Sentenza del 10 febbraio 2022 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

A seguito della cessione del credito, il debitore ceduto diviene obbligato verso il cessionario allo stesso modo in cui era tale nei confronti del suo creditore originario. Pertanto, potrà opporre al cessionario tutte le eccezioni opponibili al cedente, sia quelle attinenti alla validità del titolo costitutivo del credito, sia quelle relative ai fatti modificativi ed estintivi del rapporto anteriori alla cessione o anche posteriori al trasferimento, ma anteriori all’accettazione della cessione o alla sua notifica o alla sua conoscenza di fatto (conf. Cass. n. 575/2001).

Rispetto all’azione di ripetizione di indebito oggettivo è passivamente legittimato solo il soggetto che ha ricevuto la somma che si assume essere non dovuta, come si evince dalla formulazione letterale dell’art. 2033 c.c. (conf. Cass. n. 25170/2016).

In materia di finanziamenti, affinché possa configurarsi un collegamento negoziale sono necessari due elementi: (i) uno oggettivo, costituito dal nesso teleologico tra i negozi, volti alla regolamentazione degli interessi reciproci delle parti nell’ambito di una finalità pratica consistente in un assetto economico globale e unitario, e (ii) uno soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti di volere non solo l’effetto tipico dei singoli negozi in concreto posti in essere, ma anche il coordinamento tra di essi per la realizzazione di un fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che assume una propria autonomia anche dal punto di vista causale (conf. Cass. 5.3.2019). Peraltro, affinché possa configurarsi un collegamento negoziale in senso tecnico non è sufficiente un nesso occasionale tra i negozi, ma è necessario che il collegamento dipenda dalla genesi stessa del rapporto, dalla circostanza, cioè, che uno dei due negozi trovi la propria causa (e non il semplice motivo) nell’altro, nonché dall’intento specifico e particolare delle parti di coordinare i due negozi, instaurando tra di essi una connessione teleologica; soltanto se la volontà di collegamento si sia obiettivata nel contenuto dei diversi negozi si può ritenere che entrambi o uno di essi, secondo la reale intenzione dei contraenti, siano destinati a subire le ripercussioni delle vicende dell’altro (conf. Cass. n. 12567/2004).

I principi sono stati espressi nel giudizio di opposizione promosso avverso il decreto ingiuntivo ottenuto da una banca a titolo di debito residuo derivante dalle rate insolute del contratto di prestito concluso tra le parti. In particolare, l’opponente eccepiva: i)la nullità del mutuo per difetto di causa concreta, trattandosi di prestito concesso per ripianare il saldo debitore, in tesi inesistente, del conto corrente intrattenuto dalla s.r.l. (di cui l’opponente era socia con una partecipazione pari al 30% del capitale) con la medesima banca, rapporto collegato sul piano negoziale al prestito e caratterizzato da vari vizi, o oggetto del procedimento pendente presso il Tribunale; ii) la nullità del mutuo in quanto fittizio, non essendosi verificata alcuna traditio di denaro, transitato direttamente nelle casse della s.r.l. ai fini dell’estinzione del debito nei confronti della banca, in virtù del collegamento negoziale anzidetto; iii) l’indeterminatezza della clausola di indicizzazione del tasso, poiché non specifica se detta indicizzazione coinvolga la sola quota interessi oppure anche la quota capitale; iv) la concessione abusiva del credito da parte della banca.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 1 febbraio 2022, n. 196 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Angelica Castellani

L’azione ex art. 146 l. fall.
è proposta dal curatore fallimentare avverso gli amministratori della società
fallita, al fine di ottenere la reintegrazione del patrimonio sociale
nell’interesse dei soci e dei creditori sociali, nei confronti dei quali la
clausola compromissoria non può operare, trattandosi di soggetti terzi rispetto
alla società (conf. Cass. n. 19398/2014, Cass. n. 28533/2018 e Cass. n.
15830/2021). È, quindi, esclusa la competenza degli arbitri in relazione
all’azione di responsabilità degli amministratori ex art. 146 l. fall.,
in ragione del contenuto unitario e inscindibile di tale azione, nella quale
confluiscono, con connotati di autonomia e con la modifica della legittimazione
attiva, sia l’azione prevista dall’art. 2393 c.c. sia quella di cui all’art.
2394 c.c. Un’ipotetica separazione delle cause rispetto al fallimento attore,
l’una afferente all’esercizio dell’azione sociale (di competenza degli arbitri)
e l’altra all’azione dei creditori sociali (di competenza del giudice
ordinario), significherebbe contraddire la connotazione unitaria e inscindibile
dell’azione di responsabilità esercitata dal curatore e vanificarne lo scopo
(conf. Cass. n. 15830/2020).

La procedura di liquidazione del patrimonio
del debitore, disciplinata dagli artt. 14-ter
e ss. della l. n. 3/2012, prevede un procedimento di accertamento del passivo
strutturato in fasi (avviso ai creditori, invio della domanda di
partecipazione, predisposizione del progetto di stato passivo e sua
approvazione con intervento del giudice delegato in presenza di osservazioni non
superabili, eventuale reclamo al collegio avverso il provvedimento del giudice
delegato). L’art. 14-octies della l. n. 3/2012, a differenza di quanto
sancito dall’art. 52 l. fall., non detta un principio di esclusività
dell’accertamento dei crediti nell’ambito della procedura da
sovraindebitamento. Il contrasto relativo all’esistenza/permanenza o meno del
potere di cognizione in capo al giudice ordinario a seguito dell’apertura della
procedura di liquidazione del patrimonio del debitore, dev’essere risolto mantenendo
la distinzione tra l’accertamento del credito, che in mancanza di una esplicita
disposizione di legge non può essere sottratto alla cognizione del giudice
ordinario, e la sua soddisfazione in sede concorsuale, per la quale la
partecipazione al procedimento di formazione del passivo (disciplinata dagli
artt. 14-ter e ss. della l. n. 3/2012) costituisce passaggio obbligato.
Pertanto, a seguito della dichiarazione di apertura della procedura
liquidazione, in tanto il creditore potrà concorrere alla distribuzione del
ricavato della liquidazione, in quanto egli abbia presentato domanda di
partecipazione ex art. 14-septies l. n. 3/2012 e abbia ottenuto
l’ammissione del proprio credito al passivo formato ai sensi del successivo
art. 14-octies; in mancanza, il credito potrà essere fatto valere solo
alla chiusura della liquidazione e sull’eventuale residuo. Sebbene, dunque, il
procedimento di verifica del passivo nella procedura da sovraindebitamento non
sia per legge connotato da carattere di esclusività, esso costituisce l’unico
mezzo per concorrere alla distribuzione del ricavato in pendenza di
liquidazione.

In sede di azione ex art.
146, secondo comma, l. fall., il curatore fallimentare è legittimato a far
valere la responsabilità degli amministratori della società fallita sia nell’ambito
dell’azione sociale (in presenza dei relativi presupposti, vale a dire il danno
prodotto al patrimonio sociale da un atto, colposo o doloso, commesso in
violazione ai doveri imposti dalla legge o dall’atto costitutivo), sia nell’ambito
dell’azione dei creditori sociali (nella misura in cui il patrimonio sociale
sia divenuto insufficiente per l’integrale soddisfazione dei creditori della
società in conseguenza di un atto, commesso con dolo o colpa, in violazione
degli obblighi funzionali alla conservazione della sua integrità). Le due
azioni, ancorché diverse per presupposti e regime giuridico, vengono ad
assumere, nell’ipotesi di fallimento, carattere unitario e inscindibile, al
fine di consentire l’acquisizione all’attivo della procedura di quel che è
stato sottratto dal patrimonio sociale – unitariamente considerato a garanzia
sia dei soci che dei creditori sociali – per fatti imputabili agli
amministratori (conf. Cass. n. 23452/2019; Cass. n. 19340/2016; Cass. n.
10378/2012).

L’azione sociale di responsabilità
si prescrive nel termine di cinque anni, con decorrenza dal momento in cui il
danno diventa oggettivamente percepibile all’esterno, manifestandosi nella
sfera patrimoniale della società; il decorso di tale termine rimane, peraltro,
sospeso, a norma dell’art. 2941, n. 7, c.c., fino alla cessazione
dell’amministratore dalla carica in ragione del rapporto fiduciario
intercorrente tra l’ente ed il suo organo gestorio (conf. Cass. n. 24715/2015;
Cass. n. 10378/2012; Cass. n. 6719/2008). L’azione dei creditori sociali, anche
laddove promossa dal curatore fallimentare a norma dell’art. 146 l. fall., è
soggetta a prescrizione quinquennale che decorre dal momento dell’oggettiva
percepibilità, da parte dei creditori, dell’insufficienza dell’attivo a
soddisfare i debiti (e non anche dall’effettiva conoscenza di tale situazione),
che, a sua volta, dipendendo dall’insufficienza della garanzia patrimoniale
generica (art. 2740 c.c.), non corrisponde allo stato d’insolvenza ex art.
5 della l. fall., derivante, in primis, dall’impossibilità di ottenere
ulteriore credito. In ragione della onerosità della prova gravante sul
curatore, sussiste una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies
a quo
di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento,
ricadendo sull’amministratore la prova della diversa data anteriore di
insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale (conf. Trib. Brescia, n. 3593/2017;
Cass. n. 24715/2015).

I principi sono stati espressi in
ipotesi di azione di responsabilità
ex art.
146 l. fall., promossa dal curatore fallimentare nei confronti dei soci
(amministratori) per il compimento di atti di
mala gestio. Il Tribunale riteneva procedibile l’azione ordinaria promossa dal fallimento nei
confronti del socio, fermi i limiti della procedura da esdebitamento, ragione
per la quale sono stati poi revocati i provvedimenti di sequestro chiesti dal
fallimento.

Il Tribunale
accertava la non operatività della
clausola compromissoria contenuta nello statuto della società, in
ragione del contenuto unitario e inscindibile dell’azione di responsabilità e dichiarava non prescritte sia l’azione
sociale di responsabilità sia l’azione dei creditori sociali, posto che:
a) i convenuti non avevano
fornito alcun elemento da cui ricavare l’insorgenza di una situazione di
incapienza patrimoniale anteriore alla dichiarazione di fallimento e
conoscibile ai terzi secondo l’ordinaria diligenza;
b) l’esistenza di
tale situazione non poteva essere desunta, a posteriori, dai dati contenuti nel
rapporto riepilogativo semestrale redatto dal curatore, trattandosi di
documento formatosi solo successivamente all’apertura della procedura
concorsuale. A ciò si aggiunga che i bilanci annualmente depositati dal
fallimento sarebbero stati redatti in violazione dei fondamentali principi di
corretta e veritiera rappresentazione della situazione patrimoniale ed
economica dell’impresa stabiliti dal codice civile, e ciò al precipuo scopo di
occultare ai terzi la grave crisi aziendale culminata nel deposito della
domanda di concordato preventivo
ex art. 161, sesto comma, l. fall., prima,
e nel fallimento della società, poi, con la conseguente impossibilità di far
decorrere la prescrizione dalla pubblicazione, in epoca anteriore al
fallimento, dei suddetti bilanci di esercizio.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 19 gennaio 2022 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Angelica Castellani

Per quanto concerne la individuazione, nell’ambito di un giudizio
cautelare, del termine entro il quale le parti devono instaurare il giudizio di
merito, l’unico vincolo imposto alla discrezionalità
dell’autorità giudiziaria dalle norme sovranazionali è quello della “ragionevolezza”,
criterio da ritenersi, in ogni caso, rispettato qualora il termine fissato dal
giudice designato coincida con quello massimo stabilito dalla disposizione
generale di diritto interno ed esso sia compatibile con le esigenze di celerità
del processo e di provvisorietà degli effetti della tutela cautelare,
codificate dal legislatore internazionale e comunitario.

Principio espresso nell’ambito di un procedimento
civile ex art. 669-
novies, secondo
comma, c.p.c., promosso da una società per azioni ai fini dell’accertamento ad
opera del Tribunale dell’intervenuta inefficacia dell’ordinanza resa nel
procedimento cautelare di prime cure, stante la mancata instaurazione del
giudizio di merito nei termini perentori di cui al combinato disposto degli
articoli 132 del D. Lgs. n. 30/2005 (Codice della proprietà industriale) e 669-
octies
c.p.c.

(Massima a cura di Eugenio Sabino)




Sentenza del 3 gennaio 2022 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

In tema di nullità della clausola penale per violazione dell’art. 1526 c.c., è consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la disciplina pattizia delle conseguenze della risoluzione non contrasta con i limiti imposti dall’art. 1526, secondo comma, c.c., nella misura in cui riconosce all’utilizzatrice la deduzione dal credito complessivo del valore residuo del bene (conf. Trib. Brescia, 4 maggio 2021) Si ritiene, infatti, che la clausola penale contenuta nelle condizioni generali del contratto di leasing immobiliare sia pienamente legittima e compatibile con l’art. 1526 c.c., ove si consideri che la norma preveda per il venditore l’obbligo di restituzione delle rate riscosse e il diritto al pagamento di equo compenso per l’uso della cosa (in aggiunta logicamente alla restituzione del bene di proprietà), statuisca, inoltre, che i contraenti possano convenire che le rate pagate restino acquisite al venditore a titolo d’indennità e altresì che la stessa norma faccia salvo il diritto del venditore al risarcimento del danno. Va da sé che anche la quantificazione del danno, come l’indennità, ben possa essere preventivamente determinata dalle parti con clausola penale, e che tale indubbiamente deve qualificarsi la previsione contrattuale del diritto del concedente di pretendere, a titolo di danno, l’importo corrispondente all’attualizzazione delle rate a scadere e del prezzo di riscatto dedotto il ricavato della vendita del bene immobile recuperato.

Oggetto della clausola penale tipicamente è una somma di denaro e, ai fini della sua determinabilità, è sufficiente che le parti ne pattuiscano i criteri di calcolo. Peraltro, con riferimento a tempi, modalità e condizioni di vendita e a tempi e modalità con cui il corrispettivo dovrebbe essere riversato in favore dell’utilizzatore (elementi non essenziali del patto) occorre rilevare come il bene possa essere immesso sul mercato soltanto dopo la restituzione e il corrispettivo ricavato dalla vendita vada imputato a deconto del credito risarcitorio della concedente e, quindi, non possa essere fatto valere prima del nel momento in cui la stessa concedente agisca ai fini del risarcimento del danno da inadempimento.

Sotto il profilo della contestazione di incertezza del credito, discutendosi di finanziamenti con piano di restituzione predefinito, valgono le ordinarie regole in punto di riparto dell’onere della prova nelle azioni di responsabilità contrattuale. Quindi, la concedente è tenuta a provare il titolo (mediante la produzione dei contratti) e ad allegare l’inadempimento, mentre ricade sul debitore l’onere di provare la corretta esecuzione delle prestazioni a proprio carico, principalmente il pagamento puntuale e tempestivo dei canoni. 

In mancanza della fase del cosiddetto “accertamento del passivo”, il provvedimento di omologazione del concordato preventivo, per le particolari caratteristiche della procedura che a essa conduce, determina un vincolo definitivo sulla riduzione quantitativa dei crediti, ma non comporta la formazione di un giudicato sull’esistenza, entità e rango (privilegiato o chirografario) di questi ultimi, né sugli altri diritti implicati nella procedura stessa, presupponendone un accertamento non giurisdizionale, ma meramente amministrativo, di carattere delibativo e finalizzato al solo scopo di consentire il calcolo delle maggioranze richieste ai fini dell’approvazione della proposta, sicché non esclude la possibilità di far accertare in via ordinaria, nei confronti dell’impresa in concordato, il proprio credito e il privilegio che lo assiste (conf. Cass. n. 33345/2018).

I principi sono stati espressi nel giudizio di opposizione promosso dal fideiussore di una s.r.l. avverso il decreto ingiuntivo ottenuto da una banca a titolo di risarcimento del danno patito a seguito della risoluzione anticipata dei contratti di locazione finanziaria per il mancato pagamento dei canoni, in virtù di quanto previsto dalla clausola risolutiva espressa delle condizioni generali dei medesimi contratti.

In particolare, l’opponente eccepiva: i) la nullità della clausola prevista nelle condizioni generali dei contratti di leasing(“risoluzione del contratto” e relativa penale) per mancata specifica approvazione ai sensi degli artt. 1341 e 1342 c.c.; ii) la nullità della medesima clausola per violazione dell’art. 1526 c.c., trattandosi di leasing traslativo; iii) la nullità della medesima clausola per violazione dell’art. 1383 c.c. nonché degli artt. 1418 e 1346 c.c., stante l’indeterminatezza/indeterminabilità dell’oggetto della clausola; iv) la nullità degli articoli previsti nelle condizioni generali dei contratti per indeterminatezza/indeterminabilità dell’oggetto; v) la carenza dei requisiti per l’emissione del provvedimento ingiuntivo, alla luce dell’illiquidità e dell’incertezza del credito oggetto di causa.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 3 gennaio 2022, n. 1 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Angelica Castellani

Qualora vengano contestate all’organo amministrativo,
in aggiunta alla violazione dell’art. 2486 c.c., specifiche operazioni dannose
che risultino perfezionate nel corso della fase di illegittima prosecuzione
dell’attività sociale (accertata nel suo carattere antigiuridico, in uno con
l’addebito logicamente presupposto di infedele rappresentazione in bilancio
della reale situazione economica, finanziaria e patrimoniale della società),
anche la porzione di depauperamento del patrimonio specificamente imputabile
alle suddette specifiche operazioni concorre alla formazione del risultato di
esercizio e, quindi, al deficit finale, senza che possano selezionarsi
perdite, direttamente e in via esclusiva, conseguenti ai singoli addebiti,
essendo soggetti a sterilizzazione i soli costi normali di liquidazione.

La valutazione della portata lesiva delle operazioni
dannose singolarmente contestate all’organo amministrativo risulta, pertanto,
assorbita dall’accertata lesività dell’illegittima prosecuzione dell’attività
d’impresa, per la quale il danno è stato quantificato non in via analitica,
bensì mediante il criterio presuntivo codificato dal terzo comma dell’art. 2486
c.c.; trattasi di un criterio utilizzabile qualora i dati contabili a
disposizione impediscano una ricognizione dell’aggravamento patrimoniale
specificamente riconducibile alle singole perdite operative nette derivate.

Nel caso di specie, il Tribunale
aveva rilevato che, pur ricorrendo la causa di scioglimento prevista dall’art.
2484, primo comma, n. 4), c.c., il convenuto avesse continuato a gestire la
società proseguendone l’attività, senza tuttavia provvedere alle iniziative
imposte dalla legge; con ciò aggravandone il dissesto. Su tali basi, i giudici
di secondo grado hanno condannato l’amministratore unico di una società – successivamente
dichiarata fallita – al risarcimento dei danni sofferti dalla società medesima
e dai creditori sociali derivanti dalle condotte di
mala gestio allo stesso
contestate.

(Massime a cura di Eugenio Sabino)




Decreto del 9 dicembre 2021 – Presidente: Dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice relatore: Dott. Gianluigi Canali

Nella procedura di concordato
preventivo la proposta e l’attestazione devono: a) individuare, in primo luogo, i creditori e i rispettivi
crediti e, in secondo luogo, qualora detti crediti fossero contestati, tenere
conto della necessità di stanziamento di fondi per rischi, dando atto delle
ragioni degli importi stanziati; b) precisare
se i finanziamenti di natura chirografaria concessi dagli istituti di credito siano
o meno assistiti dalla garanzia pubblicistica rilasciata dal fondo ex L.
662/96; c) verificare se il vincolo
di destinazione di determinati beni possa essere oggetto di impugnazione da
parte dei legittimari, per violazione della quota di legittima.

Al fine di valutare la convenienza
del concordato rispetto all’ipotesi fallimentare, l’attestatore deve verificare:
a) il momento in cui la perdita del capitale sociale si sia verificata; b)
se i componenti dell’organo di controllo abbiano stipulato contratti di
assicurazione e, in caso positivo, per quali somme nonché a quali condizioni
contrattuali. Inoltre, l’attestatore, se nell’eseguire i propri stress test considera
disponibili per la massa i fondi generici, è tenuto a spiegare perché, qualora
si verificassero le prospettate circostanze sfavorevoli, il rischio che quei
fondi siano volti a coprire verrebbe meno.

Principi
espressi nel giudizio di ammissione al concordato preventivo, all’esito del
quale il Tribunale ha giudicato inammissibile la proposta di concordato
formulata, tenuto conto dell’esistenza di lacune e di criticità nel piano proposto
e nell’attestazione, sia in relazione alla quantificazione del passivo
concordatario sia con riferimento alle concrete possibilità di realizzo
dell’attivo. Nello specifico, il Tribunale rilevava che la società debitrice
non aveva preso in debita considerazione le pretese di alcuni professionisti e
che l’attestazione risultava carente in relazione alla valutazione della
convenienza del concordato preventivo rispetto all’ipotesi fallimentare.

(Massima cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 1° dicembre 2021 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott. Lorenzo Lentini

Nel caso in cui l’inabilitazione di una delle parti costituite sia stata esclusivamente richiamata nel decreto di nomina del curatore, senza che nulla sia stato versato in atti dal difensore – ancorché astrattamente idonea a rilevare ai sensi dell’art. 300 c.p.c., trattandosi di un evento che incide sulla capacità della medesima – non determina, tuttavia, l’interruzione del giudizio, atteso che la dichiarazione ex art. 300 c.p.c. deve provenire dal difensore della parte colpita dall’evento interruttivo, non potendo il difensore della controparte validamente sostituirsi in tale attività (conf. Cass. n. 5002/97).  

In presenza di un patto fiduciario, avente ad oggetto un contratto di cessione delle quote, la domanda d’intestazione della quota può essere modificata in caso di inabilitazione della parte nominata e ciò, in quanto riconducibile nel limite tracciato dal criterio della unicità della vicenda sostanziale sottesa al giudizio (conf. Cass. n. 12310/15). La tardività della dichiarazione di nomina deve essere espressamente eccepita dalla parte interessata, non essendo rilevabile d’ufficio dal tribunale (conf. Cass. n. 12741/2007). Analoghe considerazioni possono essere formulate con riferimento alla tempestività dell’accettazione da parte del nominato e dell’eventuale revoca della nomina. 

Con la promessa del fatto del terzo, il promittente assume: (i) una prima obbligazione di “facere”, consistente nell’adoperarsi affinché il terzo si impegni o tenga il comportamento promesso, onde soddisfare l’interesse del promissario, ed (ii) una seconda obbligazione di “dare”, cioè di corrispondere l’indennizzo nel caso in cui, nonostante si sia adoperato, il terzo si rifiuti di obbligarsi o di tenere il comportamento oggetto della promessa; sicché, qualora l’obbligazione di “facere” non venga adempiuta e l’inesecuzione, totale o parziale, sia imputabile al promittente, il promissario avrà a disposizione gli ordinari rimedi contro l’inadempimento (quali la risoluzione del contratto, l’azione di inadempimento, l’azione di adempimento); mentre se, nonostante l’esatto adempimento dell’obbligazione di “facere”, il promissario non abbia ottenuto il risultato sperato a causa del rifiuto del terzo, diverrà attuale l’altra obbligazione di “dare”, in virtù della quale il promittente sarà tenuto a corrispondere l’indennizzo (conf. Cass. n. 24853/2014).

Principi espressi nel giudizio volto a ottenere l’emissione di una sentenza ex art. 2932 c.c., che produca gli effetti del contratto di cessione della quota pari al 100% del capitale sociale della s.r.l. – di titolarità del convenuto (amministratore della s.r.l.) – oggetto di un patto fiduciario, in base al quale la quota avrebbe dovuto essere trasferita al fiduciante ovvero a persona da nominare, a semplice richiesta del medesimo. Nel caso di specie, pertanto, si eccepiva l’inadempimento del fiduciario (i.e. dell’amministratore della s.r.l.) per non aver ottemperato alla richiesta di presentarsi avanti al notaio per la sottoscrizione dell’atto di cessione.

Con la prima memoria ex art. 183, sesto comma, c.p.c. l’attore (nel caso di specie il fiduciante) modificava la domanda e chiedeva l’emissione della pronuncia costitutiva a favore di sé stesso, esponendo di avere revocato l’atto di nomina in ragione dell’incidente occorso nel frattempo all’altro attore; incidente che lo aveva reso asseritamente inidoneo all’assunzione della carica di socio unico della s.r.l.

Il Tribunale riteneva la domanda ammissibile: i) per l’unicità della vicenda sostanziale sottesa al giudizio; e ii) per il fatto che il convenuto non aveva eccepito specificamente la tardività, sul piano sostanziale, della dichiarazione di revoca della nomina, limitandosi a sollevare la questione sul piano meramente processuale, sotto il profilo dell’ammissibilità della nuova domanda di intestazione della quota.

Ritenuto che la condizione della liberazione del fiduciario da eventuali garanzie prestate non risultava pattuita dalle parti, anche a volere ipotizzare l’assunzione di tale impegno, la condotta del convenuto integrerebbe comunque un inadempimento del negozio fiduciario, in quanto: i) la richiesta di restituzione della quota, risultava successiva all’introduzione del presente giudizio; ii) si era già formato l’accordo delle parti in ordine al momento in cui avrebbe dovuto essere assunto l’impegno alla liberazione dalle garanzie, con la conseguenza che il rifiuto del convenuto di presentarsi avanti al notaio, che avrebbe formalizzato tale impegno, appariva ingiustificato e arbitrario; e iii) l’impegno a liberare il fiduciario dalle garanzie costituiva invero una promessa del fatto del terzo. Alla luce di tali considerazioni, il Tribunale dichiarava l’inadempimento del convenuto e accoglieva la domanda attorea, disponendo il trasferimento della quota.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 1° dicembre 2021 – s. s., scioglimento per impossibilità di funzionamento della società e sopravvenuta impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale




Ordinanza del 29 novembre 2021 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

L’esistenza di una clausola compromissoria statutaria, che pacificamente devolve agli arbitri la cognizione delle controversie tra soci e società, non preclude la proposizione di istanze cautelari quando il collegio arbitrale non sia ancora stato costituito, prevalendo il principio di effettività della tutela giurisdizionale (cfr. Trib. Milano 2.12.2015).

In ambito societario, l’eventuale ostruzionismo di un socio o dell’amministratore non giustifica il ricorso da parte della maggioranza all’assunzione di decisioni extra-assembleari in difetto dei relativi presupposti. Pertanto, nel caso in cui: (i) l’opzione per il metodo assembleare sia stata esercitata dallo stesso socio che poi si è risolto ad avviare la procedura di consultazione scritta, deve escludersi che il singolo socio possa unilateralmente  revocare  la  propria  iniziativa,  una  volta  che  dell’argomento  sia  stata investita l’assemblea dei soci e quest’ultima non abbia ancora deliberato; (ii) la richiesta di rinvio dell’assemblea, formulata dal socio titolare di una partecipazione superiore a un terzo del capitale e motivata dall’insufficiente informazione sugli argomenti all’ordine del giorno, equivale, nei limiti cognitivi tipici della fase, a un’espressione anticipata della volontà che l’argomento sia oggetto di discussione, dichiarazione rilevante in quanto idonea a determinare, ai sensi dell’art. 2479, comma quarto, c.c., l’improcedibilità della procedura di consultazione scritta, dovendosi riconoscere che il luogo dove si realizza pienamente la dialettica tra soci è solo l’assemblea di cui all’art. 2479-bis c.c.; e (iii) la comunicazione recapitata dall’amministratore ai soci prima del perfezionamento della procedura di consultazione scritta, appare idonea a determinarne l’improcedibilità ai sensi dell’art. 2479, quarto comma, c.c., allora la delibera assembleare potrà essere dichiarata invalida.

La valutazione della sussistenza di un nesso causale fra l’esecuzione (ovvero la protrazione dell’efficacia) della deliberazione impugnata ed il pregiudizio temuto, implica l’apprezzamento comparativo della gravità delle conseguenze derivanti, sia al socio impugnante sia alla società, dall’esecuzione e dalla successiva rimozione della deliberazione impugnata. Così, il provvedimento cautelare di sospensione dell’efficacia della delibera potrà essere concesso soltanto ove si ritenga prevalente, rispetto al corrispondente pregiudizio che potrebbe derivare alla società per l’arresto subito alla sua azione, il pregiudizio lamentato dal socio (cfr. Trib. Roma 22.4.2018). 

Principi espressi nel giudizio promosso con ricorso ex art. 700 c.p.c. con il quale l’amministratore unico di una s.r.l. (con una partecipazione pari al 42% del capitale) chiedeva la sospensione degli effetti della delibera assembleare (avente ad oggetto la revoca dell’amministratore unico e la nomina del nuovo amministratore), impugnata con giudizio arbitrale in ossequio alla clausola compromissoria statutaria.

In particolare, il ricorrente riteneva nulla la delibera per i seguenti motivi: i) carenza della sottoscrizione dell’amministratore, requisito formale dallo statuto, per tale dovendosi intendere l’amministratore uscente e non già quello neonominato; ii) mancata trascrizione nel libro delle decisioni dei soci, in violazione dell’art. 2478 c.c.; iii) eccesso di potere, in quanto la delibera era motivata dall’interesse extrasociale perseguito dalla maggioranza.

Sotto il profilo del periculum in mora, il ricorrente evidenziava il pregiudizio derivante dall’adozione di una delibera in spregio alle regole di legge e statutarie, violazioni grazie alle quali era stato possibile nominare un amministratore inidoneo perché privo di adeguate competenze tecniche e dei necessari requisiti professionali.

Rilevato che il pregiudizio a carico del ricorrente era implicito nella lesione integrale del suo diritto di intervento –  strumento fondamentale per il corretto esplicarsi del processo decisionale di pertinenza dei soci, lesione ancora più grave se si considera l’importanza dell’oggetto della delibera (i.e. la nomina dell’organo di gestione) materia riservata alla competenza dei soci ai sensi dell’art. 2479 c.c., trattandosi di una ipotesi di periculum quasi in re ipsa – e che non vi era alcun pregiudizio per la controparte derivante dalla sospensione dell’efficacia della delibera (ben potendo la s.r.l. assumere in tempi rapidi una nuova delibera a contenuto analogo a quella qui impugnata, ma nel rispetto delle regole previste dalla legge e dallo statuto), il Tribunale accoglieva il ricorso e disponeva la sospensione dell’efficacia della delibera, con conseguente reintegro dell’amministratore revocato. 

Il Tribunale esaminando il fumus del ricorso rilevava che l’eventuale inerzia imputata al precedente amministratore non esonerava evidentemente la s.r.l. dal rispetto delle regole procedimentali previste per la formazione della volontà dei soci, fermo restando che i soci ostili all’amministratore avrebbero potuto introdurre un procedimento cautelare di revoca per giusta causa, laddove veramente convinti che il medesimo stesse ostacolando, in ragione di un interesse personale, il corretto funzionamento degli organi sociali. 

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 25 novembre 2021 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

In materia di rapporti di leasing con piano di restituzione predefinito vige la regola di riparto dell’onere della prova generalmente applicabile alla responsabilità contrattuale, con la conseguenza che compete al debitore l’onere di provare il corretto adempimento dell’obbligazione.

La clausola penale contenuta nelle condizioni generali del contratto di leasing immobiliare risulta pienamente legittima e compatibile con l’art. 1526 c.c. qualora preveda: (i) per il venditore l’obbligo di restituzione delle rate riscosse e il diritto al pagamento di equo compenso per l’uso della cosa (in aggiunta alla restituzione del bene di proprietà) e (ii) il diritto  del concedente a pretendere i canoni e a trattenere quelli già percepiti sino alla risoluzione del contratto (essendo previsto, al comma secondo della sopra citata disposizione, che i contraenti possano convenire che le rate pagate restino acquisite al venditore a titolo d’indennità). Peraltro, tenuto conto che l’art. 1526, comma primo, c.c. fa salvo il diritto del venditore al risarcimento del danno, anche la quantificazione del danno, come l’indennità, ben può essere preventivamente determinata dalle parti con clausola penale, e come tale deve qualificarsi la previsione contrattuale del diritto del concedente di pretendere, a titolo di risarcimento del danno, l’importo corrispondente all’attualizzazione delle rate a scadere e del prezzo di riscatto, dedotto il ricavato della vendita del bene immobile recuperato (cfr. Trib. Brescia, 4 maggio 2021).

Resta impregiudicata la facoltà per l’utilizzatore, nell’ipotesi in cui il valore residuo dell’immobile superi l’importo spettante alla concedente in forza della clausola penale, di agire in un autonomo giudizio ai fini della restituzione della differenza.

Principi espressi nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, ottenuto da una banca nei confronti del titolare di un’impresa individuale, a titolo di canoni scaduti insoluti e interessi di mora del contratto di leasing immobiliare. 

L’opponente fondava l’opposizione: i) sul controcredito scaturente dall’applicazione dell’art. 1526 c.c. al rapporto, a seguito della risoluzione del contratto per inadempimento comunicato dalla concedente, con conseguente diritto alla restituzione dei canoni di leasing; ii) sulla nullità della clausola penale del contratto sia per contrasto con l’art. 1526 c.c. sia perché vessatoria ed eccessivamente onerosa; iii) sulla nullità della clausola contrattuale relativa agli interessi di mora per superamento del tasso soglia di cui alla L. 108/1996; iv) sull’eventuale applicabilità al contratto di leasing della disciplina introdotta con la L. 124/2017.

Il Tribunale dichiarava l’opposizione infondata per i seguenti motivi: a) la morosità alla base della risoluzione contrattuale per inadempimento non era contestata tra le parti; b) le domande e le eccezioni dell’opponente fondate sull’applicabilità dell’art. 1526 c.c. al rapporto erano infondate in diritto, poiché l’art. 1526, primo comma, c.c. veniva derogato dalla clausola penale prevista nel contratto, in quanto non contrastante con i limiti imposti dall’art. 1526, comma secondo, c.c., né vessatoria e tantomeno eccessivamente onerosa; c) il tasso di interesse di mora dedotto in contratto (12%) non era usurario, risultando sensibilmente inferiore al tasso soglia calcolato, sulla base dei criteri indicati da Cass. n. 19597/2020 (pari approssimativamente al 14,5%); d) la L. 124/2017 non era applicabile al rapporto in esame, risolto per inadempimento prima dell’entrata in vigore delle relative disposizioni in materia di leasing, poiché era stata postulata l’applicabilità dell’art. 1526, primo comma, c.c. a un rapporto che era regolato esclusivamente dalla disciplina pattizia.

(Massima a cura di Simona Becchetti)