizio di primo grado, promosso da un creditore di una società a responsabilità limitata nei confronti dell’amministratore unico, deducendo la responsabilità dell’amministratore per avere omesso, in violazione del principio della par condicio creditorum, il pagamento del suo credito (in parte garantito da privilegio) – diversamente da altri crediti anche di rango inferiore vantati pure da imprese riconducibili al convenuto – in una situazione di cessazione della gestione ordinaria della società e avvio di fatto della liquidazione.

(Massime a cura di Giovanni Gitti)




Tribunale di Brescia, decreto n. 57 del 26 aprile 2024 – società a responsabilità limitata, convocazione giudiziaria dell’assemblea sociale, applicabilità dell’articolo 2367 c.c. alle s.r.l., esclusione, forme alternative di convocazione dell’assemblea

Appare inestensibile la disciplina prevista dall’art. 2367 c.c. in tema di s.p.a., stante il mancato richiamo nella disciplina novellata delle s.r.l. Ciò in quanto tale disciplina, nel testo risultante dalla riforma di cui al d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, ha differenziato fortemente la disciplina delle s.r.l. da quella delle s.p.a., eliminando la tecnica del rinvio in favore di un principio di autonomia e potenziale onnicomprensività della normativa sulla s.r.l. Deve pertanto escludersi l’estensione analogica del meccanismo procedurale di convocazione previsto dall’art. 2367 c.c., già in linea di principio dissonante con la rigidità dei diversi tipi societari (Cass. n. 10821/2016).

Nel silenzio della legge e nell’eventuale silenzio dello statuto, il meccanismo alternativo per la convocazione dell’assemblea della s.r.l., in caso di omessa convocazione da parte degli amministratori, può essere correttamente individuato nel potere di convocazione dell’assemblea da parte del socio di maggioranza, titolare di almeno un terzo del capitale, in caso di inerzia dell’organo di gestione (Cass. n. 10821/2016).

Principi espressi in relazione a un caso di ricorso ex art. 2367 c.c. promosso per la convocazione dell’assemblea di una s.r.l., asseritamente omessa in modo abusivo dall’amministratore, da parte di un creditore pignoratizio possessore della totalità delle quote della predetta società nei confronti della società medesima e dei suoi soci.

(Massime a cura di Leonardo Esposito)




Tribunale di Brescia, sentenza dell’8 aprile 2024, n. 1473 – invalidità deliberazione di esclusione del socio, legittimità della deliberazione, obbligo di motivazione

L’invalidità della deliberazione di esclusione del socio dalla compagine sociale può derivare anche da vizi inerenti alla completezza della motivazione dell’esclusione; infatti, tale delibera rientra in quel novero di decisioni degli organi sociali che sono soggette all’obbligo di motivazione, funzionale ad assicurare il diritto di difesa del socio in sede di opposizione nonché a consentire il controllo dell’organo giudicante sulla legittimità della deliberazione (cfr. Cass. n. 15647/2020).

La legittimità della delibera di esclusione del socio è ravvisabile, oltre che dall’effettiva ricorrenza della causa di esclusione sottesa al provvedimento di estromissione impugnato e dalla sua riconducibilità fra quelle previste dalla legge ovvero dallo statuto, anche dalla congruità della motivazione adottata a sostegno dell’esclusione, restando preclusa soltanto l’indagine sull’opportunità del provvedimento.

L’obbligo di motivazione nella delibera di esclusione può ritenersi assolto allorquando comprenda l’enunciazione degli addebiti sollevati nei confronti del socio, che integrino violazioni di gravità tale da giustificare, per legge o statutariamente, la sua esclusione dalla compagine sociale. Ciò, in quanto, non può ritenersi superata dalla dedotta previa conoscenza da parte del socio degli addebiti sollevati nei suoi confronti.

Principi espressi nel giudizio di opposizione promosso da una società semplice avverso la delibera di esclusione del socio dalla compagine sociale, adottata dal Consiglio di amministrazione di una società agricola cooperativa a responsabilità limitata.

In particolare, l’opponente lamentava: i) l’irregolarità della notifica; ii) la genericità del contenuto della delibera per omessa indicazione dei motivi di esclusione; e iii) l’assenza di giustificati motivi addebitabili al socio ai fini della sua esclusione.

(Massime a cura di Edoardo Compagnoni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 3 aprile 2024, n. 1389 – impugnazione della delibera di approvazione del bilancio di esercizio, legittimazione attiva e passiva, abuso di maggioranza

Il socio-amministratore di una società di capitali è legittimato all’impugnazione della delibera assembleare di approvazione del bilancio anche nell’ipotesi in cui, nella sua qualità di membro dell’organo amministrativo, abbia precedentemente contribuito all’approvazione del relativo progetto di bilancio, posto che l’art. 2379 c.c., sancendo la legittimazione ad agire per la declaratoria della nullità di “chiunque vi abbia interesse”, non prevede, in relazione a tale evenienza, alcuna restrizione al diritto di impugnazione e  che la parte, esercitando funzioni e ruoli distinti (quello di socio e quello di amministratore), ben può esprimere due diverse valutazioni, senza violare il divieto di venire “contra factum proprium” (cfr. Cass. n. 29325/2020; Cass. n. 15592/2000; Cass. n. 16388/2007).

Nei giudizi di impugnazione di deliberazioni assunte dall’assemblea di società di capitali, legittimata passiva è unicamente la società, dalla quale promana la manifestazione di volontà che è oggetto dell’impugnazione. I singoli soci – che laddove assenti, dissenzienti o astenuti sono titolari del diritto all’impugnativa unitamente agli amministratori e al collegio sindacale – non sono legittimati a resistere all’azione, potendo al più intervenire in giudizio in posizione che la giurisprudenza qualifica come adesivo-dipendente rispetto alle ragioni della società, posizione dalla quale non deriva il diritto all’autonoma impugnazione della sentenza. I soci, d’altra parte, per espressa previsione di legge (cfr. art. 2377, co. 7, c.c. applicabile alle s.r.l. in forza del richiamo contenuto all’art. 2479-ter, ult.co., c.c.), anche ove non impugnanti o parti in causa, subiscono gli effetti dell’annullamento della deliberazione, seppur in via riflessa e non diretta (cfr. in motivazione Cass. n. 4652/2006).

In caso di impugnazione della delibera di approvazione del bilancio per anomalie connesse al risultato finale di esercizio, rapportato ai risultati degli anni precedenti, è necessaria una contestazione specifica delle voci del bilancio e non è sufficiente una doglianza di difetto di chiarezza delle cause del saldo positivo o negativo, posto che il risultato finale di esercizio è l’esito della differenza tra ricavi e costi di una azienda (potendo essere positivo – utile – se i ricavi sono maggiori del totale dei costi e negativo – perdita – se i costi superano i ricavi) ed è, pertanto, la conseguenza delle varie componenti, attive e passive, registrate nel documento informativo.

In caso di impugnazione di una delibera assembleare per abuso della maggioranza, è necessaria la prova dell’interesse personale antitetico a quello sociale perseguito dalla maggioranza con la deliberazione impugnata, nonché della lesione, almeno potenziale, dei diritti di partecipazione o patrimoniali dei soci di minoranza operata a mezzo della decisione.

Principi espressi nel giudizio di impugnazione della deliberazione assembleare di approvazione del bilancio di esercizio di una società a responsabilità limitata, nel corso del quale gli attori avevano contestato la voce del bilancio “finanziamento soci”, l’andamento degli ultimi bilanci della società e avevano lamentato un presunto “abuso di maggioranza” (contestazioni rigettate nel merito dal Tribunale).

(Massime a cura di Vanessa Battiato)




Tribunale di Brescia, sentenza del 11 marzo 2024, n. 957 – successione, recesso eredi

La parte che abbia un titolo legale che le conferisca il diritto di successione ereditaria, come la vedova o i figli del “de cuius”, che sono eredi legittimi e legittimari, non è tenuta a dimostrare di avere accettato l’eredità, qualora proponga in giudizio domande che di per sé manifestino la volontà di accettare, gravando, in questi casi, su chi contesti la qualità di erede l’onere di eccepire la mancata accettazione dell’eredità ed eventualmente i fatti idonei ad escludere l’accettazione tacita, che appare implicita nel comportamento dell’erede (cfr. Cass. n. 21288/2011; Cass. n. 22223/2014; Cass. n. 6745/2018).

Quanto al diritto di recesso, l’art. 2473, primo comma, c.c. predetermina le ipotesi legali di recesso dalla s.r.l. contratta a tempo determinato, rimandando ai patti sociali per eventuali ulteriori ipotesi e per le modalità di esercizio.

Nel caso in cui non sia ancora stato deliberato l’aumento di capitale o la proroga del termine di durata della società, espressamente previsti dallo statuto quali ipotesi legittimanti il recesso del socio dissenziente o assente nelle relative decisioni, ogni ipotetica manifestazione di volontà, formalizzata o meno dagli eredi del socio secondo i canoni statutari, pervenuta prima della assemblea straordinaria in cui si sarebbe deliberata una delle predette decisioni legittimanti il recesso del socio dissenziente o assente, non avrebbe comunque potuto integrare valido esercizio del diritto di recesso. Gli eredi, infatti, solo all’esito della predetta deliberazione, formalizzato il proprio dissenso, avrebbero potuto esercitare validamente il diritto di recesso dalla società.

L’art. 2484, terzo comma, c.c. stabilisce che la pubblicità del fatto dissolutivo abbia efficacia costitutiva: ne consegue che la società non poteva considerarsi in stato di liquidazione prima e in mancanza dell’iscrizione presso l’ufficio del registro delle imprese della dichiarazione con cui gli amministratori avessero accertato la causa di scioglimento (i.e. decorso del termine), né la prosecuzione di fatto dell’impresa poteva integrare “revoca implicita” dello stato di liquidazione.

Va escluso che la volontà del socio di maggioranza di proseguire l’attività sociale sottoforma di s.r.l. unipersonale, integri la prova della “conoscenza” o addirittura dell’“accettazione” da parte dell’amministratore unico del recesso delle attrici e dunque valga quale attestazione della validità dello stesso.

Non può ritenersi violato l’art. 1337 c.c. dal socio superstite, quando dall’ordine del giorno contenuto nell’avviso di convocazione dell’assemblea straordinaria e dalle dichiarazioni rese a verbale dallo stesso si dava per acquisito il valido esercizio del diritto di recesso da parte degli eredi del de cuius, inducendo questi a non formalizzare con raccomandata il loro recesso dalla società a seguito della deliberata proroga del termine della stessa, circostanza legittimante il recesso del socio dissenziente o assente.

Principi espressi nell’ambito di un giudizio, dinanzi al Tribunale, volto ad accertare, in via principale, la validità del recesso esercitato dagli eredi del socio di minoranza di una s.r.l. e a far condannare quest’ultima a liquidare la loro quota di minoranza. In subordine, al fine di far condannare il socio di maggioranza e amministratore unico al risarcimento del danno arrecato ai soci di minoranza per violazione dei doveri di buona fede avendo indotto gli attori a ritenere validamente esercitato il recesso dalla società.

(Massime a cura di Edoardo Abrami)




Tribunale di Brescia, sentenza del 6 marzo 2024, n. 893 – trasporto aereo, trasporto di persone, responsabilità del vettore per danni derivati al passeggero da ritardo del volo, compensazione pecuniaria

Il vettore aereo operativo può ridurre del 50% la compensazione pecuniaria qualora il ritardo del volo non superi le quattro ore. La facoltà discrezionale accordata al vettore non può, tuttavia, tradursi in mero arbitrio, risultando perciò sindacabile in sede giurisdizionale, in caso di dissenso fra le parti, sotto i profili di ragionevolezza e buona fede.

Principi espressi nel giudizio di appello promosso da una incorporation contro la sentenza del Giudice di Pace per non aver riconosciuto la facoltà per il vettore aereo di ridurre l’importo della compensazione pecuniaria, dovuta al passeggero di un volo ritardato, al 50% ai sensi dell’art. 7, co. 2, del Regolamento (CE) n. 261/2004.

Il Tribunale, trattandosi di un ritardo assai prossimo alla soglia delle quattro ore e, dunque, inidoneo a giustificare il riconoscimento da parte della compagnia aerea della compensazione pecuniaria dimezzata, dichiarava la debenza della compensazione nell’intera misura ex art. 7, par. 1, Reg. (CE) n. 261/2004.

(Massime a cura di Luisa Pascucci)