Decreto del 12 febbraio 2016 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott.ssa Angelina Augusta Baldissera

L’apertura della procedura di liquidazione del patrimonio del debitore che
versa in stato di sovraindebitamento presuppone, come pure si desume dalla
disposizione di cui all’art. 14 quinquies della l. n. 3 del 2012, che
la domanda di liquidazione soddisfi integralmente i requisiti di cui all’art.
14 ter della legge medesima.

Deve ritenersi che, ai fini dell’integrazione del requisito di cui alla
lett. a), relativo, da un lato, all’indicazione della causa
dell’indebitamento e, dall’altro, alla diligenza impiegata dal
debitore nell’assumere obbligazioni, sia necessario offrire al giudice una
relazione particolareggiata. Sicché, in mancanza di quest’ultima, per il primo
aspetto, non è sufficiente il generico riferimento allo stato di crisi del
settore di mercato in cui operano le società amministrate o partecipate dal
debitore; mentre, per il secondo aspetto, la mole e la natura delle esposizioni
del debitore possono essere sintomatiche, di per sé stesse, di un difetto di
diligenza nell’assumere obbligazioni.

Infine, la documentazione prodotta dal proponente, di cui alla lett. c)
dell’art. 14 ter, ai fini dell’ammissibilità della domanda, nonché del
giudizio di completezza e attendibilità, di cui alla lett. e) della
disposizione medesima, deve consentire una compiuta ricostruzione della
situazione economica e patrimoniale del debitore, in una prospettiva di
sviluppo temporale tendenzialmente riferibile al quinquennio.

Principi applicati in ipotesi di accoglimento di reclamo avverso il
decreto di apertura del procedimento di liquidazione previsto agli artt. 14
ter
e seguenti della l. n. 3 del 2012.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 5 dicembre 2015, n. 3546 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott.ssa Vincenza Agnese

La tutela del software (si vedano per la definizione, ex plurimis, Cass. nn. 13524/2014; 581/2007; 8011/2012), essendo, all’interno dell’ordinamento nazionale, considerato appartenente alla categoria dei beni giuridici immateriali, è offerta dalla normativa sul diritto d’autore.

Ai fini dell’accesso a tale tutela il programma deve presentare il requisito della originalità, il quale – pur costituendo un requisito di accesso alla protezione situato ad un livello di minore rigore rispetto a quanto dalla legge richiesto per il riconoscimento della novità intrinseca del brevetto per l’invenzione industriale – postula che il programma di cui si chiede protezione non rappresenti una soluzione tipica conosciuta dagli operatori di settore.

(Conforme a Trib. di Milano, 29.01.1997).

Ai medesimi fini, ne consegue la necessità di stabilire se il programma sia frutto di un’elaborazione creativa da parte del suo autore, ciò tenendo conto che la creatività e l’originalità sussistono anche qualora l’opera (o programma) sia composta da idee e nozioni semplici organizzate in maniera autonoma rispetto alle precedenti.

(Conforme a Cass. n. 13524/2014).

In altri termini, la originalità postula un personale sforzo creativo da parte del suo autore sì da determinare la certa esclusione della già avvenuta creazione di un’opera (o programma) simile, implicando, dunque, un sufficiente grado di “valore aggiunto” rispetto alla situazione anteriore.

(Conforme a Cass. n. 13937/1999).

Tale requisito tuttavia subisce, se riferito software, un adattamento necessitato dalle peculiarità dell’oggetto cui esso inerisce: a differenza delle opere dell’ingegno (la cui originalità riguarda essenzialmente la forma espressiva), il giudizio di originalità comprende le utilità da esso ricavabili e le scelte tecnico-esecutive per il conseguimento di queste ultime, che non devono essere già state utilizzate da altri operatori di settore per il conseguimento di quelle medesime utilità.

La carenza del requisito della originalità del software determina altresì l’esclusione della tutela, offerta dagli artt. 98 e 99 c.p.i., conseguente alla violazione di informazioni segrete.

Tale esclusione consegue al difetto del requisito implicito della novità, di cui all’art. 98, primo comma, lett. a), c.p.i., posto che l’assenza di uno solo dei plurimi requisiti che connotano la fattispecie (che devono essere tutti allegati e provati dalla parte che ne reclama la relativa tutela) impedisce di sussumerne i relativi fatti nell’alveo normativo.

(Inoltre, la giurisprudenza che si è occupata dell’argomento richiede, ai medesimi fini, la prova di parte reclamante delle misure concretamente adottate per impedire la diffusione delle informazioni asseritamente segrete. Cfr. Trib. di Milano, 08.11.2005).

Integrano la fattispecie di cui all’art. 2598, n. 3, c.c. le condotte volte all’illecita appropriazione di c.d. codici sorgente di programmi per elaboratori, nonché all’illecito sfruttamento economico dei medesimi.

Gli atti del dipendente infedele consistenti nel fornire ad altra impresa concorrente notizie attinenti all’organizzazione e all’attività del proprio datore di lavoro, idonee ad arrecargli danno con vantaggio dell’impresa concorrente, sono a quest’ultima imputabili a titolo di concorrenza sleale, in forza di una presunzione di partecipazione di essa al fatto, valida fino a prova contraria.

(Conforme a Cass. n. 5708/1985).

La commercializzazione di un software illecitamente contraffatto, e il conseguente ricavo di un ingiusto profitto, costituisce un’attività professionalmente scorretta e sanzionabile, anche per sviamento di clientela, ex art. 2598, n. 3, c.c.

Il danno, conseguente all’integrazione della fattispecie di concorrenza sleale, può essere equitativamente determinato exart. 1226 c.c. ed il pregiudizio quantificato con riguardo agli utili realizzati dalla impresa nel periodo di durata dello sfruttamento economico del vantaggio concorrenziale (c.d. criterio di reversione degli utili exart. 125 c.p.i.).

Così, esemplarmente, ai fini della quantificazione del danno conseguente alla commercializzazione di un software contraffatto possono essere utilizzate le fatture prodotte in giudizio, exart. 210 c.p.c., relative al periodo in cui detta commercializzazione è avvenuta (tenendo conto che non tutte appaiono immediatamente riferibili alla stessa): i relativi utili – considerando i costi, invero contenuti, connessi alla concessione in licenza di un software ed invece l’elevato valore aggiunto da essa discendente – possono ragionevolmente quantificarsi nella misura del 40% dei ricavi conseguiti nel periodo considerato.

L’attacco ingiusto diretto a ledere il concorrente ed i suoi prodotti e/o servizi legittima una reazione di quest’ultimo che ristabilisca la verità e consenta al pubblico di avere una corretta percezione dei soggetti operanti sul mercato. Sicché l’accoglimento della domanda di concorrenza sleale legittima le condotte del danneggiato volte a screditare l’immagine del danneggiante.

(Conforme Cass. n. 11047/1998).

Principi espressi in ipotesi di parziale accoglimento del ricorso promosso da una s.r.l. a tutela del software dalla stessa utilizzato ai fini dell’accertamento della violazione dei diritti d’autore e della normativa sulla tutela delle informazioni segrete, nonché della responsabilità per concorrenza sleale, conseguenti alla illecita duplicazione e distribuzione di detto software.

Nello specifico, è stata accertata la sussistenza della sola responsabilità risarcitoria per concorrenza sleale ex art. 2598, n. 3, c.c.

Sent. 5.12.2015, n. 3546

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Decreto del 28 ottobre 2015 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott. Gianluigi Canali

In tema di ammissione al passivo fallimentare, deve ritenersi escluso il privilegio di cui all’art. 2751-bis, n. 2, c.c. per i crediti aventi natura indennitaria, in quanto tale privilegio non compete ad ogni emolumento dovuto in forza di contratto di prestazione d’opera, ma soltanto ai corrispettivi che, per essere riconducibili ad una effettiva attività svolta dal prestatore d’opera, assumano i caratteri del compenso retributivo.

I principi sono stati espressi nel giudizio di opposizione ex art. 98 l. fall. promosso dal prestatore d’opera avverso il decreto di esecutività dello stato passivo che aveva disposto l’ammissione del credito avente titolo nell’indennità conseguente al recesso anticipato del committente integralmente al chirografo.

L’opponente, in particolare, chiedeva l’ammissione del credito al privilegio per compensi professionali ex art. 2751-bis, n. 2, c.c. 

Sul punto il Tribunale, accertata la natura indennitaria del credito (trattandosi, in ipotesi, di indennità conseguente al recesso anticipato del committente, contrattualmente prevista), ha rigettato l’opposizione, confermando l’ammissione del credito in via chirografaria.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza dell’11 giugno 2015 – Giudice designato: dott. Gianluigi Canali

Ai fini dell’accoglimento dell’azione revocatoria fallimentare, il curatore è, tra l’altro, tenuto a provare che l’estinzione del debito pecuniario (scaduto ed esigibile) sia avvenuta con mezzo non normale, sicché in ipotesi in cui, come nel caso di specie, il pagamento sia avvenuto mediante datio in solutum, trattandosi pacificamente di mezzo non normale di adempimento rilevante ai sensi dell’art. 67, comma primo, l. fall., tale requisito deve ritenersi provato.

La consecutiotra procedure di cui all’art. 69-bis l. fall. si giustifica in quanto, di regola, il fallimento costituisce sviluppo della condizione di dissesto che ha dato causa alla precedente procedura concordataria (conf. Cass. n. 6031/2014); nondimeno, il fatto che tra le procedure sussista uno iato temporale non rileva di per sé, anche alla luce della riforma della legge fallimentare, che ha eliminato l’automatismo tra inammissibilità della proposta di concordato e fallimento. Ciò che rileva è, dunque, la continuità causale tra concordato e fallimento, che può ritenersi sussistente laddove, come nella fattispecie in esame, quest’ultimo sia stato dichiarato in base all’accertamento dell’evoluzione negativa dello stato di insolvenza che aveva condotto al deposito del ricorso inerente la prima procedura. Grava comunque su chi contesta la soluzione di continuità l’onere di provare che il debitore era uscito, medio tempore, dallo stato di illiquidità che aveva fondato la domanda di concordato.

Il soggetto convenuto in revocatoria non può limitarsi ad una prova meramente negativa, equivalente alla mancanza della prova positiva della conoscenza, dovendo invece dimostrare la sussistenza, al momento dell’atto revocando, di circostanze tali da far ritenere, ad una persona di ordinaria prudenza ed avvedutezza, che l’imprenditore si trovasse in una situazione di normale esercizio dell’impresa (conf. Cass. n. 10432/2005).

I principi sono stati espressi nel giudizio ex art. 702-bis c.p.c. promosso dalla curatela fallimentare di una s.r.l. ai fini della revoca ex art. 67, comma primo, n. 2, l. fall. dell’atto di cessione con cui la società (cedente), poi fallita, aveva trasferito beni immobiliari di sua proprietà ad altre società (cessionarie) a titolo di dazione in pagamento della somma risultante dalla rinuncia parziale al maggior credito vantato dalle cessionarie medesime nei confronti della fallita.

Sul punto il Tribunale, accertata la sussistenza dei presupposti necessari ai fini dell’azione revocatoria ex art. 67, co. 1, n. 2, l. fall., accertato il mancato assolvimento, da parte delle convenute, dell’onere di provare la mancata conoscenza dello stato di insolvenza al momento della cessione revocanda, ha accolto il ricorso dichiarando l’inefficacia dell’atto di cessione nei confronti del fallimento.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Decreto del 29 aprile 2015 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott. Gianluigi Canali

Dev’essere rigettata l’istanza di fallimento promossa nei confronti di società semplice, la quale svolga, tra le altre, attività dirette alla commercializzazione di prodotti (nel caso di specie, carni) ottenuti da animali dalla stessa allevati.

Il principio è stato espresso in ipotesi di istanza di fallimento promossa da una s.r.l. (creditrice) nei confronti di società semplice (debitrice), avente quale oggetto esclusivo l’esercizio di attività agricola e non commerciale, la quale, tra le altre, svolgeva altresì attività di commercializzazione di prodotti ottenuti da animali dalla stessa allevati.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Decreto del 1° aprile 2015 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott. Gianluigi Canali

In tema opposizione allo stato passivo, la domanda di accertamento del rapporto di lavoro è strumentale all’istanza di ammissione al passivo dei crediti nascenti da tale rapporto, sicché deve ritenersi rientrante nella competenza del giudice fallimentare (conf. Cass. n. 11674/2005).

Dev’essere, inoltre, esclusa l’applicabilità per via analogica della disciplina fissata per l’appello dall’art. 345 c.p.c., in quanto, pur avendo l’opposizione allo stato passivo natura impugnatoria, non può essere qualificata alla stregua di un giudizio di appello, con conseguente inoperatività delle preclusioni di cui all’art. 345 c.p.c. in materia di nuove domande (conf. Cass. n. 4708/2001).

In tema di ammissione al passivo fallimentare, ai fini del riconoscimento del privilegio ex art. 2751-bis, n. 1, c.c. per crediti di lavoro, l’istante è tenuto a provare i fatti costitutivi del rapporto di lavoro “diretto” con il fallito, non essendo a tal fine sufficiente la mera produzione di “buste paga” emesse da altra società, laddove l’istante, come nel caso di specie, affermi di aver svolto l’attività lavorativa in favore della società, poi fallita, in virtù di un contratto di somministrazione di manodopera irregolare.

I principi sono stati espressi nel giudizio di opposizione ex art. 98 l. fall. promosso da alcuni prestatori di lavoro avverso la comunicazione ex art. 97 l. fall. che aveva rigettato la domanda di ammissione al passivo dei crediti di lavoro dagli stessi asseritamente vantati nei confronti di una s.r.l., poi fallita, per “difetto di prova del rapporto di lavoro diretto con il fallito”; i medesimi, infatti, risultavano inseriti nella struttura organizzativa della società, poi fallita, in virtù di un contratto di affitto d’azienda stipulato con una società cooperativa, presso cui erano assunti con contratto di lavoro subordinato.

Gli opponenti, in particolare, chiedevano l’accertamento della costituzione di un rapporto di lavoro subordinato con la società, poi fallita, ai sensi dell’art. 27 del d.lgs. n. 276/2003 e la conseguente ammissione al passivo del fallimento di crediti da retribuzioni e TFR.

Sul punto il Tribunale, rigettata l’eccezione di incompetenza proposta dalla curatela fallimentare, rilevata l’insufficienza delle prove fornite dai ricorrenti ai fini dell’accertamento della sussistenza del rapporto di lavoro, ha rigettato l’opposizione.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza del 25 marzo 2015 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott.ssa Vincenza Agnese

La diversità grafica, la fonetica, l’aggiunta di una certa dicitura, la classe merceologica e la diversità della qualità dei prodotti non appaiono, in sé, elementi di differenziazione sufficienti ad escludere l’identità sostanziale del segno e dei prodotti commercializzati e, dunque, la tutela offerta al titolare del marchio ai sensi dell’art. 20 c.p.i.

Deve infatti ritenersi che, in primo luogo, né il carattere maiuscolo o minuscolo delle (stesse) lettere che compongono la denominazione dei segni distintivi né la proposta di lettura dei marchi con accenti diversi siano adeguati ad escluderne la confondibilità presso il consumatore.

Neppure può considerarsi, allo stato, adeguato elemento di differenziazione la circostanza che la registrazione del marchio rechi una certa dicitura né che esso sia stato registrato per una classe merceologica diversa, laddove siano in concreto commercializzati (anche) prodotti non recanti la dicitura aggiuntiva e afferenti a classe merceologica che pure non corrisponde a quella di registrazione.

Infine, nemmeno la qualità superiore o inferiore dei prodotti, determinata in ragione del materiale utilizzato per la produzione, è in grado di elidere l’identità delle loro caratteristiche. Ciò, particolarmente, in ipotesi di commercializzazione via web, poiché il consumatore non ha la possibilità di toccare i prodotti al fine di cogliere l’eventuale differenza di qualità dei materiali impiegati, e, in ogni caso, quando il commercio avviene mediante punti vendita tradizionali ove il consumatore non abbia contemporaneamente a disposizione entrambi i prodotti.

L’eccezione di preclusione per tolleranza, di cui all’art. 28 c.p.i., presuppone la conoscenza effettiva in capo al titolare della registrazione anteriore dell’uso del marchio da parte di chi intenda giovarsene. La prova deve essere fornita da chi eccepisce la convalidazione, non risultando sufficiente, a tal fine, la pubblicità costituita dalla registrazione.

(Conforme a Corte di Giustizia UE, 22 settembre 2011, caso Anheuser-Busch; Cass. n. 26498/2013; Trib. di Torino, 15.01.2010).

Ulteriormente, la prova non può considerarsi raggiunta mediante la mera allegazione dell’esistenza di una proposta di collaborazione risalente nel tempo tra i titolari.

La mancata specifica allegazione e prova di ogni danno all’immagine derivante dall’uso di un marchio confondibile esclude la necessità di pubblicazione del dispositivo del provvedimento che ne inibisce l’uso medesimo, integrando siffatta pubblicazione una fattispecie di risarcimento in forma specifica che presuppone un accertamento pur sommario della effettiva verificazione del relativo danno.

L’applicazione dei principi, ex art. 22 c.p.i., elaborati in ordine alla capacità distintiva ed alla novità dei marchi alla denominazione sociale deve essere contemperata con la specifica disciplina e la funzione svolta da quest’ultima. Deve, infatti, rammentarsi che la denominazione sociale può rimanere immutata anche nell’ipotesi di cambiamento dell’oggetto sociale, ciò in quanto ha la funzione di individuare la società come soggetto di diritto, prescindendo dall’attività in concreto svolta.

(Conforme a Trib. di Torino, 08.05.1996; Trib. di Bari, 21.12.2006).

Principi applicati in ipotesi di parziale accoglimento di reclamo avverso l’ordinanza di accoglimento del ricorso, ex artt. 700 c.p.c. e 129-131 c.p.i., che ha disposto nei confronti della reclamante: l’inibizione del commercio dei prodotti simili a quelli commercializzati dalla reclamata; il ritiro dal commercio di detti prodotti, con sequestro di quelli presenti presso la sede, le pertinenze e le dipendenze; l’utilizzo del marchio confondibile nella denominazione sociale; l’utilizzo di pagine Facebook contenti il marchio confondibile; il pagamento di una penale per la violazione e il ritardo dell’esecuzione del provvedimento; nonché la pubblicazione del dispositivo su un quotidiano nazionale e, per trenta giorni, sul sito web della medesima.

Nello specifico, l’ordinanza impugnata è stata revocata nei punti in cui inibiva alla reclamante l’utilizzo del marchio confondibile nella denominazione sociale e in cui ordinava la pubblicazione del dispositivo.

Ord. 25.3.2015

(Massima a cura di Marika Lombardi)