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Sentenza del 5 settembre 2019 – Giudice designato: dott. Stefano Franchioni

L’ordinanza di assegnazione del credito pignorato, emanata a seguito della positiva dichiarazione del terzo, rappresenta l’atto conclusivo del procedimento di espropriazione presso terzi e determina il trasferimento coattivo del credito pignorato dal debitore esecutato al creditore. Non rileva a tal fine il disposto dell’art. 2928 c.c., secondo il quale il diritto dell’assegnatario verso il debitore si estingue solo con la riscossione del credito assegnato: tale disposizione infatti non ha l’effetto di perpetuare la procedura esecutiva, ma ha solo effetti sostanziali a maggior tutela del creditore in modo da consentirgli, in caso di mancata riscossione, di intraprendere un nuovo procedimento esecutivo in base al medesimo titolo (conf. Cass. 3.8.2017, n. 19394).

L’art. 168, co. 1, l.f., che fa divieto ai creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive sul patrimonio del debitore “dalla data della presentazione del ricorso per l’ammissione al concordato fino al passaggio in giudicato della sentenza di omologazione”, non può ritenersi applicabile anche al pagamento del terzo pignorato effettuato in adempimento dell’ordinanza di assegnazione del credito emessa prima del deposito del ricorso per concordato preventivo.

Non essendo applicabili al concordato preventivo gli artt. 44 e 64 ss. l.f., non richiamati dall’art. 169 l.f., il pagamento di un debito preconcordatario deve ritenersi in sé legittimo, in quanto atto di ordinaria amministrazione, purché non integri l’ipotesi di un atto “diretto a frodare le ragioni dei creditori”,  sanzionabile con la dichiarazione di fallimento ai sensi dell’art. 173, co. 2, e revocabile in forza dell’art. 167, co. 2, l.f. Tale ipotesi non ricorre nel caso in cui il creditore che ha instaurato un pignoramento presso terzi abbia ricevuto il pagamento da parte del debitor debitoris per ordine del giudice, in forza di un’ordinanza di assegnazione che sia stata emessa anteriormente al deposito del ricorso per concordato preventivo (conf. Cass.  07.06.2016, n. 11660).

In caso di soddisfacimento delle ragioni dei creditori mediante espropriazione presso terzi, gli atti soggetti a revocatoria ex art. 67 l.f. compiuti nel c.d. “periodo sospetto” non sono i provvedimenti del giudice dell’esecuzione (assegnazione di un credito vantato dal fallito presso terzi), ma i soli successivi (e distinti) atti di pagamento coattivo in tal modo conseguiti, per cui, ai fini del computo di detto “periodo sospetto”, occorre far riferimento, al pari del pagamento spontaneo, alla data in cui il soddisfacimento sia stato concretamente ottenuto con la ricezione, da parte del creditore, della somma ricavata dall’esecuzione (conf. Cass. 18.06.2014, n. 13908).

La conoscenza dello stato di insolvenza da parte del terzo deve essere effettiva, ma può essere provata anche con indizi e fondata su elementi di fatto, purché idonei a fornire la prova per presunzioni di tale effettività (conf. Cass. 08.02.2019, n. 3854).

Principi espressi in ipotesi di accoglimento di una domanda di revocatoria fallimentare ex art. 67, 2° co., l.f. In particolare, la vicenda trae origine dal mancato pagamento di un debito per forniture da parte di una società, la quale, a causa del suo perdurante inadempimento, costringeva il creditore, ottenuto il decreto ingiuntivo al quale veniva apposta la formula esecutiva a seguito della mancata opposizione, a notificare il pignoramento presso terzi, chiamando come debitor debitoris un istituto di credito dal quale riceveva, dopo la pronuncia dell’ordinanza di assegnazione delle somme emanata dal giudice dell’esecuzione, il pagamento del credito. 

Nelle more del procedimento esecutivo la società debitrice depositava domanda di concordato preventivo con riserva exart. 161, 6° co., l.f. e, a seguito di rinuncia a tale domanda, veniva dichiarata fallita dal Tribunale di Brescia. Il Curatore del fallimento di detta società conveniva quindi in giudizio la società creditrice assegnataria del credito pignorato per ottenere la declaratoria di inefficacia ex art. 168 l.f. o, in subordine, ex art. 67, 2° co., l.f., del pagamento da questa ottenuto ad esito del pignoramento presso terzi e la condanna della stessa alla restituzione alla Curatela della somma incassata, oltre interessi.

Sul punto il Tribunale ha affermato che la procedura esecutiva (pignoramento presso terzi) si è conclusa prima del deposito del ricorso ex art. 161, 6° co., l.f. da parte della società debitrice, e precisamente con l’emissione da parte del giudice dell’esecuzione dell’ordinanza di assegnazione delle somme. Per tale motivo il tribunale non ha ritenuto applicabile al caso di specie l’art. 168 l.f., il quale vieta di (iniziare o) proseguire azioni esecutive pendenti al momento del deposito del ricorso, non potendo considerarsi tale il pignoramento presso terzi oggetto di causa. Infatti, anche se il pagamento da parte del debitor debitoris era avvenuto dopo il deposito da parte della società debitrice della domanda di concordato preventivo, detto pagamento non poteva ritenersi riconducibile al disposto dell’art. 168, 1° co., l.f., dal momento che al concordato preventivo non si applicano l’art. 44 l.f., che sancisce l’inefficacia rispetto ai creditori concorsuali degli atti e dei pagamenti eseguiti o ricevuti dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento, né gli artt. 64 ss. l.f., essendo applicabili le sole disposizioni richiamate dall’art. 169 l.f., tra le quali non figurano le norme citate. Ne consegue che il pagamento di un debito preconcordatario deve ritenersi in sé legittimo, in quanto atto di ordinaria amministrazione, purché non integri l’ipotesi di un atto “diretto a frodare le ragioni dei creditori”, e, quindi, sanzionabile con la dichiarazione di fallimento ai sensi dell’art. 173, 2° co., l.f. e revocabile in forza dell’art. 167, 2° co., l.f.. Poiché nel caso di specie non sono stati ritenuti ravvisabili i presupposti della frode dei creditori ex art. 173 l.f., avendo il creditore ricevuto il pagamento da parte del debitor debitoris per ordine del giudice, emesso anteriormente al deposito del ricorso per concordato preventivo, il tribunale bresciano ha escluso la sussistenza dei presupposti per dichiarare inefficace detto pagamento ex art. 168 l.f.

Il Tribunale di Brescia ha ritenuto invece sussistenti i presupposti dell’azione revocatoria ex art. 67, 2° co., l.f., con riguardo agli atti di pagamento coattivo conseguito dal creditore procedente, trattandosi del pagamento di un debito liquido ed esigibile effettuato nei sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento ed essendo stata fornita la prova della scientia decoctionis del creditore, che si era trovato nella necessità di agire esecutivamente contro la debitrice per ottenere il pagamento coattivo del proprio credito.

(Massima a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Decreto del 21 agosto 2019 – Presidente: Dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice estensore: Dott. Stefano Franchioni

Per i crediti prededucibili sorti “in funzione delle procedure concorsuali” di cui all’art. 111, comma 2, l. fall., il nesso di “funzionalità” va imprescindibilmente apprezzato, sotto l’aspetto cronologico, con riguardo al momento genetico dell’obbligazione e, sotto l’aspetto teleologico, con riguardo alla stretta strumentalità alla procedura da valutare ex ante, indipendentemente dall’eventuale vantaggio per la massa che si determini ex post (Cass. Civ. n. 24791/2016). Deve respingersi il riconoscimento di una prededuzione “secundum eventum” tale cioè da sussistere o meno a seconda delle contingenze accidentali della procedura e delle iniziative della stazione appaltante, dunque sulla base di una valutazione di funzionalità non ex ante ma ex post, senza possibilità di riscontrare il necessario nesso di funzionalità del credito nel suo momento genetico.

Il meccanismo della sospensione dei pagamenti a favore dell’appaltatore contemplato dall’art. 118 del d.lgs. 163/2006 (c.d. “Codice degli Appalti”, ratione temporis applicabile, successivamente abrogato dal d.lgs. 50/2016) è calibrato sull’ipotesi di un rapporto di appalto di opere in corso con un’impresa (necessariamente) in bonis, in funzione dell’interesse pubblico primario al regolare e tempestivo completamento dell’opera (senza il rischio di interruzioni o ritardi causati dal subappaltatore che non sia stato regolarmente pagato dall’appaltatore) nonché al controllo della sua corretta esecuzione (che potrebbe restare compromessa dall’applicazione di prezzi troppo bassi da parte del subappaltatore) e solo indirettamente a tutela anche del subappaltatore. Per la sua ratio, detto meccanismo non ha dunque ragion d’essere nel momento in cui, con la dichiarazione di fallimento, il contratto di appalto per le opere pubbliche si scoglie ai sensi del combinato disposto dell’art. 81 l. fall. e degli artt. 38, comma 1, lett a), e 140 del d.lgs. 163/2006. Ciò trova conferma, anche da un punto di vista sistematico, nella modifica dell’art. 118 del d.lgs. 163/2006 ad opera del d.l. 145/2013 (convertito in L. 9/2014) che, integrando il comma 3 e aggiungendo il comma 3- bis, ha disciplinato due specifiche ipotesi (crisi di liquidità finanziaria dell’affidatario e pendenza di una procedura di concordato preventivo in continuità) così chiarendo che l’art. 118 del d.lgs. 163/2006 è da riferirsi solo alle imprese in bonis.

Il mancato riconoscimento della prededuzione al credito del subappaltatore è coerente con i principi generali del concorso, quali la par condicio creditorum, il rispetto dell’ordine delle cause legittime di prelazione e la tassatività (o comunque stretta interpretazione) delle ipotesi di prededuzione contemplate dall’art. 111, comma 2, l. fall..

Principi espressi in un giudizio di opposizione allo stato passivo nel quale il creditore opponente (originario sub-appaltatore) chiedeva l’ammissione in prededuzione dei compensi non corrisposti e delle ritenute di garanzia non svincolate dall’appaltatrice fallita.

(Massime a cura di Filippo Casini)




Decreto del 21 agosto 2019 – Presidente: dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice relatore: dott. Stefano Franchioni

Non è ammissibile la prededuzione per il credito del subappaltatore, non essendo questo espressamente qualificato come prededucibile da una norma di legge e non potendo essere considerato “sorto” in funzione della procedura fallimentare ai sensi dell’art. 111, co. 2, l.f., pertanto a tale credito deve essere riservato un trattamento concorsuale conforme alla sua natura, in ossequio ai principi della par condicio creditorum e del rispetto dell’ordine delle cause di prelazione (conf. Cass.  21.12.2018, n. 33350).

Per i crediti sorti “in funzione delle procedure concorsuali” di cui all’art. 111, co. 2, l.f., il nesso di “funzionalità” deve essere apprezzato, sotto l’aspetto cronologico, con riguardo al momento genetico dell’obbligazione e, sotto l’aspetto teleologico, con riguardo alla stretta strumentalità alla procedura, da valutare ex ante, indipendentemente dall’eventuale vantaggio per la massa che si determini ex post (conf. Cass. 5.12.2016, n. 24791).

Il meccanismo della sospensione dei pagamenti a favore dell’appaltatore, ex art. 118 c.d.a., applicabile ratione temporis, deve essere calibrato sull’ipotesi di un rapporto di appalto di opere in corso con un’impresa (necessariamente) in bonis, in funzione dell’interesse pubblico primario al regolare e tempestivo completamento dell’opera, nonché al controllo della sua corretta esecuzione, essendo tutelato solo indirettamente anche l’interesse del subappaltatore. Per la sua ratio un simile meccanismo non ha dunque ragion d’essere nel momento in cui, con la dichiarazione di fallimento, il contratto di appalto per le opere pubbliche si scoglie ai sensi del combinato disposto dell’art. 81 l.f. e degli artt. 38, co. 1, lett a) e 140 c.d.a. 

Principi espressi in un procedimento di opposizione allo stato passivo, a conclusione del quale il Tribunale ha ammesso parzialmente in via chirografaria il  credito vantato da una società, che aveva stipulato con l’impresa fallita un contratto di subappalto per la realizzazione di opere pubbliche. 

In particolare, la società subappaltatrice, poi fallita anch’essa, chiedeva di essere ammessa in prededuzione in quanto, ai sensi dell’art. 118, co. 3, d.lgs. 163/2006, c.d. codice degli appalti, applicabile ratione temporis (ora abrogato dal d.lgs. 50/2016, c.d. codice dei contratti pubblici), sarebbe stato configurabile un nesso di strumentalità tra il pagamento del proprio credito e la soddisfazione del credito dell’impresa appaltatrice fallita, in quanto il primo sarebbe stato condizione di esigibilità dei crediti vantati dalla seconda verso la committente, ragion per cui la soddisfazione di un simile credito sarebbe dovuta avvenire con preferenza ai sensi dell’art. 111 l.f.,  in quanto utile alla gestione fallimentare.

Il Tribunale bresciano non ha condiviso tale prospettazione ed ha precisato che il mancato riconoscimento della prededuzione al credito del subappaltatore risulta coerente con i principi generali del concorso quali la par condicio creditorum, il rispetto dell’ordine delle cause legittime di prelazione e la tassatività delle ipotesi di prededuzione contemplate dall’art. 111, co. 2, l.f.

(Massima a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Decreto del 14 agosto 2019 – Presidente: dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice relatore: dott. Stefano Franchioni

L’amministrazione finanziaria, come tutti gli altri creditori, deve rispettare il termine annuale di cui all’art. 101, 1°  co., l. fall.; sicché, dopo aver avuto conoscenza della dichiarazione di fallimento, la stessa deve immediatamente attivarsi per predisporre i titoli per la tempestiva insinuazione dei propri crediti al passivo, senza che i diversi e più lunghi termini previsti per la formazione dei ruoli e l’emissione delle cartelle possano costituire una esimente di carattere generale dal rispetto del citato termine (conf. Cass. n. 17787/2015 e Cass. n. 21189/2011).

In quest’ottica, l’intervenuta dichiarazione di fallimento del contribuente giustifica l’emissione dell’avviso di accertamento senza l’osservanza del termine dilatorio previsto dal c.d. statuto del contribuente, discendendo l’urgenza dalla necessità dell’Erario di procurarsi tempestivamente il titolo per insinuarsi al passivo del fallimento (conf. Cass. n. 13294/2016); il fallimento del contribuente viene ritenuto inoltre circostanza che integra di per sé il requisito del periculum in mora richiesto per l’iscrizione delle imposte nel ruolo straordinario (conf. Cass. n. 12887/2007).

L’agente della riscossione ha la possibilità di richiedere l’ammissione allo stato passivo di crediti sia previdenziali che tributari sulla base del semplice estratto di ruolo, senza che occorra la previa notifica della cartella esattoriale (conf. Cass. n. 2732/2019), e di presentare istanza di insinuazione con documentazione incompleta, con conseguente ammissione del credito ai sensi dell’art. 96 l. fall. con riserva di produzione dei documenti (conf. Cass. n. 21189/2011).

I principi sono stati espressi nel giudizio di opposizione allo stato passivo promosso dall’agente della riscossione, con la chiamata in causa dell’ente creditore, avverso il decreto che aveva dichiarato inammissibile l’istanza di insinuazione depositata oltre il termine annuale di cui all’art. 101, 1° co., l. fall., posto che il ritardo non poteva essere considerato non imputabile al creditore in base alla previsione dell’ultimo comma della disposizione citata. Il Tribunale di Brescia ha confermato la decisione del Giudice delegato, avendo ritenuto non assolto, da parte dell’amministrazione finanziaria, l’onere di provare la scusabilità del ritardo, ex art. 101, ult. co., l. fall.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 12 agosto 2019 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Angelica Castellani

La disciplina del rapporto tra nudo proprietario e usufruttuario nelle società di persone deve essere ricercata nelle norme del contratto sociale e nei principi generali (ricavabili anche dalle disposizioni in materia di società capitali, laddove aventi carattere non eccezionale e, pertanto, suscettibili di applicazione analogica). In particolare, in tema recesso del socio nudo proprietario, deve escludersi, ai fini del legittimo esercizio di tale facoltà, il necessario concorso della volontà del titolare di usufrutto sulla quota oggetto di recesso. A sostegno di tale impostazione militano i seguenti argomenti:

a) l’opinione assolutamente prevalente in dottrina – formatasi in relazione all’art. 2352 c.c. ante e post riforma, estendibile, in considerazione della sua portata generale, alle società di persone – secondo cui il recesso non è qualificabile – se non parzialmente e per difetto – come mero diritto amministrativo, essendo maggiormente accostabile alle facoltà il cui esercizio incide direttamente sulla partecipazione societaria o sulla sua misura (come il diritto di opzione o come la stessa vicenda traslativa): la quasi totalità degli interpreti ha, conseguentemente, sostenuto che, in presenza di vincoli sulle partecipazioni, la titolarità del diritto di recesso rimanga di competenza esclusiva del socio, ancorché nudo proprietario o debitore pignoratizio;

b) la tesi avallata, ante riforma, dalla Corte di Cassazione, che ha ulteriormente escluso che il titolare del diritto parziario (in quel caso un creditore pignoratizio) possa esercitare il recesso in via surrogatoria ex art. 2900 c.c., affermando il seguente principio giuridico: “il creditore pignoratizio delle azioni – ancorché, ai sensi dell’art. 2352 cod. civ., a lui competa, in luogo del socio suo debitore, il diritto di voto (anche) nelle deliberazioni concernenti il cambiamento dell’oggetto o del tipo della società o il trasferimento della sede sociale all’estero – non è legittimato ad esercitare il diritto di recesso di cui all’art. 2437 cod. civ., configurandosi questo come un atto di disposizione in ordine alla partecipazione societaria, di esclusiva spettanza del socio, ed essendo d’altra parte la tutela del creditore pignoratizio affidata, in presenza di una diminuzione del valore delle azioni conseguente a quei deliberati mutamenti societari, all’istituto della vendita anticipata ex art. 2795 cod. civ.” (Cass. n. 10144/2002);

c) la considerazione secondo cui attribuire all’usufruttuario il diritto di recesso contrasterebbe con il principio di cui all’art. 981, co. 1, c.c., che impone al titolare del diritto reale parziario l’obbligo di rispettare la destinazione economica del bene, nonché con lo stesso art. 832 c.c., poiché si verrebbe a creare una limitazione al diritto esclusivo di disposizione del proprietario non prevista dalla legge;

d) argomento contrario a tale tesi non può, infine, essere ricavato dall’art. 1000 c.c., che, attenendo alla mera “riscossione” di capitali fruttiferi e riferendosi non già al “consenso” dell’usufruttuario, bensì al solo “concorso” dello stesso nelle operazioni esecutive di liquidazione, non può essere applicato estensivamente alla manifestazione di volontà inerente lo scioglimento del vincolo sociale.

Il credito relativo alla liquidazione della quota del socio uscente, avendo fin dall’origine ad oggetto una somma di denaro, ha natura pecuniaria e costituisce, quindi, un credito di valuta (conf. Cass. n. 11598/1995 e Cass. n. 5548/2004). Inoltre, l’impugnazione del socio recedente della delibera societaria che giustifica l’esercizio del diritto di recesso (nel caso di specie, della delibera di trasformazione della società da s.a.s. a s.r.l.) determina il venir meno dei requisiti di certezza ed esigibilità del credito, sicché deve escludersi che la società, che ometta il richiesto pagamento della quota di liquidazione, abbia assunto un comportamento inadempiente che giustifichi l’applicazione degli interessi moratori secondo il regime “sanzionatorio” previsto dall’art. 1284, co. 4, c.c.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso dal socio accomandante di una s.a.s., titolare della piena proprietà del 10% del capitale sociale e della nuda proprietà del 35% del predetto capitale sociale, quota quest’ultima gravata da usufrutto, nei confronti della società, al fine di far accertare il proprio intervenuto recesso dalla stessa e ottenere la condanna della convenuta alla liquidazione in proprio favore della quota di cui all’epoca del recesso risultava titolare.

A fondamento della domanda l’attore ha esposto che i soci avevano deliberato, senza la sua partecipazione e senza che lo stesso fosse stato avvisato dello svolgimento della riunione, la trasformazione della s.a.s. in s.r.l. con contestuale aumento del capitale sociale.

(Massime a cura di Marika Lombardi)




Decreto del 24 luglio 2019 – Presidente: Dott.ssa Angelina Augusta Baldissera – Giudice relatore: Dott. Stefano Franchioni

Nell’ambito del giudizio di opposizione allo stato passivo, le domande svolte, in via subordinata, dalla curatela per la rideterminazione dell’ammontare del credito ammesso dal giudice delegato non sono ammissibili, in quanto il curatore che intenda contestare l’accertamento del giudice delegato deve impugnare lo stato passivo nel termine di rito, non essendo sufficiente la proposizione di una mera eccezione sul punto nel giudizio di opposizione promosso dal creditore istante (conf. Cass., 20 aprile 2018, n. 9928).

Il mutuo è un contratto di natura reale che si perfeziona con la consegna di una determinata quantità di danaro (o di altre cose fungibili) ovvero con il conseguimento della giuridica disponibilità di questa da parte del mutuatario; ne consegue che la tradito rei può essere realizzata attraverso l’accreditamento in conto corrente della somma mutuata a favore del mutuatario, perché in tal modo il mutuante crea, con l’uscita delle somme dal proprio patrimonio, un autonomo titolo di disponibilità in favore del mutuatario (conf. Cass., 21 febbraio 2001, n. 2483).

Il curatore fallimentare che intenda promuovere l’azione revocatoria ordinaria, per dimostrare la sussistenza dell’eventus damni,ha l’onere di provare tre circostanze: (a) la consistenza del credito vantato dai creditori ammessi al passivo nei confronti del fallito; (b) la preesistenza delle ragioni creditorie rispetto al compimento dell’atto pregiudizievole; (c) il mutamento qualitativo o quantitativo del patrimonio del debitore per effetto di tale atto (conf. Cass., 31 ottobre 2008, n. 26331).

Principi espressi nell’ambito di un procedimento di opposizione allo stato passivo in cui il creditore insisteva per l’ammissione del credito al passivo in via privilegiata ipotecaria. Si costituiva il fallimento chiedendo il rigetto dell’opposizione e la conferma dell’ammissione del creditore al passivo in via chirografaria.

(Massime a cura di Giulia Ballerini)




Decreto del 22 luglio 2019 – Giudice estensore: dott.ssa Angelina Augusta Baldissera

La procedura di liquidazione del patrimonio, pur instaurandosi ad istanza del debitore, una volta avviata non rientra più nella sfera di disponibilità della parte istante, rilevando interessi di natura pubblicistica alla sua prosecuzione, con conseguente inammissibilità della domanda di rinuncia alla liquidazione.

Principio espresso nel contesto della procedura di liquidazione del patrimonio ex articolo 14-ter e seguenti della legge 3 del 2012 (in materia di sovraindebitamento).

(Massima a cura di Giovanni Fumarola)




Sentenza del 10 luglio 2019 – Presidente estensore: Dott. Giuseppe Magnoli

In
caso di leasing c.d. traslativo, è applicabile la disciplina dell’art.
1526 c.c., cosicché, laddove una clausola delle condizioni generali di
contratto preveda l’acquisizione definitiva
in capo al concedente dei canoni già riscossi, la situazione è certamente da
ricondursi a quella descritta dal secondo comma della norma citata. Pertanto,
non è ammissibile la domanda di restituzione dei canoni corrisposti, che
vengono trattenuti a titolo di indennità, potendo l’utilizzatore chiedere
esclusivamente la riduzione dell’indennità convenuta, se eccessiva.

Principi espressi a seguito dell’appello proposto
dal curatore del fallimento di un’impresa utilizzatrice avverso la sentenza del
Tribunale che, dopo aver dichiarato la risoluzione del contratto di leasing
per inadempimento di quest’ultima, aveva disatteso la domanda dalla stessa
formulata, volta ad ottenere la restituzione dei canoni pagati.

(Massima
a cura di Lorena Fanelli)




Sentenza del 9 luglio 2019 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott. Davide Scaffidi

Il soggetto, che anche al di fuori dell’orario lavorativo, apporti modifiche di qualsivoglia genere al codice sorgente di un programma per elaboratore, non può reclamare la paternità del medesimo, potendo al più ritenersi coautore o autore delle modifiche apportate con le successive versioni, sì che la paternità dell’opera spetta in ogni caso al datore di lavoro.

La contraffazione del software può integrare altresì un atto di concorrenza sleale per violazione dei principi della correttezza professionale ex art. 2598 n. 3 c.c. allorquando l’imprenditore che si appropri ingiustificatamente del contenuto di un omologo programma altrui realizza una forma di concorrenza sleale parassitaria, avvantaggiandosi indebitamente dei risultati dell’impresa concorrente senza aver sostenuto corrispondenti oneri economici e gestionali, connessi a investimenti, organizzazione del lavoro e ricerca che sono normalmente sottesi all’elaborazione di qualsiasi software.

I programmi per elaboratore sono stati qualificati dal legislatore alla stregua delle opere letterali, come tali soggetti alla disciplina in materia di diritto d’autore, e non di proprietà intellettuale. Pertanto, non può accordarsi la tutela offerta dall’art. 98 c.p.i.

Decisione resa con riferimento al software, sviluppato da un dipendente in prossimità della cessazione del suo rapporto di lavoro con una società, commercializzato poi da altra società della quale tale ex dipendente diveniva collaboratore, prima e amministratore, poi; software asseritamente plagio di altro analogo già sviluppato e commercializzato dalla prima società.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)




Sentenza del 24 giugno 2019 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott.ssa Alessia Busato

Nell’ambito di una società a responsabilità limitata, deve ritenersi che gli amministratori nominati a tempo indeterminato possano essere revocati in ogni tempo e ciò in applicazione analogica della disciplina generale di cui all’art. 1725 cod. civ. in tema di revoca del mandato oneroso, salvo il diritto dell’amministratore revocato in assenza di giusta causa ad un congruo preavviso, la cui omissione determina solo ragioni risarcitorie in capo all’amministratore.

L’abuso o eccesso di potere può costituire motivo di invalidità della delibera assembleare, quando vi sia la prova che il voto determinante del socio di maggioranza è stato espresso allo scopo di ledere interessi degli altri soci, oppure risulta in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell’esecuzione del contratto.

In tema di delibere di nomina (o revoca) dei componenti dell’organo amministrativo, ciascun socio è libero di nominare amministratori di propria fiducia e gradimento, senza che ciò comporti, di regola, il perseguimento di un interesse “personale antitetico a quello sociale” mentre gli amministratori nominati dall’assemblea della società debbono, a loro volta, adempiere il loro mandato nel rispetto di precisi obblighi e responsabilità (stabiliti nell’interesse della società amministrata).

Principi espressi nel decidere una controversia avente ad oggetto la rimozione – asseritamente senza giusta causa – di un amministratore della società con delega alla redazione delle scritture contabili dalle quali non emergeva un credito della società medesima nei confronti di altra società unipersonale del predetto amministratore delegato. Parte attrice chiedeva la rimozione della delibera assunta, a suo dire, con abuso di potere della maggioranza e che aveva ad oggetto non soltanto la rimozione dell’amministratore “infedele” ma anche la nomina di un amministratore unico il quale sarebbe stato nominato solo formalmente, come avrebbe dovuto emergere dalla durata ed il compenso dell’incarico previsti, così da lasciare la gestione di fatto della società ad altro soggetto.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)