Corte di Appello di Brescia, sentenza del 20 luglio 2023, n. 1241 – credito ai consumatori, mediazione obbligatoria, TAEG, piano di ammortamento c.d. “alla francese”, anatocismo

Il credito ai consumatori è regolato dagli artt. 121 ss. del Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (D. lgs. 1° settembre 1993, n. 385 – c.d. T.U.B.) ed è quindi riconducibile alla materia dei “contratti bancari e finanziari” di cui all’art. 5, comma 1 bis, del D. lgs. 4 marzo 2010, n. 28 (nella formulazione vigente ratione temporis e sostanzialmente “trasfusa” dal D. lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, c.d. “Riforma Cartabia”, nell’art. 5, comma 1, del citato D. lgs. 4 marzo 2010, n. 28) per la quale sussiste l’obbligo di esperimento della mediazione obbligatoria. L’insegnamento giurisprudenziale è, infatti, orientato nel senso di ritenere il riferimento ai “contratti bancari e finanziari” come un chiaro richiamo, non altrimenti alterabile, alla disciplina dei contratti bancari contenuta nel codice civile e nel T.U.B., nonché alla contrattualistica involgente gli strumenti finanziari di cui al D. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, c.d. T.U.F. (cfr. Cass. n. 30520/2019; Cass. n. 15200/2018).

In un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, il mancato esperimento della mediazione obbligatoria va eccepito, a pena di decadenza, ovvero rilevato dal giudice, entro la prima udienza ed a seguito della decisione ex art. 648 o 649 c.p.c. circa la concessione ovvero la sospensione dell’esecuzione provvisoria. Ove l’improcedibilità non sia eccepita o rilevata entro tale termine è da intendersi sanata.

Il TAEG (o ISC) è solo un indicatore sintetico del costo complessivo dell’operazione di finanziamento, che comprende anche gli oneri amministrativi di gestione e, come tale, non rientra nel novero dei tassi, prezzi ed altre condizioni la cui mancata pattuizione nella forma scritta è sanzionata con la nullità, seguita dalla sostituzione automatica ex art. 117 del D. lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (Cass. n. 4597/2023).

Nei contratti di mutuo ad ammortamento c.d. alla francese caratterizzati dalla previsione di rate ciascuna delle quali è composta da una quota di capitale, via via crescente nel tempo e da una quota di interessi, via via decrescente, si deve escludere di poter ritenere aprioristicamente sussistente il fenomeno anatocistico in quanto, la previsione di un simile piano restitutorio configura una mera modalità di adempimento delle due obbligazioni poste a carico del mutuatario e, segnatamente, la restituzione della somma ricevuta in prestito e la corresponsione degli interessi correlati al suo godimento (cfr. Cass. n. 11400/2014).

Princìpi espressi nell’ambito di un giudizio di appello promosso da due mutuatari-consumatori i quali, inter alia, contestavano (i) che il giudice di prime cure avesse erroneamente escluso la necessità di esperire il tentativo di mediazione obbligatoria nell’ambito di una controversia inerente ad un contratto disciplinato dal T.U.B. (pur non avendo eccepito tempestivamente tale circostanza); (ii) che il contratto di finanziamento sarebbe stato nullo attesa l’erronea indicazione del TAEG; (iii) che la previsione di un ammortamento c.d. alla francese determinasse ex se un’implicita ed occulta capitalizzazione degli interessi a carico del mutuatario in violazione del divieto di anatocismo ex art. 1283 c.c.

(Massime a cura di Giulio Bargnani)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 19 luglio 2023, n. 686 – consorzio, cause e procedimento di esclusione del consorziato

Ove il consorzio non sia costituito in forma di società in forza dell’art. 2615-ter c.c., la normativa che presiede all’impugnazione delle delibere delle società di capitali e delle cooperative per azioni non può essere trasposta automaticamente al settore dell’impugnazione delle delibere consortili. In particolare, all’azione cautelare volta a ottenere la sospensione dell’efficacia della delibera di esclusione dal consorzio, si applica la disciplina di cui all’art. 700 c.p.c., secondo il procedimento delineato dall’art. 2606, c. 2, c.c., e non quella prevista dall’art. 2378, c. 3, c.c. (cfr. Trib. Matera 10.11.2001).

Tra le delibere impugnabili entro il termine decadenziale di trenta giorni di cui all’art. 2606 c.c., sebbene i riferimenti testuali della disposizione menzionata alla “maggioranza dei consorziati” e ai “consorziati assenti” evochino lo schema assembleare, rientrano anche le deliberazioni assunte dal consiglio direttivo, come sembra ragionevolmente intendersi dalla genericità della rubrica di tale articolo e dal richiamo, al primo comma, alle delibere relative “all’attuazione dell’oggetto del consorzio”.

La comunicazione della delibera di esclusione svolge la mera funzione di informare il consorziato delle ragioni ritenute in concreto dall’organo deliberante giustificative dell’esclusione; rispetto a tali motivazioni, il giudice dovrà verificare la coerenza con le previsioni di legge e di statuto, oltre ad accertarne la congruità (cfr. Trib. Venezia, 2.2.2023).

Princìpi espressi in un’ordinanza di rigetto di una istanza cautelare, promossa in pendenza di una causa di merito, finalizzata alla sospensione dell’efficacia della decisione di esclusione del ricorrente da un consorzio pronunciata dal consiglio direttivo del consorzio stesso. Il Tribunale ha rigettato il ricorso per l’inosservanza del termine di decadenza di cui all’art. 2606, c. 2, c.c., rilevando altresì la carenza del fumus boni iuris e del periculum in mora nel caso di specie.

(Massime a cura di Giovanni Gitti)




Tribunale di Brescia, sentenza del 18 luglio 2023, n. 1843 – uso non autorizzato del marchio, contratto di licenza d’uso

L’art. 1591 c.c., non rappresenta un principio generale, almeno riferibile ai beni immateriali, poiché manca una pluralità di norme dalle quali potrebbe emergere l’esistenza di una norma generale che le accomuna. Inoltre, tale norma non può trovare applicazione analogica al contratto di licenza d’uso di un marchio per due ragioni principali. In primo luogo, nel contratto di licenza d’uso, che riguarda lo sfruttamento di diritti economici su beni immateriali, manca la ratio del contratto di locazione o affitto, che richiede la restituzione della cosa materiale come presupposto per concedere il diritto di sfruttamento, ben potendo coesistere l’utilizzo del medesimo bene immateriale contemporaneamente in capo a più soggetti. In secondo luogo, l’applicabilità analogica dell’art. 1591 c.c. è ammissibile solo quando la fattispecie non è disciplinata da una norma specificamente prevista, purché non sussista incompatibilità con la normativa speciale. (cfr. Cass. n. 2306/200). Nel caso del contratto di licenza d’uso, l’ordinamento fornisce una tutela speciale contro l’utilizzo non autorizzato del marchio. 

In particolare, nel contratto di licenza d’uso, avente ad oggetto lo sfruttamento di diritti economici su beni immateriali, al fine di impedire che l’utilizzo della privativa industriale si protragga, in modo non autorizzato, oltre i termini in cui lo sfruttamento è consentito, è prevista la possibilità per l’avente diritto di promuovere l’azione inibitoria ovvero l’azione risarcitoria ex art. 125 c.p.i. 

Principi espressi nell’ambito del giudizio promosso dal fallimento di una società a responsabilità limitata, che ha convenuto in giudizio una società per azioni lamentando l’inadempimento negoziale del contratto di licenza d’uso e l’utilizzo indebito di segni identici o simili a quello oggetto di privativa. In particolare, a fondamento della propria domanda, l’attrice deduceva di essere divenuta titolare del marchio a seguito della modifica dell’accordo di licenza d’uso, riconoscendo alla società convenuta l’esclusiva nello sfruttamento del marchio per una durata di dieci anni, verso pagamento di royalties.

(Massime a cura di Simona Becchetti)




Tribunale di Brescia, sentenza del 18 luglio 2023, n. 1841 – contatto di appalto pubblico, raggruppamento temporaneo di imprese, inadempimento adempimento contrattuale, restituzione dell’anticipazione contrattuale prevista dall’art. 35 comma 18 del D.lgs. 50/2016 nell’ipotesi dell’impossibilità di eseguire i lavori, compensazione

In presenza di un mandato collettivo con rappresentanza da parte di un raggruppamento temporaneo di imprese (RTI) per la realizzazione di un appalto, l’appaltante è liberata dagli obblighi di pagamento verso le singole società partecipanti al RTI qualora abbia versato quanto dovuto alla mandataria-rappresentante. A tal fine, non rilevano i rapporti interni ed eventuali inadempienze tra i partecipanti al RTI. 

L’anticipazione contrattuale prevista dall’art. 35, comma 18, del decreto legislativo n. 50/2016, ha l’esclusiva natura e funzione di finanziare l’esecuzione dei lavori oggetto dell’appalto, con la conseguenza che se viene meno la possibilità di eseguire i lavori, come nel caso del sopravvenuto fallimento della società appaltatrice, l’impresa estromessa dall’esecuzione dell’appalto non ha alcun diritto di trattenere detta anticipazione ed è consentito all’appaltante, al fine di recuperare l’importo erogato, operare la compensazione tra tale suo credito e il debito per i lavori fino a quel momento svolti.

Le spese di giudizio sostenute dal terzo chiamato in garanzia, una volta che sia stata rigettata la domanda principale, vanno poste a carico della parte che, rimasta soccombente, abbia provocato e giustificato la chiamata in causa, trovando tale statuizione adeguata giustificazione nel principio di causalità, che governa la regolamentazione delle spese di lite, anche se l’attore soccombente non abbia formulato alcuna domanda nei confronti del terzo, salvo che l’iniziativa del chiamante si riveli palesemente arbitraria (cfr. Cass. n. 10364/2023).

Princìpi espressi agli esiti di un giudizio in cui è stata respinta la domanda avanzata dal fallimento di una società, facente parte quand’era in bonis (quale mandante) di un raggruppamento temporaneo di imprese (RTI) che si era aggiudicato un appalto, con cui si chiedeva di condannare la committente a pagare direttamente al fallimento le somme risultanti dallo stato di avanzamento dei lavori, contestando la compensazione operata dalla committente tra tale debito e il credito relativo alla restituzione dell’anticipazione contrattuale disposta a favore del RTI e versata alla mandataria.

(Massime a cura di Giada Trioni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 14 luglio 2023, n. 1825 – titolarità del marchio d’impresa, trasferimento del marchio, “preuso” del marchio

Solo colui che si vanta avente diritto alla registrazione può contestare la titolarità del marchio in capo a colui che lo ha originariamente registrato. Analogamente, la registrazione del trasferimento del marchio può essere contestata solo da colui che prova di esserne titolare.

Il fatto che determinati negozi giuridici siano conclusi al fine di eludere le ragioni dei creditori, non costituisce una causa di nullità dei contratti stessi ma, al più, motivo di revocatoria.

La scadenza di uno (solo) dei (molteplici) marchi che declinano, o ricomprendono, un determinato nome non determina la dismissione di tutti i marchi connessi a quel nome, ad opera del soggetto titolare di altri marchi che declinano lo stesso termine.

Non costituisce “preuso” di un marchio, ossia l’utilizzo di un marchio non registrato prima della sua registrazione ad opera di terzi, il suo impiego non per contraddistinguere i propri prodotti ma in ragione di licenza o su autorizzazione della licenziante. Infatti, per “preuso” bisogna intendersi l’utilizzo di un marchio come segno distintivo dei propri prodotti o servizi e, non di quelli di terzi.

Principi espressi nell’ambito di un procedimento volto a far accertare e dichiarare la contraffazione di marchi d’impresa con conseguente richiesta di ordine di inibitoria, condanna al risarcimento dei danni e pubblicazione della sentenza.

(Massime a cura di Edoardo Compagnoni)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 28 giugno 2023, n. 1112 – contratti bancari, prova scritta del credito, contratto monofirma, fideiussione, nullità parziale per violazione della normativa antitrust

Qualora una banca intenda far valere in giudizio il credito derivante da un rapporto di conto corrente, deve provare l’andamento del medesimo dall’inizio e per l’intera durata del suo svolgimento, senza interruzioni (cfr. Cass. n. 23856/2021). Gli estratti conto non costituiscono tuttavia l’unico mezzo di cui la banca possa utilmente avvalersi ai fini della dimostrazione delle operazioni effettuate sul conto corrente e, quindi, del suo credito nei confronti del correntista. Pertanto, in assenza di limitazioni al riguardo, è possibile desumere la relativa prova dalle schede dei movimenti ovvero da altri atti o documenti idonei ad attestare il compimento dei negozi da cui derivano, nonché il titolo, la natura e l’importo delle operazioni, oltre che l’annotazione in conto delle relative partite (cfr. Cass. n. 11543/2019; Cass. n. 2435/2020; Cass. n. 1077/2021; Cass. n. 38976/2021 e Cass. n. 1538/2022). Va invece esclusa la possibilità per la banca di provare l’ammontare del proprio credito mediante la produzione, ai sensi dell’art. 2710 c.c., dell’estratto notarile delle sue scritture contabili o dell’estratto di saldaconto, dai quali risulti il mero saldo del conto (cfr. Cass. n. 11543/2019).

Ai fini della prova del credito della banca, l’assenza degli estratti conto per il periodo iniziale del rapporto non è astrattamente preclusiva di un’indagine contabile per il periodo successivo, potendo questa attestarsi sulla base di riferimento più sfavorevole per il creditore istante quale, a titolo esemplificativo, quella di un calcolo che preveda l’inesistenza di un saldo debitore alla data dell’estratto conto iniziale. Pertanto, nell’ipotesi in cui la banca creditrice non abbia prodotto il primo estratto conto, si ritiene corretto effettuare il calcolo dei rapporti di dare e avere tra le parti partendo dal “saldo zero” (cfr. Cass. n. 24153/2017; Cass. n. 13258/2017).

La mancanza della firma della banca sui contratti bancari che, ai sensi dell’art. 117, 1° co., TUB, devono essere redatti per iscritto e devono essere consegnati al cliente è priva di rilievo ai fini della loro validità, potendosi applicare al riguardo il principio espresso in materia di contratti di intermediazione finanziaria, secondo il quale ai fini della validità del contratto è sufficiente che questo sia redatto per iscritto, che sia sottoscritto dal cliente e che a quest’ultimo ne sia consegnata una copia, potendo desumersi il consenso dell’istituto di credito o dell’intermediario dai comportamenti concludenti dallo stesso tenuti (cfr. Cass., S.U., n. 898/2018; Cass., S.U., n. 1653/2018; Cass. n. 19298/2022; Cass. n. 8124/2022; Cass. n. 9187/2021; Cass. n. 14646/2018; Cass. n. 16270/2018; Cass. n. 14243/2018). 

In caso di lamentata nullità della fideiussione per violazione della normativa antitrust, vale il principio secondo il quale i contratti di fideiussione “a valle” di intese dichiarate parzialmente nulle dall’Autorità Garante, in relazione alle sole clausole contrastanti con gli artt. 2, 2° co., lett. a), l. n. 287/1990 e 101 TFUE, sono parzialmente nulli, ai sensi degli artt. 2, 3° co., della legge citata e dell’art. 1419 c.c., limitatamente alle clausole che riproducono quelle dello schema unilaterale costituente l’intesa vietata, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti (Cass., S.U., n. 41994/2021; Cass., n. 15146/2023; Cass., n. 15275/2023; Cass., n. 11333/2023; Cass., n. 9071/2023).

Princìpi espressi in grado d’appello nell’ambito di una controversia concernente l’opposizione al decreto ingiuntivo con il quale era stato ingiunto agli opponenti il pagamento, in favore della banca opposta, del saldo debitore relativo a due rapporti di conto corrente da questa intrattenuti con uno degli opponenti e garantiti dalla fideiussione prestata dall’altro.

(Massime a cura di Edoardo Compagnoni)




Corte di Appello di Brescia, sentenza del 26 giugno 2023, n. 1079 – interessi usurari, usurarietà interessi moratori

La disciplina antiusura si applica agli interessi moratori essendo la stessa finalizzata a sanzionare non solo la pattuizione di interessi eccessivi convenuti al momento della stipula del contratto quale corrispettivo per la concessione del denaro, ma anche la promessa di qualsiasi somma usuraria dovuta in relazione al contratto. Il confronto da effettuare ai fini della verifica del rispetto della disciplina antiusura va effettuato tra dati omogenei ed in conformità alle indicazioni espresse nelle c.d. “Istruzioni della Banca d’Italia” la quali sono recepite nei decreti ministeriali attuativi al fine di far sì che il conteggio dei tassi effettivi globali medi (c.d. TEG) sia effettuato con i parametri e le modalità ivi stabilite. Con riferimento alla valutazione dell’usurarietà del tasso di mora, il decreto ministeriale di rilevazione dei tassi effettivi globali medi costituisce parametro “privilegiato” per la sua valutazione. In conseguenza dell’accertamento dell’usurarietà degli interessi moratori, ai sensi dell’art. 1815, comma 2, c.c., non saranno dovuti gli interessi moratori pattuiti, ferma restando, ai sensi dell’art. 1224, comma 1, c.c., la debenza degli interessi corrispettivi lecitamente convenuti, in relazione ai quali, dunque, nessuna pretesta restitutoria può essere giustificata e, pertanto, trovare accoglimento.

In tema di interessi convenzionali, la disciplina antiusura si applica sia agli interessi corrispettivi (e ai costi posti a carico del debitore per il caso di regolare adempimento del contratto) sia agli interessi moratori (e ai costi posti a carico del medesimo debitore per il caso, e come conseguenza dell’inadempimento), ma non consente di utilizzare il cd. criterio della sommatoria tra tasso corrispettivo e tasso di mora, poiché gli interessi corrispettivi e quelli moratori si fondano su presupposti diversi e antitetici, essendo i primi previsti per il caso di (e fino al) regolare adempimento del contratto e i secondi per il caso di (e in conseguenza dell’) inadempimento del contratto (in merito si segnala anche Cass. 05/05/2022, n. 14214; Cass. 7352/2022; Cass. 31615/2021; S.U. 19597/2020 cit.; Cass. 26286/2019). Inoltre, non è possibile procedere a sommatoria tra il tasso di mora e gli ulteriori costi e spese allo stesso contratto di mutuo, in considerazione del fatto che tali voci di costo – le quali devono essere computate ai fini della verifica dell’eventuale superamento della soglia usura ad opera degli interessi corrispettivi – non devono invece cumularsi al tasso di mora poiché lo stesso, a seguito dell’inadempimento del debitore, assume valore assorbente rispetto a tutte le pretese creditorie.

Qualora l’interesse corrispettivo sia lecito, e solo il calcolo degli interessi moratori applicati comporti il superamento della soglia usuraria, ne deriva che solo questi ultimi sono illeciti e preclusi, fermo restando che, ai sensi di quanto previsto dall’art. 1224 c.c., comma 1, dovranno essere in ogni caso applicati gli interessi corrispettivi nella misura in cui siano stati lecitamente pattuiti. Ciò in considerazione del fatto che, diversamente, ove si prevedesse la gratuità del mutuo in tale ipotesi, si finirebbe per premiare il debitore inadempiente rispetto a colui che adempia ai suoi obblighi con puntualità, determinando un pregiudizio generale all’intero ordinamento sezionale del credito (cui si assegna una funzione di interesse pubblico), nonché allo stesso principio generale di buona fede, di cui all’art. 1375 c.c.

Principi espressi nell’ambito del giudizio di appello finalizzato, inter alia, a far dichiarare la nullità del contratto di mutuo fondiario per applicazione di interessi usurari e, per l’effetto, a condannare l’istituto di credito alla rifusione di quanto percepito indebitamente dal mutuatario e al risarcimento del danno.

(Massime a cura di Giorgio Peli)




Tribunale di Brescia, sentenza del 29 maggio 2023, n. 1316 – appalti pubblici, modifica del contratto, jus variandi

La ratio dell’istituto dello jus variandi in materia di appalti pubblici è quella di consentire la soddisfazione del preminente interesse pubblico di adattamento del contratto concluso con la pubblica amministrazione alle “necessità” sopravvenute nel corso dell’esecuzione dell’opera o del servizio, senza che ciò obblighi a nuova procedura di affidamento.

Tale esigenza è contemperata dal divieto per la P.A. di imporre al contraente una variazione eccessiva (in aumento o diminuzione) degli obblighi contrattuali rispetto all’originaria previsione e dalla necessità che tale variazione sia ancorata a oggettive esigenze e aventi carattere imprevedibile e sopravvenute successivamente, nel corso dell’esecuzione del contratto.

Il diritto di modifica, che opera entro la misura massima del quinto (c.d. quinto d’obbligo) delle prestazioni contrattuali (massimale), attiene dunque alla fase esecutiva del rapporto e non a quella precedente, di formazione del vicolo contrattuale.

Ne consegue che la trasmissione dell’ordine di fornitura, avente ad oggetto il massimale contrattuale (nell’osservanza della cornice regolamentare di riferimento), rappresenta esclusivamente il momento di perfezionamento del contratto ma non integra ed esaurisce il diritto di modifica delle prestazioni contrattuali afferente alla successiva fase esecutiva del rapporto.

La prerogativa dello jus variandi non può dunque essere legittimamente esercitata per rimediare a  originari errori, come sono ad esempio gli errori di una stazione appaltante in sede di valutazione del fabbisogno o per eludere gli obblighi discendenti dal rispetto delle procedure ad evidenza pubblica attraverso un artificioso frazionamento del contenuto delle prestazioni (nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto la stazione appaltante, contrattualmente inadempiente nei confronti della società appaltatrice, avendo esercitato lo jus variandi previsto dall’art. 106, comma 12, Codice degli Appalti, in assenza dei relativi presupposti e avendo pacificamente impedito, con la propria condotta, l’integrale esecuzione del contratto, rifiutando di ricevere l’ultima parte di vaccini acquistati e omettendo di pagarne il prezzo).

Principi espressi nell’ambito della controversia tra un soggetto appaltatore e appaltante, con riguardo all’esercizio dello jus variandi in materia di appalti pubblici. In particolare, l’appaltante è stato ritenuto contrattualmente inadempiente, avendo esercitato lo jus variandi in assenza dei relativi presupposti e avendo pacificamente impedito, con la propria condotta, l’integrale esecuzione del contratto, rifiutando di ricevere l’ultima parte di vaccini acquistati e omettendo di pagarne il prezzo.

(Massime a cura di Carola Passi)




Tribunale di Brescia, sentenza del 13 maggio 2024, n. 1917 – credito di firma, esposizione contestata, erronea/illegittima segnalazione in Centrale Rischi, risarcimento del danno, nesso di causalità

In forza delle indicazioni contenute nella circolare n. 139 dell’11.2.1991 della Banca d’Italia, la scadenza della fideiussione integra evento estintivo del rapporto di garanzia legittimante l’azzeramento dell’accordato operativo, sicché la Banca è obbligata a censire l’azzeramento dell’“accordato” e “dell’accordato operativo”, modificando in tal modo la segnalazione iniziale. In presenza di accertamento giudiziale dotato di indiscutibile coerenza e chiarezza, e di impugnazioni della soccombente fondate su argomenti privi di supporto probatorio ed espressione di un contegno processuale contraddittorio e ondivago, la condotta della banca di voler attendere il passaggio in giudicato della declaratoria di inefficacia della garanzia prima di procedere alla rettifica del censimento in coerenza con il suddetto accertamento giudiziale non può ritenersi conforme ai doveri dell’intermediario in materia di segnalazioni in Centrale Rischi e al generale canone della buona fede: scaduto il termine di tale garanzia senza che nelle more sia stato efficacemente esercitato il diritto di pagamento da parte della beneficiaria, il mantenimento dell’importo dell’utilizzato non trova giustificazione alcuna. Non può dunque trovare accoglimento la tesi per cui, a fronte dell’azzeramento dell’accordato, la Banca possa mantenere l’originario “utilizzato” sino al passaggio in giudicato, anche nei confronti della beneficiaria, della sentenza che ha dichiarato scaduta e inefficace la garanzia, sostenendo che sino a tale evento non si sia verificata alcuna delle condizioni previste dal par. 8, sez. I, cap. II della circolare 139 della Banca d’Italia per il relativo azzeramento.

In presenza di contenzioso promosso dal cliente, il censimento del credito di firma come “non contestato” appare gravemente contrario ai canoni di accuratezza, completezza e pertinenza delle informazioni sanciti dalla normativa di settore, a nulla rilevando che nelle plurime diffide inviate alla Banca la cliente abbia omesso uno specifico riferimento alla erronea rilevazione anche dello stato del rapporto. Con il tredicesimo aggiornamento entrato in vigore il 4 marzo 2010, la circolare n. 139 dell’11.2.1991 della Banca d’Italia ha previsto espressamente che l’intermediario è tenuto a dar conto dell’esistenza di una contestazione concernente la segnalazione, ogni qual volta il cliente abbia sollevato eccezioni promuovendo un giudizio davanti ad un’autorità terza, a prescindere dalla valutazione circa la fondatezza delle eccezioni fatte valere. In tal modo, gli intermediari che accedono al sistema centralizzato, oltre ad avere evidenza della segnalazione del credito come sofferenza o come credito scaduto o sconfinante, apprendono della pendenza di una contestazione relativa alla posizione segnalata e, conseguentemente, della possibilità che il presupposto su cui detta segnalazione si fonda sia, in realtà, insussistente. La giurisprudenza oramai consolidata riconosce indubbia rilevanza alla evidenza di eventuale “contestazione” nelle segnalazioni effettuate dagli istituti di credito, chiarendo come detto stato del rapporto consenta di arguire che il mancato rientro (o gli altri eventi idonei a rappresentare un rischio) è dovuto non necessariamente ad una negativa valutazione dell’affidabilità del cliente, potendo piuttosto dipendere dalla eventualità che la pretesa non sia fondata.

Il nesso causale in tema di responsabilità civile, contrattuale o extracontrattuale  è regolato dai principi di cui agli artt. 40 e 41 c.p., per i quali un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della “condicio sine qua non”), nonché dal criterio della c.d. causalità adeguata, sulla base del quale, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiono – ad una valutazione “ex ante” – del tutto inverosimili.

La valutazione del nesso causale in sede civile presenta, rispetto all’accertamento penale, notevoli discrepanze in relazione al regime probatorio applicabile: a differenza di quanto richiesto in sede penale (ove vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”), nel processo civile vige la regola della “preponderanza dell’evidenza” (altrimenti definita del “più probabile che non”), in coerenza con il principio eurounitario della effettività della tutela giurisdizionale.

L’accertamento del nesso causale in sede civile richiede la concorrente valutazione, da un lato, della (astratta) idoneità della condotta a cagionare il danno lamentato, dall’altro, della (effettiva) correlazione con l’evento in concreto verificatosi, apprezzata sulla scorta delle circostanze esistenti nella loro irripetibile singolarità per come emergenti dall’istruzione probatoria condotta nel processo, sicché non potrà ritenersi sussistente il nesso di causalità tra la condotta illegittima e il pregiudizio prospettato come sua possibile e normale conseguenza, qualora essa, pur se astrattamente idonea a provocare il danno lamentato, non ne costituisca l’effettiva ragione, per essere questo riconducibile in concreto – secondo la valutazione del giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità soltanto sotto il profilo della inadeguatezza o illogicità della motivazione – ad un fatto diverso, idoneo a interrompere il nesso di causalità.

Tutti gli antecedenti in mancanza dei quali un evento dannoso non si sarebbe verificato debbono considerarsi sue cause, abbiano essi agito in via diretta e prossima, o in via indiretta e remota, salvo il temperamento contemplato al capoverso dell’art. 41 c.p., secondo cui la causa prossima sufficiente da sola a produrre l’evento esclude il nesso eziologico fra questo e le altre cause antecedenti, facendole scadere al rango di mere occasioni; pertanto, al fine di escludere che un determinato fatto abbia concorso a cagionare un danno, non basta affermare che il danno stesso avrebbe potuto verificarsi anche in assenza di quel fatto, ma occorre dimostrare, avendo riguardo a tutte le circostanze del caso concreto, che il danno si sarebbe egualmente verificato senza quell’antecedente.

Qualora la produzione dell’evento di danno risulti riconducibile alla concomitanza di una condotta umana e di una causa naturale (o comunque di un fattore estrinseco al comportamento umano imputabile), l’autore del fatto risponde, in base ai criteri della causalità naturale, di tutti i danni che ne sono derivati, non potendo, in tal caso, operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, poiché una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile (cfr. Cass. n. 5737/2023; Cass. n. 30521/2019).

Mentre sul piano della causalità materiale non rileva che i danni siano stati causati anche da eventi esterni alla condotta umana (a meno che gli stessi non siano stati sufficienti a determinare l’evento di danno indipendentemente da tale comportamento), la concomitanza di plurimi fattori causali può incidere sulla stima del danno, ossia sul piano della causalità giuridica, legittimando una proporzionale riduzione volta a identificare il solo danno eziologicamente riferibile alla condotta presa in esame (ex multis, Cass. n. 13037/2023).

Il diritto al risarcimento in relazione ad un eventuale aggravamento che si verifichi nel corso del giudizio non configura una nuova posta risarcitoria, facendo parte della domanda originaria di risarcimento (cfr. Cass. n. 23220/2005; Cass. n. 8292/2008; Cass. n. 1281/2003).

La natura di debito di valore dell’obbligazione risarcitoria (anche derivante da responsabilità contrattuale: cfr. Cass. n. 37798/2022) impone che sull’importo liquidato vadano conteggiati gli interessi compensativi del danno derivante dal mancato tempestivo godimento dell’equivalente pecuniario del bene perduto: secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite della Suprema Corte (n. 1712/1995), tali interessi decorrono dalla produzione dell’evento di danno sino al tempo della liquidazione e si calcolano sulla somma via via rivalutata nell’arco di tempo suddetto e non sulla somma già rivalutata (cfr. Cass. n. 4791/2007).

Principi espressi nell’ambito di un giudizio promosso per l’accertamento della responsabilità risarcitoria di Istituto di Credito per mancata cancellazione di posizione fideiussoria segnalata in Centrale Rischi sebbene non escussa e scaduta nonché per l’erroneo censimento quale posizione “non contestata”, sebbene la società attrice avesse censurato la pretesa della banca convenendola in giudizio.  Il Tribunale, accertata l’erronea/illegittima segnalazione in Centrale Rischi, a seguito di un rigoroso esame dell’andamento degli affidamenti della società attrice e dei possibili riflessi sui risultati dell’attività d’impresa, ha verificato e quantificato, sulla scorta dei formulati principi in materia di nesso di causalità, il pregiudizio patrimoniale effettivamente riconducibile agli inadempimenti dell’intermediario.

(Massime a cura di Ambra De Domenico)




Tribunale di Brescia, sentenza del 26 aprile 2023, n. 971 – contratto di locazione finanziaria, leasing traslativo, risoluzione per inadempimento, riduzione ad equità della clausola penale

Ai contratti di locazione finanziaria di tipo traslativo risolti anteriormente al 29 agosto 2017 – data di entrata in vigore della l. n. 124/2017 – continua ad applicarsi analogicamente, quanto alla risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore, l’art. 1526 c.c. Pertanto, anche previsioni contrattuali più gravose rispetto alla disciplina stabilita dall’art. 1, c. 138, l. n. 124/2017, le quali, nel rispetto dell’art. 1526 c.c., preservino l’equilibrio sinallagmatico delle prestazioni prevedendo la decurtazione dalle somme ancora dovute dall’utilizzatore di quanto ottenuto dal concedente dalla vendita del bene, possono ritenersi valide.

Quando, per la risoluzione anticipata di un contratto di locazione finanziaria traslativa, le parti hanno pattuito una clausola penale che attribuisce al concedente il diritto a ottenere il valore attuale del restante corrispettivo previsto nel contratto, incluso il prezzo dell’opzione finale di acquisto, detratto quanto eventualmente ricavato dalla vendita del bene concesso in locazione finanziaria ovvero a titolo di indennizzi assicurativi o risarcimenti, al netto di oneri e spese, è ammessa la riduzione ad equità da parte del giudice della clausola penale in ragione della non congruità del prezzo di vendita del bene rispetto al valore di mercato. Nel caso in esame, il Tribunale ha operato la riduzione in oggetto, ritenendo che lo scomputo dal debito dell’utilizzatore di una somma significativamente inferiore rispetto a quella che il concedente avrebbe potuto conseguire rivendendo il bene al prezzo di mercato, leda ingiustamente gli interessi dell’utilizzatore e legittimi l’applicazione dell’art. 1384 c.c.

I princìpi sono stati espressi in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo avente ad oggetto il pagamento di somme asseritamente dovute a seguito della risoluzione di un contratto di locazione finanziaria di tipo traslativo per inadempimento della società utilizzatrice.

In particolare, la società utilizzatrice aveva presentato opposizione a decreto ingiuntivo per: i) sentire dichiarata la nullità, per contrasto con la disciplina introdotta dalla l. n. 124/2017, della clausola delle condizioni generali di contratto che stabiliva l’applicazione di una penale in caso di risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore; e, in subordine, ii) per ottenere la riduzione ad equità, ai sensi dell’art. 1384 c.c., della clausola penale pattuita.

Quanto al primo profilo, il Tribunale ha escluso che l’art. 1 c. 138 della l. n. 124/2017 si potesse applicare al contratto in esame, essendo quest’ultimo stato risolto prima del 29 agosto 2017, data di entrata in vigore della disposizione citata, non avendo questa efficacia retroattiva (Cass. SS.UU. n. 2061/2021). Pertanto, anche condizioni contrattuali eccedenti quanto previsto dall’art. 1 c. 138 della l. n. 124/2017 non potevano di per sé ritenersi nulle. Applicando analogicamente l’art. 1526 c.c., esse potevano ritenersi valide a condizione che il rischio dell’ingiusta locupletazione in capo al concedente fosse escluso, quanto meno in via di princìpio, prevedendo la decurtazione dalle somme ancora dovute dall’utilizzatore di quanto ottenuto dalla vendita del bene.

Rispetto al secondo profilo, il Tribunale ha accertato, mediante c.t.u., che il bene precedentemente concesso in locazione finanziaria era stato venduto a un prezzo significativamente inferiore rispetto al suo valore di mercato, con conseguente lesione ingiustificata dell’interesse dell’utilizzatore. Per queste ragioni, il giudice ha ridotto l’importo finale dovuto a titolo di penale dalla società utilizzatrice alla concedente.

(Massime a cura di Giada Trioni)