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Tribunale di Brescia, ordinanza del 25 settembre 2023 – società in nome collettivo, amministrazione disgiuntiva, diritto di opposizione ex art. 2257 comma 2 c.c. 

Il sistema di amministrazione delle società in nome collettivo, salvo diversa pattuizione, è quello disgiuntivo, conformemente al disposto dell’art. 2257 c.c., secondo cui “l’amministrazione della società spetta a ciascuno dei soci disgiuntamente dagli altri”; conseguentemente ciascun socio può, di propria iniziativa, legittimamente compiere tutti gli atti di gestione anche nell’interesse degli altri soci e senza il loro necessario preventivo consenso o parere.  Più nello specifico, in base a quanto previsto dal citato art. 2257 c.c., i caratteri distintivi del modello di amministrazione disgiuntiva sono: i) l’autonomo potere di ciascun socio amministratore di porre in essere i negozi giuridici attuativi dell’oggetto sociale anche disgiuntamente dagli altri soci; ii) il diritto, in capo a questi ultimi, di opporsi all’iniziativa del socio agente prima che l’atto sia compiuto; iii) il deferimento della decisione su tale opposizione alla collettività dei soci che decide a maggioranza.

L’art. 2257, 2° co., c.c. prevede che il diritto di opposizione debba essere esercitato -in modo specifico e non generico – prima che l’operazione contestata sia compiuta,  il che risponde perfettamente alla ratio del modello gestorio dell’amministrazione disgiuntiva, che accorda prevalenza alle necessità di semplicità, tempestività ed efficienza della gestione dell’impresa sociale, esigenze che vengono anteposte alla ponderazione che conseguirebbe dalla necessaria condivisione delle decisioni.

Qualora un socio e amministratore di una s.n.c. in regime di amministrazione disgiuntiva abbia ottenuto, in nome e per conto di questa, un decreto ingiuntivo per il pagamento di un credito dalla stessa vantato nei confronti di una società correlata, la successiva comunicazione di costui di volersi costituire nel giudizio di opposizione promosso dall’ingiunta non costituisce una autonoma “operazione” suscettibile di veto da parte degli altri soci amministratori, posto che con la richiesta e la notifica del decreto ingiuntivo l’operazione volta al recupero del credito vantato dalla società partecipata deve ritenersi compiuta, non essendo più possibile impedirne la realizzazione.

Per contro, la decisione assunta a maggioranza dei soci amministratori di una società in nome collettivo di non costituirsi – in pendenza del relativo termine – nella causa di opposizione al decreto ingiuntivo precedentemente richiesto ed ottenuto da uno di essi, non avendo ancora esaurito i propri effetti, è suscettibile di opposizione e va, in concreto, ritenuta intrinsecamente incompatibile con l’interesse della società la cui tutela richiede, pur sempre, una diligente e consapevole assunzione della difesa in giudizio (a prescindere dalla scelta di merito di coltivare o meno ed in quali termini il recupero effettivo del credito oggetto del procedimento monitorio).      

Princìpi espressi nell’ambito di un procedimento cautelare ex art. 700 c.p.c. promosso da un socio amministratore di una società in nome collettivo volto a richiedere la sospensione, in via d’urgenza, della decisione con la quale era stato deliberato l’accoglimento, a maggioranza, dell’opposizione ex art. 2257, secondo comma, c.c. alla costituzione della società nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo dalla stessa ottenuto nei confronti di una società correlata. Più precisamente, con la decisione de quo la maggioranza dei soci aveva statuito che la società non dovesse costituirsi nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo richiesto ed ottenuto nel suo interesse dal ricorrente del procedimento cautelare, il quale, di contro, aveva palesato la propria intenzione, poi opposta, di volervi procedere. 

(Massime a cura di Giulio Bargnani)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 25 settembre 2023 – s.n.c., amministrazione disgiuntiva, diritto di opposizione ex art. 2257 2° co. c.c.




Tribunale di Brescia, sentenza del 25 settembre 2023, n. 2379 – Diritti connessi al diritto d’autore, progetti di lavori di ingegneria, diritto al compenso, arricchimento senza causa

L’art. 99 l. aut., similmente all’art. 2578 c.c., prevede che all’autore di “progetti di lavori di ingegneria, o di altri lavori analoghi, che costituiscano soluzioni originali di problemi tecnici, compete, oltre al diritto esclusivo di riproduzione dei piani e disegni dei progetti medesimi, il diritto ad un equo compenso a carico di coloro che realizzino il progetto tecnico a scopo di lucro senza il suo consenso”. Tuttavia, la norma precisa che “per esercitare il diritto al compenso l’autore deve inserire sopra il piano o disegno una dichiarazione di riserva ed eseguire il deposito del piano o disegno presso” il Ministero della cultura – Direzione Generale Biblioteche e diritto d’autore. Qualora il presunto autore non abbia allegato né provato l’avvenuta consegna dei progetti alla controparte, non può vantare nei confronti di questa alcun diritto al compenso. Lo stesso dicasi nel caso in cui il convenuto provi di essere giunto alle medesime soluzioni originali in modo indipendente dall’autore dei relativi progetti.

Quando è respinta l’azione promossa per la protezione del diritto d’autore o di un altro diritto connesso, perché l’opera non può rientrare nelle categorie tutelate da singole disposizioni dettate in materia autoriale, deve riconoscersi l’ammissibilità, in via sussidiaria, dell’azione di arricchimento senza causa, per il cui accoglimento occorre accertare: i) se quella che non è opera dell’ingegno abbia consistenza giuridica sotto altro legittimo profilo; ii) se sia idonea a produrre un ingiusto vantaggio in danno del titolare della corrispondente situazione giuridica soggettiva (cfr. Cass. n. 773/1980).

In materia di arricchimento senza causa, ai fini dell’indennizzo l’art. 2041 c.c.
considera solo la diminuzione patrimoniale subita dal soggetto e non anche il lucro cessante, che è
altra componente, separata e distinta, del danno patrimoniale complessivamente subito alla stregua
dell’art. 2043 c.c., ma espressamente escluso dall’art. 2041 c.c. Ne consegue che l’azione di arricchimento è ammissibile solo limitatamente a quanto un soggetto abbia fatto proprio, apportando contemporaneamente una diminuzione patrimoniale all’altro soggetto (cfr. Cass., S.U., n. 23385/2008; Cass. n. 18785/2005).

Principi espressi nell’ambito del giudizio promosso dal titolare di un’impresa individuale avverso una società a responsabilità limitata, lamentando l’illecito uso, da parte di questa, di progetti ingegneristici di cui il primo si dichiarava titolare.

(Massime a cura di Simona Becchetti)




Tribunale di Brescia, sentenza del 25 settembre 2023, n. 2378 – atti di concorrenza sleale, concorrenza parassitaria, concorrenza parassitaria c.d. diacronica e c.d. sincronica

Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, l’art. 2598, n. 1, c.c. identifica come atti di concorrenza sleale, tra gli altri, l’utilizzo di nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, ovvero l’imitazione servile di prodotti di un concorrente; individua, infine, un’ipotesi, avente valore residuale, che consiste nel compimento, con qualsiasi altro mezzo, di atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente. Detta clausola consente di accordare tutela ad una varietà di fattispecie non singolarmente identificate, tra le quali può essere menzionata quella dell’imitazione di materiale pubblicitario altrui, dell’utilizzo nei propri depliant e sito internet di fotografie con la medesima inquadratura e disposizione dei prodotti usati dal concorrente e con medesime frasi pubblicitarie nonché l’imitazione di parte dei contenuti del sito internet e delle modalità di presentazione dei servizi del concorrente attraverso i social network.

Va esclusa la concorrenza sleale confusoria ex art. 2598, n. 1, c.c. nel caso in cui i marchi figurativi di due imprese concorrenti siano formati da segni distintivi in gran parte diversi, scritti in modalità grafiche e stilistiche differenti e accompagnati da disegni dalle forme geometriche difformi, e siano accomunati unicamente da un segno denominativo rappresentato dalla denominazione generica dei prodotti contraddistinti.

La concorrenza c.d. parassitaria è una forma di concorrenza sleale riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 2598, n. 3, c.c., che consiste in un continuo e sistematico operare sulle orme dell’imprenditore concorrente attraverso l’imitazione non tanto dei prodotti, ma piuttosto di rilevanti iniziative imprenditoriali di quest’ultimo, mediante comportamenti idonei a danneggiare l’altrui azienda con ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale (Cass. n. 25607/2018; Cass. n. 22118/2015). Tale comportamento si manifesta tramite una pluralità di atti che, considerati isolatamente, possono anche essere, in sé, non illeciti, ma che, presi nel loro insieme, lo diventano in quanto rappresentano la continua e ripetuta imitazione delle iniziative del concorrente e, quindi, lo sfruttamento sistematico del lavoro e della creatività altrui attraverso una molteplicità di azioni – o un comportamento globale – poste in essere contemporaneamente (Cass. n. 9387/1994). Una simile imitazione delle altrui proposte commerciali può, inoltre, considerarsi illecita esclusivamente se messa in atto a breve distanza di tempo da ogni singola iniziativa del concorrente (concorrenza parassitaria c.d. diacronica) o dall’ultima e più significativa di esse (concorrenza parassitaria c.d. sincronica), con la precisazione che, per “breve”, deve intendersi sia quell’arco di tempo durante il quale l’ideatore della nuova iniziativa ha ragione di attendersi utilità particolari dal lancio della novità in termini di incassi, pubblicità e avviamento, sia il periodo durante il quale l’iniziativa è considerata tale dai clienti e si impone, quindi, alla loro attenzione nella scelta del prodotto. Ciò in quanto il nostro ordinamento accorda tutela alla creatività esclusivamente per un tempo determinato, ossia fin quando l’iniziativa possa considerarsi originale, conseguentemente allorquando l’originalità viene meno, ovvero quando quel determinato modo di produrre e/o di commerciare è divenuto patrimonio ormai comune di conoscenze e di esperienze di quanti operano nel settore, l’imitazione non costituisce più un atto contrario alla correttezza professionale ed idoneo a danneggiare l’altrui azienda (Cass n. 25607/2018; Cass. n. 13423/2004).

Princìpi espressi nell’ambito di un giudizio instaurato da una società a responsabilità limitata operante nel settore del commercio di alimenti e bevande alcoliche e non alcoliche volto a far accertare che diverse condotte, riferibili ad un’impresa concorrente, costituivano atti di concorrenza sleale, così da ottenere, per l’effetto, l’inibitoria di tali comportamenti, oltre al risarcimento del danno subito ed alla pubblicazione della sentenza. 

(Massime a cura di Giulio Bargnani)




Tribunale di Brescia, sentenza del 15 settembre 2023, n. 78 – ricorso ex art. 2409 c.c., nozione di gravi irregolarità gestorie, ritardo nella convocazione dell’assemblea ordinaria per l’approvazione del bilancio, inerzia nella concessione dell’accesso ai soci dei documenti sociali, distrazione dei beni aziendali, assunzione di delibere di ingente rilievo economico in presunto conflitto di interessi da parte del socio-amministratore

La denunzia al Tribunale ex art. 2409 c.c. è uno strumento latu sensu cautelare, volto a fornire una pronta reazione a gravi irregolarità degli organi sociali, attuali e pertanto aventi non scemata potenzialità lesiva.

Il modesto ritardo nell’approvazione dei bilanci, a cagione dell’omessa convocazione nei termini di legge e di statuto dell’apposita assemblea ordinaria, non costituisce irregolarità grave ex art. 2409 c.c.. Ciò vale quand’anche tale ritardo sia privo di idonea giustificazione, laddove non avendo determinato conseguenze pregiudizievoli per la società sia privo di effettiva potenzialità lesiva.

L’inerzia nella risposta dell’istanza di accesso ai documenti sociali formulata da un socio non costituisce grave irregolarità ex art. 2409 c.c. poiché non è normalmente idoneo a recare pregiudizio alla società, pregiudicando solamente un diritto individuale del socio. Ciò vale a maggior ragione laddove tale inerzia non appaia ictu oculi ingiustificata.

La distrazione di beni aziendali da parte degli amministratori per finalità personali costituisce senz’altro irregolarità. Laddove, tuttavia, tale distrazione assuma proporzioni bagatellari – per il loro minimo impatto economico sul patrimonio sociale – non possono ritenersi gravi ai sensi e ai fini dell’art. 2409 c.c.. Al più, i soci potranno dolersene esercitando l’azione sociale di responsabilità ex art. 2476, co. 3, c.c..

Ai fini dell’annullamento di una delibera assembleare di una società di capitali per conflitto di interessi ex art. 2373 c.c., deve ritenersi del tutto irrilevante la circostanza che la delibera stessa consenta al socio il conseguimento (anche) di un suo personale interesse se, nel contempo, non risulti pregiudicato l’interesse sociale. Il socio, pertanto, può legittimamente avvalersi del proprio diritto di voto per realizzare (anche) un fine personale, qualora, attraverso il voto stesso, egli non sacrifichi, a proprio favore, l’interesse sociale (cfr. Cass. n. 3312/2000).

A fronte dell’attribuzione all’amministratore di compensi sproporzionati o in misura eccedente i limiti della discrezionalità imprenditoriale, è possibile impugnare la delibera dell’assemblea della società di capitali per abuso o eccesso di potere, sotto il profilo della violazione del dovere di buona fede in senso oggettivo o di correttezza, giacché una tale deliberazione si dimostra intesa al perseguimento della prevalenza di interessi personali estranei al rapporto sociale, con ciò danneggiando gli altri partecipi al rapporto stesso. In tal caso al giudice è affidata una valutazione che è diretta non ad accertare, in sostituzione delle scelte istituzionalmente spettanti all’assemblea dei soci, la convenienza o l’opportunità della delibera per l’interesse della società, bensì ad identificare, nell’ambito di un giudizio di carattere relazionale, teso a verificare la pertinenza, la proporzionalità e la congruenza della scelta, un vizio di illegittimità desumibile dalla irragionevolezza della misura del compenso stabilita in favore dell’amministratore, occorrendo a tal fine avere riguardo, in primo luogo, alla natura e alla ampiezza dei compiti dell’amministratore ed al compenso corrente nel mercato per analoghe prestazioni, in relazione a società di analoghe dimensioni, e, in funzione complementare, alla situazione patrimoniale e all’andamento economico della società (cfr. Cass. n. 15942/2007).

In tema di annullamento per conflitto di interessi, ai sensi dell’art. 2373 c.c., della delibera assembleare, nella specie determinativa del compenso degli amministratori, il vizio ricorre quando essa è diretta al soddisfacimento di interessi extrasociali, in danno della società, senza che risulti condizionante in sé – ai fini del conflitto di interessi ovvero anche dell’eccesso di potere – la decisività del voto da parte dell’amministratore (beneficiario dell’atto) che sia anche socio (Cass. n. 28748/2008). Pertanto, è immune da vizi per conflitto d’interessi la deliberazione assembleare adottata con il concorso del voto di un socio-amministratore (che dunque non è tenuto ad astenersi) che ne stabilisca il compenso laddove esso, pur elevato, non si discosti da quello riconosciuto negli anni precedenti, anche alla luce del positivo andamento della società e delle sue solide finanze.

I princìpi esposti sono stati espressi in relazione ad una controversia promossa ai sensi dell’art. 2409 c.c.. La ricorrente aveva denunziato al Tribunale, affinché esso adottasse opportuni provvedimenti, talune condotte di due amministratori (uno dei quali era oltretutto socio della società de quo) ritenendole gravi irregolarità gestorie. Segnatamente, sono state denunziate al Tribunale: (i) l’omessa convocazione dell’assemblea ordinaria per l’approvazione del bilancio di esercizio (ritardo ritenuto modesto e non pregiudizievole per la società); (ii) l’immotivata ed illegittima inerzia sulle istanze di accesso dei soci ai documenti sociali (ritenuta ledere diritti dei soci e non interessi della società, e comunque giustificata); (iii) l’utilizzo di risorse aziendali con finalità personali (ritenuto non pregiudizievole per la sua modesta portata); (iv) il concorso di un socio-amministratore nell’adozione della deliberazione assembleare di ingente rilievo economico in materia di compensi agli amministratori (ritenuta immune da conflitto d’interessi). Tutti i fatti denunziati non sono stati ritenuti costituire gravi irregolarità e, pertanto, il ricorso è stato respinto.

(Massime a cura di Leonardo Esposito)




Tribunale di Brescia, sentenza del 6 settembre 2023, n. 2229 – compravendita di diamanti con finalità di “investimento”, intermediazione di una banca, affidamento, responsabilità da contatto sociale, responsabilità contrattuale, pratica commerciale scorretta, risarcimento del danno, debito di valore

Il contatto sociale qualificato è fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c., dal quale derivano, a carico delle parti, non obblighi di prestazione ai sensi art. 1174 c.c., bensì obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, ai sensi degli artt. 2 Cost., 1175 e 1375 c.c.; esso opera anche nella materia contrattuale, prescrivendo un autonomo obbligo di condotta che si aggiunge e concorre con l’adempimento dell’obbligazione principale, in quanto diretto alla protezione di interessi ulteriori della parte contraente, estranei all’oggetto della prestazione contrattuale, ma comunque coinvolti dalla realizzazione del risultato negoziale programmato (cfr. Cass. n. 24071/2017).  

Il contatto sociale qualificato rientra tra gli atti o fatti idonei a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico a norma dell’art. 1173 c.c. e in virtù del principio di atipicità delle fonti delle obbligazioni ivi consacrato, anche la violazione di obbligazioni specifiche che trovano la loro fonte non in un contratto ma – ex lege – nel contatto sociale qualificato, determina una responsabilità di tipo contrattuale.

La teoria del contatto sociale qualificato viene in rilievo ogni qualvolta l’ordinamento imponga ad un soggetto di tenere un determinato comportamento, idoneo a tutelare l’affidamento riposto da altri soggetti sul corretto espletamento da parte sua di preesistenti, specifici doveri di protezione che egli abbia volontariamente assunto, pur in assenza d’un vincolo negoziale tra danneggiante e danneggiato, in quanto la natura qualificata dell’attività professionale svolta dal primo, sottoposta a specifici requisiti formali e abilitativi, fonda nel secondo il legittimo affidamento circa il rispetto delle regole di condotta che informano la suddetta attività, comportando l’assunzione in capo all’operatore di uno specifico obbligo di protezione e vigilanza, onde evitare che l’utente subisca nell’ambito di tale rapporto un danno (cfr. Cass. S.U. n. 12477/2018).

Pur compiendo un’attività giuridica in senso stretto – e non formalmente negoziale – l’operatore qualificato è tenuto all’obbligo di comportarsi in buona fede, in virtù della clausola generale di correttezza di cui all’art. 1175 c.c. (circa l’estensione della regola della buona fede in senso oggettivo a tutte le fonti delle obbligazioni ex art. 1173 c.c., ivi compreso l’atto giuridico non negoziale, cfr. Cass. n. 5140/2005), estrinsecantesi, in specie, nell’obbligo di una corretta informazione, tra cui la comunicazione di tutte le circostanze a lui note o conoscibili sulla base della diligenza qualificata di cui all’art. 1176, comma 2, c.c..

In tema di contatto sociale qualificato vige il regime probatorio desumibile dall’art. 1218 c.c., sicché, mentre l’attore deve provare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, sul convenuto incombe l’onere di dimostrare che l’evento dannoso è stato determinato da causa a sé non imputabile.

Ruolo e obblighi degli istituti di credito nella commercializzazione dei diamanti sono stati riconosciuti anche dalla Banca d’Italia che, in data 14 marzo 2018, ha emesso un comunicato con cui ha raccomandato che a fronte di tale attività, «le banche, oltre a considerare le caratteristiche finanziarie dei clienti cui è rivolta la proposta di acquisto, devono assicurare adeguate verifiche sulla congruità dei prezzi e predisporre procedure volte a garantire la massima trasparenza informativa sulle caratteristiche delle operazioni segnalate, quali le commissioni applicate, l’effettivo valore commerciale e la possibilità di rivendita delle pietre stesse». Tale raccomandazione indica regole di condotta che sono espressione di principi generali (ricavabili, come visto, dagli artt. 1173, 1175 e 1375 c.c.) applicabili anche ai contratto di acquisto di diamanti sottoscritti prima della data di adozione di tale comunicazione.

Il rapporto fiduciario esistente tra cliente e referente bancario nonché il generale credito riposto nella serietà e credibilità della banca sono elementi che possono risultare determinanti nella decisione finale di acquisto dei diamanti, avendo – del tutto verosimilmente – generato un legittimo affidamento circa la correttezza delle informazioni fornite: il coinvolgimento e la conseguente responsabilità della banca per i danni che da tale acquisto siano derivati non appaiono, pertanto, seriamente dubitabili. Invero, la banca intermediaria ha permesso di fatto la realizzazione della pratica commerciale scorretta (ossia la vendita di diamanti grezzi ad un prezzo doppio rispetto al loro valore reale, prospettando irrealistiche quotazioni di mercato che, in realtà, non erano altro che pubblicità a pagamento della stessa controparte venditrice dei diamanti, pubblicate su giornali nazionali), mettendo a disposizione la propria sede, promuovendo l’offerta ai consumatori e provvedendo a tutti i successivi adempimenti finalizzati all’acquisto.

La natura di debito di valore dell’obbligazione risarcitoria impone che su tale somma vadano conteggiati gli interessi compensativi del danno derivante dal mancato tempestivo godimento dell’equivalente pecuniario del bene perduto: secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite della Suprema Corte (Cass. S.U. n. 1712/1995), tali interessi decorrono dalla produzione dell’evento di danno sino al tempo della liquidazione e si calcolano sulla somma via via rivalutata nell’arco di tempo suddetto e non sulla somma già rivalutata (Cass. n. 4791/2007).

I principi sono stati espressi nell’accoglimento di una domanda di risarcimento proposta da un cliente nei confronti della propria banca a seguito dell’acquisto di diamanti (descritti come “bene rifugio” e l’investimento come “redditizio e sicuro”, della “durata di sette anni, con facile possibilità di rivendere i preziosi alla scadenza” e con “rendimento nell’ordine del 6-7% lordi”) da una nota società, poi fallita. In tal particolare il Tribunale ha affermato che detta fattispecie configuri un’ipotesi di responsabilità della banca intermediaria da contatto sociale qualificato. Infatti in quanto l’attività bancaria si caratterizza per la peculiare professionalità dei soggetti che vi operano, che si riflette necessariamente su tutte le attività svolte nell’esercizio dell’impresa bancaria e, quindi, sui rapporti che in quelle attività sono radicati, per la cui corretta attuazione gli operatori bancari dispongono di strumenti e di competenze che normalmente gli altri soggetti non hanno. Da ciò discende, per un verso, l’affidamento di tutti gli interessati nel puntuale espletamento dei compiti inerenti al servizio bancario, per altro verso, la specifica responsabilità in cui il banchiere incorre nei confronti di coloro che con lui entrano in contatto per avvalersi di quel servizio, ove, viceversa, non osservi le regole prescritte dalla legge.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 4 settembre 2023, n. 2206 – contratti di finanziamento ad esecuzione frazionata, interessi usurai, spese di assicurazione, T.E.G., prescrizione dell’azione di ripetizione dell’indebito

La stipula di un contratto di mutuo, salva diversa volontà delle parti, comporta l’obbligo del mutuatario di corrispondere gli interessi al mutuante, purtuttavia l’art. 1815, co. 2, c.c. reca una sanzione di gratuità del finanziamento in caso di pattuizione di interessi usurai. La valutazione della natura usuraria del contratto di mutuo — secondo le dirimenti indicazioni fornite dell’art. 644, co.  4, c.p., secondo il quale “per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito” — deve necessariamente considerare, tra le altre, anche le spese sostenute dal debitore per far fronte ai costi assicurativi necessari ad ottenere il credito, essendo, all’uopo, sufficiente che gli stessi risultino collegati alla concessione dello stesso. La sussistenza del collegamento può essere dimostrata con qualunque mezzo di prova ed è presunta nel caso di contestualità tra la spesa di assicurazione e l’erogazione del mutuo (cfr. Cass. n. 8806/2017; Cass. n. 3025/2022; Cass. n. 17466/2020; Cass. n. 22458/2018).

Ai fini del calcolo del T.E.G. (tasso effettivo globale) del singolo rapporto di credito e della conseguente (eventuale) valutazione di usurarietà degli interessi applicati, è irrilevante la circostanza che la Banca d’Italia, all’epoca della stipulazione del rapporto, non avesse inserito i costi assicurativi nelle Istruzioni per la rilevazione del T.E.G.M. (Tasso effettivo globale medio); il fatto che i decreti ministeriali di rilevazione del T.E.G.M. non includano, nel calcolo di esso, una particolare voce — che, secondo la definizione data dall’art. 644, co.  4, c.p., dovrebbe, invece, essere inserita — rileva, semmai, ai soli fini della verifica di conformità alla legge dei decreti stessi, quali provvedimenti amministrativi.  Ne consegue il dovere del giudice di prendere atto della illegittimità di detti decreti e di disapplicarli qualora ravvisi che essi omettano di considerare fattori che la legge, di contro, impone di valutare.

In materia di contratti di finanziamento ad esecuzione frazionata la prescrizione decennale della domanda volta alla ripetizione di un indebito decorre non già dalla sottoscrizione del contratto ovvero dai singoli anticipi o pagamenti rateali, bensì dall’estinzione del rapporto.

Princìpi espressi nell’ambito di un giudizio promosso dal sottoscrittore di un contratto di finanziamento mediante cessione del quinto della pensione volto a domandare al Tribunale di accertare e dichiarare la nullità della clausola contrattuale relativa alla pattuizione degli interessi, stante il superamento della soglia di usura, con la conseguente applicazione della sanzione prevista dall’art. 1815, co. 2, c.c., e di accertare altresì il diritto dell’attore a vedersi, per l’effetto, rimborsati i costi del credito (escluse le somme relative ad imposte o tasse), le commissioni ed i costi assicurativi, oltre agli interessi indebitamente versati.

(Massime a cura di Giulio Bargnani)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 31 agosto 2023 – s.s., esclusione del socio, reclamo




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 28 agosto 2023, n. 1334 – assegno bancario, trafugamento, responsabilità della banca per l’incasso da parte di soggetti non legittimati

Non incorre in nessuna responsabilità la banca che, in sede di apertura di un libretto di deposito finalizzato al successivo accredito su di questo di somme portate da assegni di traenza trafugati, abbia esperito correttamente le procedure di controllo dell’identità del richiedente richieste dalla relativa normativa, ovvero mediante il confronto tra le sembianze del portatore e quelle della fotografia annessa al documento di identità. La circostanza che il soggetto portatore dell’assegno non abbia in precedenza intrattenuto rapporti negoziali con la banca, o che abbia residenza in diverso comune, non è certo atta a imporre alla banca un più pregnante obbligo di controllo allorché la prima verifica summenzionata abbia dato esito positivo.

Princìpi espressi nel contesto di un appello proposto avverso la decisione del giudice di prime cure che aveva integralmente rigettato l’azione in primo grado. In particolare, l’azione aveva ad oggetto l’accertamento della responsabilità di una banca per il pagamento di assegni trafugati e la condanna della stessa al risarcimento del danno patito da parte attrice. Il giudice di seconde cure ha rigettato integralmente l’appello confermando la sentenza del giudice di prime cure.

(Massime a cura di Giovanni Gitti)




Tribunale di Brescia, sentenza del 2 agosto 2023, n. 1997 – accertamento negativo di contraffazione di brevetti, modelli di utilità, modelli e disegni industriali

In materia di proprietà intellettuale l’art. 120, comma 6, c.p.i. riconosce il c.d. forum commissi delicti quale criterio di competenza territoriale alternativo (e non subordinato) al criterio generale del luogo di residenza o domicilio del convenuto. 

Il criterio di competenza previsto dall’art. 120, comma 3, c.p.i., ossia il criterio del luogo in cui è stato eletto domicilio al momento della registrazione della privativa, trova applicazione laddove venga fatta valere una questione di validità dei titoli di privativa, e non un accertamento negativo di contraffazione.

Il principio di prevalenza del foro del domicilio eletto dal convenuto di cui al comma 3 dell’art. 120 c.p.i. vale solo per i fori indicati al precedente comma 2 del medesimo articolo (residenza, domicilio, dimora del convenuto), essendo invece concorrente con il foro previsto dal successivo comma 6 (applicabile anche alle azioni di accertamento negativo ai sensi del comma 6-bis del medesimo articolo), che prevede anche la competenza del giudice del luogo di commissione dei fatti di contraffazione o di concorrenza sleale (cfr. Cass. civ. Sez. VI – 1 Ord., 17/11/2021, n. 35056).

In tema di contraffazione di brevetti per invenzioni industriali posta in essere per equivalenza ai sensi dell’art. 52, comma 3 bis, c.p.i., il giudice, nel determinare l’ambito della protezione conferita dal brevetto, non deve limitarsi al tenore letterale delle rivendicazioni, interpretate alla luce della descrizione e dei disegni, ma deve contemperare l’equa protezione del titolare con la ragionevole sicurezza giuridica dei terzi, e pertanto deve considerare ogni elemento che sia sostanzialmente equivalente ad uno indicato nelle rivendicazioni; a tal fine può avvalersi di differenti metodologie dirette all’accertamento dell’equivalenza della soluzione inventiva, come il verificare se la realizzazione contestata permetta di raggiungere il medesimo risultato finale adottando varianti pive del carattere di originalità, perché ovvie alla luce delle conoscenze in possesso del tecnico medio del settore che si trovi ad affrontare il medesimo problema; non può invece attribuire rilievo alle intenzioni soggettive del richiedente del brevetto, sia pur ricostruite storicamente attraverso l’analisi delle attività poste in essere in sede di procedimento amministrativo diretto alla concessione del brevetto (cfr. Cass. civ. Sez. I Ord., 07/02/2020, n. 2977).

In materia di proprietà industriale, la verifica circa la sussistenza di una contraffazione di un modello o disegno deve essere condotta valutando se il successivo modello, in tesi contraffattorio, susciti nel consumatore informato di riferimento la stessa impressione generale del precedente modello oggetto di privativa, tenuto conto della combinazione delle caratteristiche estetiche, avuto riguardo al settore merceologico, che potrà essere più o meno affollato da prodotti simili.

Principi espressi nell’ambito di un giudizio promosso da una società a responsabilità limitata, attiva nel settore della produzione e commercializzazione di armadi stagionatori e impianti frigoriferi per vari usi, volto all’accertamento negativo dell’interferenza di alcuni suoi prodotti con i titoli di privativa industriale dei convenuti (società a responsabilità limitata convenuta e persona fisica titolare di licenza d’uso) i quali, eccepita l’incompetenza territoriale del tribunale di Brescia (avendo eletto domicilio al momento della registrazione della privativa ai sensi dell’art. 120 comma 3 c.p.i.), domandavano l’inibitoria alla fabbricazione, la pronuncia dell’ordine di ritiro dal commercio, il risarcimento dei danni derivanti dalla pretesa contraffazione, assistiti da penale, nonché la pubblicazione della sentenza.

(Massime a cura di Vanessa Battiato)