Sentenza del 5 aprile 2022, n. 812 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Angelica Castellani

In tema di responsabilità degli
amministratori, il contenuto e la natura della transazione di fine mandato,
sottoscritta tra società e amministratore delegato, non precludono la
possibilità di contestare la sussistenza di profili di responsabilità a carico
dell’amministratore per presunti atti di mala gestio compiuti in corso
di rapporto, salvo che la società non vi abbia espressamente rinunciato in sede
di accordo transattivo. In ogni caso, la società che agisce per il risarcimento
dei danni è tenuta a fornire la prova dell’esistenza del danno, del suo
ammontare e della sussistenza di un nesso eziologico con il comportamento
inadempiente o illecito dell’amministratore, non essendo l’antigiuridicità
della condotta di per sé idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio
della società.

Tale principio trova applicazione sia
nel caso di transazione novativa, in cui l’accordo si pone come nuova ed unica
fonte di disciplina del rapporto preesistente, sia nel caso di transazione c.d.
“semplice” o “conservativa”, con cui le parti si limitano a regolare il
rapporto preesistente mediante reciproche concessioni, senza costituirne uno
nuovo.

Da ciò consegue altresì che, in caso di
successiva scoperta di inadempimenti non rilevati al momento della transazione,
questi potranno essere fatti valere solo mediante l’impugnazione dell’accordo
transattivo per errore, il quale rileverà in questo caso in quanto inerente al
presupposto della transazione e non, invece, alle reciproche concessioni.

Nel
caso di specie, il Tribunale ha ritenuto che l’azione di responsabilità esercitata
dalla società nei confronti dell’amministratore delegato, per presunte condotte
di
mala gestio al medesimo
imputabili, non fosse preclusa dall’intervento di una transazione novativa di
fine rapporto tra i suddetti soggetti, in quanto la società non vi aveva
rinunciato espressamente nel patto transattivo. Il Tribunale, tuttavia, rigettava
la domanda in conseguente del mancato soddisfacimento dell’onere probatorio a
carico della società, la quale ometteva di dare prova sia del danno sia del
nesso causale tra questo e la condotta tenuta dall’amministratore. Al contrario,
avendo l’amministratore dichiarato, in sede di transazione, di voler rinunciare
ad ogni altra pretesa nei confronti della società, risultava a lui preclusa la
possibilità di porre in contestazione l’esistenza di un suo credito per
compensi ed indennizzo.   

(Massime a cura di Chiara Alessio)




Tribunale di Brescia, sentenza del 29 marzo 2022, n. 756 – s.r.l., diritto di recesso, clausola di gradimento, clausola di prelazione impropria, limiti al trasferimento mortis causa

Qualora lo statuto di una s.r.l. contenga una clausola di gradimento non mero – tale da intendersi anche quella che subordina il trasferimento (inter vivos) di partecipazioni al preventivo gradimento dell’acquirente da parte del consiglio di amministrazione e di tutti gli altri soci, prevedendo però un chiaro limite soggettivo – il diritto di recesso non è riconosciuto per il solo fatto dell’esistenza di siffatta clausola, poiché ciò finirebbe per introdurre surrettiziamente una vera e propria facoltà di recesso ad nutum, in difetto di una chiara previsione statutaria in tal senso. Al contrario, alla luce di quanto disposto dall’art. 2469 c.c., in tale ipotesi il diritto di exit è accordato al socio solo in conseguenza del diniego ricevuto al fine di consentirgli di non rimanere prigioniero della società (cfr. Corte d’Appello Venezia n. 2158/2021).

Analoghe considerazioni debbono essere svolte con riguardo alle clausole di prelazione “a prezzo amministrato” che impongono al socio, qualora questi voglia cedere la propria partecipazione, di offrirla preventivamente e a parità di condizioni agli altri soci, cui viene altresì riconosciuto il diritto di sottoporre la determinazione del prezzo da corrispondere all’offerente a un arbitratore, nonché alle clausole di gradimento nei trasferimenti mortis causa, quando le medesime prevedono che – eccezion fatta per il trasferimento al successore o ai successori in linea retta del socio defunto – la partecipazione possa essere ceduta solo a soggetti graditi all’organo amministrativo della società. In entrambi i casi, non vi è diritto di recesso per la mera esistenza di un limite alla circolazione della partecipazione, qualora esso risulti in concreto inidoneo, in forza della sua effettiva applicazione, a determinare la definitiva compressione del diritto al trasferimento della partecipazione.

I princìpi sono stati espressi nell’ambito di un giudizio volto a dirimere una controversia sorta tra un socio di minoranza e una società a responsabilità limitata relativamente alla sussistenza del diritto di recesso dalla società in capo al primo. Nel caso di specie, infatti, la parte attrice aveva esercitato dapprima recesso parziale e poi, senza rinuncia esplicita al primo recesso, recesso per l’intera partecipazione. La società resistente adduceva, inter alia, l’insussistenza del diritto di recesso: i) nel difetto di una clausola statutaria “di mero gradimento”; ii) in ragione della clausola statutaria di prelazione impropria o “a prezzo amministrato”; iii) per la sola presenza di una clausola statutaria limitativa delle ipotesi di trasferimento mortis causa. Il Collegio ha statuito che non spettava alla parte attrice diritto di recesso, non avendo, tra l’altro, la medesima mai manifestato la propria intenzione di alienare a terzi (in tutto o in parte) la propria quota. Sono risultate perciò assorbite le ulteriori questioni relative alla ammissibilità di un recesso parziale, condizionato o esercitato dal solo nudo proprietario.

(Massime a cura di Chiara Alessio)




Sentenza del 23 marzo 2022 – Presidente relatore: dott. Donato Pianta

In materia di contratto autonomo di garanzia – improntandosi il rapporto tra il garante e il creditore beneficiario a piena autonomia – il garante non può opporre al creditore la nullità di un patto relativo al rapporto fondamentale, salvo che essa dipenda da contrarietà a norme imperative o dall’illiceità della causa e che, attraverso il medesimo contratto autonomo, si intenda assicurare il risultato vietato dall’ordinamento; tuttavia, si deve escludere che la nullità della pattuizione di interessi ultra legali si comunichi sempre al contratto autonomo di garanzia, atteso che detta pattuizione – eccezion fatta per la previsione di interessi usurari – non è contraria all’ordinamento, non vietando quest’ultimo in modo assoluto finanche l’anatocismo, così come si ricava dagli artt. 1283 c.c. e 120 d.lgs. 385/1993 (conf. Cass. n. 20397/2017). Per altro verso, il garante è legittimato a proporre eccezioni fondate sulla nullità anche parziale del contratto base per contrarietà a norme imperative. Ne consegue che può essere sollevata nei confronti della banca l’eccezione di nullità della clausola anatocistica atteso che la soluzione contraria consentirebbe al creditore di ottenere, per il tramite del garante, un risultato che l’ordinamento vieta (conf. Cass. n. 371/2018, Cass. n. 3873/2021).

L’inserimento in un contratto di fideiussione di una clausola di pagamento “a prima richiesta” generalmente è idonea a qualificare il negozio come contratto autonomo di garanzia, in quanto incompatibile con il principio di accessorietà che caratterizza il contratto di fideiussione; tuttavia, allorquando vi sia un’evidente discrasia tra una clausola di tal guisa e l’intero contenuto della convenzione negoziale, ai fini dell’interpretazione della volontà delle parti, pur in presenza della clausola predetta, il giudice è sempre tenuto a valutarla alla luce della lettura dell’intero contratto (conf. Cass. n. 4717/2019). Come noto, il contratto autonomo di garanzia ha la funzione di tenere indenne il creditore dalle conseguenze del mancato adempimento della prestazione gravante sul debitore principale, che può riguardare anche un fare infungibile, contrariamente al contratto del fideiussore, il quale garantisce l’adempimento della medesima obbligazione principale; inoltre, la causa concreta del contratto autonomo è quella di trasferire da un soggetto ad un altro il rischio economico connesso alla mancata esecuzione di una prestazione contrattuale, sia essa dipesa da inadempimento colpevole oppure no, mentre con la fideiussione, nella quale solamente ricorre l’elemento dell’accessorietà, è tutelato l’interesse all’esatto adempimento della medesima prestazione principale. Ne deriva che, mentre il fideiussore è un “vicario” del debitore, l’obbligazione del garante autonomo si pone in via del tutto autonoma rispetto all’obbligo primario di prestazione, essendo qualitativamente diversa da quella garantita, perché non necessariamente sovrapponibile ad essa e non rivolta all’adempimento del debito principale, bensì ad indennizzare il creditore insoddisfatto mediante il tempestivo versamento di una somma di denaro predeterminata, sostitutiva della mancata o inesatta prestazione del debitore (conf. Cass. n. 3947/2010).

L’Interest Rate Swap è il contratto derivato che prevede l’impegno reciproco delle parti di pagare l’una all’altra, a date prestabilite, gli interessi prodotti da una stessa somma di denaro, presa quale astratto riferimento e denominato nozionale, per un dato periodo di tempo (conf. Cass. n. 8770/2020). Il mark to market esprime, invece, il valore che, in ciascun momento della sua esistenza, assume il contratto di IRS, inteso quale costo che un terzo estraneo al contratto è disposto a pagare o chiede di ricevere, a seconda dei casi, per subentrare nel contratto ovvero quale costo che una delle due parti è tenuta a pagare all’altra o pretende di ricevere da questa per sciogliere anticipatamente il contratto. Dunque, è un metodo di valutazione delle attività finanziarie che si contrappone a quello storico o di acquisizione attualizzato mediante indici di aggiornamento monetario, che consiste nel conferire a dette attività il valore che esse avrebbero in caso di rinegoziazione del contratto o di scioglimento del rapporto prima della scadenza naturale (conf. Cass. n. 8770/2020). Il modello per effettuare la valutazione concreta di tale istituto è standard, cioè l’unico di uso comune per la valutazione degli strumenti finanziari oggetto di causa (cioè Interest Rate Swap del tipo Plan vanilla), non essendovi, quindi, alcuna necessità di un suo richiamo nel contratto (conf. C. App. Milano n. 2003/2020). 

In materia di contratto di conto corrente bancario, ed in riferimento ai rapporti eseguiti, in tutto o in parte, nel periodo anteriore al primo gennaio 2010 – data di entrata in vigore delle disposizioni di cui all’art. 2-bis del D.L. 185/2008 – al fine di verificare se sia intervenuto il superamento del tasso soglia dell’usura presunta, come determinato in base alle disposizioni della L. 108/1996, occorre effettuare la separata comparazione del tasso effettivo globale (TEG) dell’interesse praticato in concreto con il “tasso soglia”, nonché della commissione di massimo scoperto (CMS) applicata, con la “CMS soglia” (conf. Cass. n. 1464/2019; Cass. n. 16303/2018). Allorché il tasso degli interessi concordato superi, in corso di esecuzione del rapporto, la soglia dell’usura, come determinata in base alle disposizioni della L. 108/1996, non si verifica la nullità o l’inefficacia della clausola contrattuale di determinazione del tasso degli interessi stipulata anteriormente all’entrata in vigore della predetta legge o della clausola stipulata successivamente per un tasso non eccedente tale soglia quale risultante al momento della stipula (conf. Cass. n. 24675/2017).

L’art. 2-bis, terzo comma, L. 2/2009 prevedeva esplicitamente che i contratti in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto sono adeguati alle disposizioni del presente articolo entro centocinquanta giorni dalla medesima data. Tale obbligo di adeguamento costituisce giustificato motivo agli effetti dell’art. 118, primo comma, T.U.B., con la conseguenza che l’introduzione di una commissione utilizzi oltre disponibilità su fondi in sostituzione di una precedentemente esistente CMS, che avvenisse mediante il meccanismo di modifica unilaterale del contratto di cui all’art. 118 T.U.B., doveva ritenersi perfettamente legittima. 

I principi sono stati espressi nel giudizio di appello promosso dal fideiussore contro la sentenza di primo grado che rigettava l’opposizione a decreto ingiuntivo con il quale il Tribunale aveva ingiunto ad una s.n.c. e alla garante il pagamento, in via solidale, di una somma a favore di una banca a titolo di saldo debitore e di interessi debitori maturati sul conto corrente. 

In particolare, l’appellante impugnava la sentenza di prime cure, sollevando nove motivi di doglianza per: i) avere il primo giudice ritenuto preclusa alla garante, in quanto parte di un rapporto qualificato alla stregua di un contratto autonomo di garanzia, la facoltà di coltivare eccezioni concernenti l’obbligazione principale; ii) non aver il giudicante accolto la domanda di accertamento circa la nullità per indeterminabilità dell’oggetto contrattuale dei rapporti di IRS; iii) l’illegittima applicazione del tasso di interesse passivo ultra legale determinato senza alcuna pattuizione scritta; iv) accertare la nullità della previsione contrattuale inerente la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi e, conseguentemente, dichiarare non dovute le somme corrisposte a titolo di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi; v) non aver la banca, prima del D.L. 185/2008, reso determinabili né l’ammontare né le modalità con cui veniva computata la commissione di massimo scoperto, mentre a partire dal luglio 2009 avrebbe introdotto la commissione utilizzi oltre disponibilità su fondi, avvalendosi del meccanismo dello ius variandi di cui all’art. 118 T.U.B.; vi) accertare e dichiarare non dovute, per indeterminatezza e indeterminabilità dell’oggetto, ed in ogni caso perché prestazione senza causa, le somme addebitate a titolo di spese di chiusura, di penale di sconfino, di diritti di segreteria e di spese liquidazione interessi debitori; vii) accertare e dichiarare la nullità e l’inefficacia di ogni e qualsivoglia pretesa della convenuta banca, in relazione all’indicato rapporto di apertura di credito, per interessi, spese, commissioni, e competenze per contrarietà al disposto di cui alla L. 108/1996, perché eccedente il cosiddetto tasso soglia nel periodo trimestrale di riferimento; viii) il mancato assolvimento da parte della banca del proprio onere probatorio; ix) revocare il provvedimento monitorio.

Ritenuto che non vi era alcuna effettiva distinzione dell’oggetto tra l’obbligazione del rapporto fondamentale e quella del rapporto di garanzia, né della causa dei due rapporti, che potrebbe giustificare la qualificazione della garanzia contrattualmente assunta come autonoma e rilevato che nella lettera di fideiussione non era compresa alcuna rinuncia generale del fideiussore a proporre eccezioni che spetterebbero al debitore principale, ma soltanto quella ad opporre eccezioni riguardo al momento in cui la banca intenda esercitare la sua facoltà di recedere dai rapporti col debitore, la Corte adita riconduceva la fattispecie alla fideiussione a prima richiesta e non a quella del contratto autonomo di garanzia.

Rilevato che oggetto del contratto erano le reciproche obbligazioni delle due parti di pagare l’una all’altra, a scadenze prestabilite, il differenziale sussistente tra le due somme, calcolate su un medesimo capitale di riferimento, con applicazione di due determinati parametri differenti per le due parti, la circostanza per cui nei contratti derivati contestati non sia evidenziato il criterio per la determinazione del valore del mark to market secondo l’adita Corte non assume rilevanza ai fini dell’accertamento della nullità dei suddetti contratti, posto che tale valore poteva essere pienamente determinabile in via oggettiva nei contratti derivati per cui è causa, come confermato, del resto, dal fatto che il consulente di parte appellante sia stato perfettamente in grado di calcolare tale valore per ciascuno dei contratti derivati presi in esame nella perizia prodotta in giudizio.

Ulteriormente, la Corte non riteneva condivisibile la tesi di parte appellante secondo cui nel computo del T.E.G. andrebbero inserite anche le commissioni di massimo scoperto, essendo pacifico il principio giurisprudenziale secondo cui solamente l’usura c.d. originaria assume rilevanza ai fini della caducazione delle clausole contrattuali che prevedano un tasso di interessi superiore al tasso soglia. 

Quanto alla commissione di massimo scoperto va rilevato, da una parte, che la commissione prevista nel contratto di apertura di conto corrente era nulla per indeterminatezza, non essendo ivi state esplicitate le modalità per il suo calcolo, ma essendo stata prevista meramente la misura percentuale applicabile, mentre, dall’altra, che la commissione di massimo scoperto pattuita successivamente era valida, risultando determinabile sia nella misura che nelle modalità per il suo calcolo. Quanto alla commissione utilizzi oltre disponibilità su fondi veniva dichiarata la nullità, poiché la banca aveva introdotto la suddetta commissione in difformità non solo rispetto al disposto di cui all’art. 118 T.U.B., ma anche rispetto all’art. 2-bis, terzo comma, L. 2/2009.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 23 marzo 2022 – s.n.c., diritto del socio amministratore di accesso ai documenti societari e alla sede sociale




Corte d’appello di Brescia, sentenza del 17 marzo 2022, n. 353 – ripetizione dell’indebito, ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c., determinazione delle commissioni.

In materia di ripetizione di indebito, colui che propone domanda di restituzione è onerato non solo della produzione degli estratti conto, sulla base dei quali possa essere elaborata la ricostruzione, da integrarsi, eventualmente, con altri elementi probatori in caso di incompleta produzione, ma altresì della dimostrazione delle condizioni economiche in relazione alle quali ha dedotto l’illegittima applicazione degli interessi passivi e di altre voci (cfr. Cass. n. 33009/2019).

La documentazione ex art. 210 c.p.c. può essere esibita solo previa richiesta stragiudiziale prevista dall’art. 119, co. 4, TUB; siffatta documentazione, tuttavia, non può essere acquisita in sede di consulenza tecnica d’ufficio contabile, ove essa abbia ad oggetto fatti e situazioni che, essendo
posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, debbano necessariamente essere provati dalle stesse (cfr. Cass n. 24641/2021).

Solo attraverso il confronto con il regolamento contrattuale è possibile verificare se vi siano stati addebiti in difformità del medesimo, i quali non sono desumibili sic et simpliciter dall’analisi degli estratti conti e a maggior ragione da quelli scalari.

I principi sono stati espressi nel giudizio d’appello proposto dal correntista avverso la sentenza di prime cure per sentir accertare, in mancanza del contratto di apertura di conto corrente e, pertanto, in assenza della contezza delle condizioni economiche in esso stabilite: i) l’effettivo ammontare degli interessi, delle commissioni di massimo scoperto, degli interessi inerenti al fido bancario, delle spese e degli interessi dovuti sulle commissioni; ii) l’illegittimità degli addebiti della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi in pendenza del rapporto.

(Massime a cura di Edoardo Abrami)




Sentenza del 2 marzo 2022 – Presidente: dott. Donato Pianta – Giudice relatore: dott.ssa Maria Tulumello

Il requisito della forma scritta del contratto relativo ai servizi di finanziamento, disposto dall’art 23 d.lgs. 58/98, è rispettato ove il contratto sia redatto per iscritto e ne venga consegnata una copia al cliente; è sufficiente la sola sottoscrizione dell’investitore non necessitando la sottoscrizione anche dell’intermediario, il cui consenso ben può desumersi alla stregua di comportamenti concludenti dallo stesso tenuti (conf. Cass. n 898/2018). La mancata sottoscrizione del documento contrattuale da parte della banca non determina la nullità per difetto della forma scritta prevista dall’art. 117, terzo comma, d.lgs. 385/1993, trattandosi di un requisito che va inteso non in senso strutturale, ma funzionale. Ne consegue che è sufficiente che il contratto sia redatto per iscritto, ne sia consegnata una copia al cliente e vi sia la sottoscrizione di quest’ultimo, potendo il consenso della banca desumersi alla stregua di comportamenti concludenti (conf. Cass. n. 16070/2018; Cass. n. 14646/2018).

Il dibattito dottrinale e giurisprudenziale in materia di anatocismo bancario è dovuto alla scarsa chiarezza del testo normativo introdotto dalla L. 147/2013 e alla superfluità dell’intervento della delibera CICR, finalizzata a rendere operativo il disposto della normativa primaria. Quest’ultima, infatti, richiamava un intervento del CICR, che si poneva come imprescindibile anche da un punto di vista pratico dal momento che, anche partendo dal presupposto secondo cui gli interessi, una volta maturati e passati a capitale, avrebbero comunque dovuto essere contabilizzati separatamente rispetto al capitale per evitare la produzione di ulteriori interessi su di essi, la relativa applicazione ai diversi contratti bancari (con particolare riferimento al contratto di apertura di credito) non appariva così immediata, esponendosi ad una serie di possibili soluzioni diverse tra loro, con rischio di disparità di trattamento tra i correntisti. Quanto sopra costituisce la ragione della tecnica normativa utilizzata dal legislatore nel settore bancario, che vede la norma primaria stabilire principi e divieti e la normativa secondaria regolare i tempi e le modalità concrete di attuazione, anche al fine di evitare situazioni di deregulation, ossia di arbitraria o diversificata disciplina nell’ambito del settore bancario; la delega rilasciata dalla normativa primaria a quella secondaria è proprio finalizzata a rendere omogenea e armonica la disciplina per tutti gli utenti bancari e per tutti gli istituti bancari e finanziari. 

In materia di pattuizioni delle commissioni di massimo scoperto, la mera indicazione di una percentuale rende tale voce di costo del tutto priva di qualsivoglia criterio di determinazione circa il contenuto e le modalità di applicazione e quantificazione, che possano permettere al correntista l’esatta comprensione delle sue modalità di applicazione non solo ex ante ma anche ex post, dato che non vi è alcun parametro certo e definitivo cui ricollegare il calcolo. 

I principi sono stati espressi nel giudizio di appello promosso da una s.n.c. contro la sentenza di primo grado che respingeva la domanda attorea, con la quale la s.n.c. chiedeva: i) la nullità del contratto di conto corrente per difetto del requisito della forma scritta prevista ad substantiam; ii) di dichiararsi illegittimi e non dovuti gli addebiti per interessi anatocistici e usurari, per commissioni di massimo scoperto e spese; iii) di determinare il corretto dare-avere tra le parti; iv) di condannare la banca alla restituzione delle somme illegittimamente addebitate o riscosse, non quantificate nel loro ammontare.

In particolare, l’appellante chiedeva la declaratoria di nullità del contratto di conto corrente e l’accertamento dell’esatto saldo, condannando la controparte alla rettifica e al pagamento delle somme indebitamente trattenute o non addebitate.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 25 febbraio 2022 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

In materia di rapporti di leasing, sulla scorta dei principi generali applicabili alle fattispecie di responsabilità contrattuale, in capo al creditore incombe l’onere di allegare il titolo e l’inadempimento, mentre sul debitore grava l’onere di provare il corretto adempimento, ovverosia il fatto estintivo dell’obbligazione. Pertanto, il predetto onere non può ritenersi assolto mediante un mero rinvio alla perizia di parte, non essendo il giudice tenuto a ricercare all’interno della documentazione versata in atti quegli elementi in fatto che spetta unicamente alla parte interessata introdurre in giudizio, ritualmente e tempestivamente, all’interno dell’atto difensivo (conf. Trib. Brescia, ord. 10.2.2020), né invero a effettuare autonomamente una “ricongiunzione” dei pagamenti, cumulativamente versati in atti, con i debiti risultanti dall’estratto conto avversario.

Nel caso in cui il contratto di leasing ponga a carico dell’utilizzatore gli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria dell’immobile – utilizzatore che viene espressamente costituito custode del bene – egli deve sopportare eventuali esborsi conseguenza di atti vandalici di terzi.

La normativa speciale prevista dalla L. 124/2017 subordina l’accredito al cliente del valore di realizzo del bene alla previa restituzione e al successivo collocamento sul mercato. Invero, il bene può essere immesso sul mercato soltanto dopo la restituzione e il corrispettivo ricavato dalla vendita va imputato a deconto del credito della concedente nel momento in cui la stessa faccia valere in giudizio il diritto al risarcimento del danno (conf. Trib. Brescia, 3 gennaio 2022). Resta, tuttavia, impregiudicata la facoltà per l’utilizzatrice, nell’ipotesi in cui il valore residuo dell’immobile superi l’importo spettante alla concedente in forza della clausola penale, di agire in un autonomo giudizio ai fini della restituzione della differenza (conf. Trib. Brescia, 9.7.2021).

Nel caso di scostamento tra tasso indicato in contratto e tasso leasing effettivo, l’art. 117 d.lgs. n. 385/983 si applica nel caso di assoluta mancanza o indeterminatezza del tasso di interesse, non già nelle ipotesi di erronea indicazione del tasso, laddove l’unico rimedio esperibile dal cliente è di tipo risarcitorio (conf. Trib. Brescia, 18.1.2021). Peraltro, in materia di leasing l’oggetto del contratto è desumibile dall’indicazione del numero e dell’importo unitario dei canoni, della durata del rapporto, dell’importo delle spese, del tasso di interesse di mora e del prezzo di riscatto dell’immobile. Nell’ipotesi in cui non sia specificamente contestato che gli addebiti effettuati dalla concedente nel corso del rapporto siano stati coerenti con le summenzionate previsioni contrattuali, non può configurarsi alcuna fattispecie di indebito. Infatti, anche a voler per assurdo ipotizzare la veridicità del “T.E.G.” o rectius“T.A.N.” – tipologia di tasso invero sconosciuta alla normativa in tema di leasing, che prevede l’indicazione del solo tasso che per il quale si verifica l’uguaglianza fra costo di acquisto del bene locato (al netto di imposte) e valore attuale dei canoni e del prezzo dell’opzione di acquisto finale (al netto di imposte) contrattualmente previsti – l’unico rimedio esperibile sarebbe di tipo risarcitorio, trattandosi di voce esposta a fini di trasparenza, con la conseguenza che la pretesa di ricalcolo del piano di ammortamento sulla base di tale tasso alternativo non troverebbe fondamento alcuno (conf. Trib. Brescia, 31 gennaio 2022).

I principi sono stati espressi nel giudizio di opposizione promosso da una s.r.l. avverso il decreto ingiuntivo emesso in favore di una banca a titolo di canoni scaduti e interessi di mora derivanti dal contratto di leasing immobiliare, risolto dalla concedente, giusta clausola risolutiva espressa.

In particolare, l’opponente eccepiva: i) il deposito del ricorso monitorio in periodo feriale; ii) la non conformità agli originali telematici del ricorso e del decreto ingiuntivo oggetto di notifica; iii) la mancata allegazione della procura al ricorso monitorio; iv) il mancato svolgimento della procedura di mediazione obbligatoria; v) l’imputabilità del mancato pagamento dei canoni fatti valere da controparte agli atti vandalici che avevano reso l’immobile inutilizzabile per diversi anni, costringendo l’utilizzatrice a sopportare i costi di ripristino; vi) il rifiuto da parte della concedente, contrario a buona fede, di rinegoziare i termini contrattuali; vii) la mancata cooperazione da parte della concedente ai fini dell’ottenimento dell’indennizzo assicurativo; viii) la natura traslativa del contratto di leasing, con conseguente applicabilità dell’art. 1526 c.c.; ix) l’insussistenza del credito, tenuto conto del diritto dell’utilizzatrice di vedersi riconosciuto il valore di realizzo dell’immobile; x) la nullità della clausola che disciplina la corresponsione di interessi, stante la pattuizione di interessi di mora usurari. 

Con la prima memoria ex art. 183, sesto comma, c.p.c. l’opponente formulava ulteriori motivi di opposizione, sulla scorta delle risultanze di una perizia di parte, ovverosia: a) l’applicazione di un tasso superiore al tasso indicato contrattualmente, il che all’evidenza comporta la necessità di rideterminare il debito per rate scadute azionato in sede monitoria; b) l’indeterminatezza contrattuale della previsione dei tassi e delle altre condizioni contrattuali ai sensi dell’art. 117 TUB, con conseguente ricalcolo del piano di ammortamento al saggio d’interesse sostitutivo; c) l’incertezza sulla data di stipula del contratto, rilevante ai fini della determinazione del tasso soglia; d) il superamento del tasso soglia; e) l’incertezza del credito azionato in via monitoria, che non tiene conto di pagamenti parziali effettuati dall’opponente.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 23 febbraio 2022 – Presidente: dott. Donato Pianta – Giudice relatore: dott.ssa Annamaria Laneri

L’indice sintetico di costo, o indicatore sintetico di costo (ISC), detto anche tasso annuo effettivo globale (TAEG) è l’indicatore di tasso di interesse di un’operazione di finanziamento. Esso rappresenta il costo effettivo dell’operazione, espresso in percentuale, che il cliente deve alla società che ha erogato il prestito o il finanziamento; in altri termini, il TAEG racchiude, contemporaneamente, il tasso d’interesse in regime di capitalizzazione composta e tutte le spese accessorie della pratica, con la conseguenza che avendo l’ISC/TAEG lo scopo di consentire al cliente di conoscere il costo totale effettivo del credito che gli viene erogato mediante il mutuo, la sua inesatta indicazione non comporta, di per sé, una maggiore onerosità del finanziamento, quanto piuttosto l’erronea rappresentazione del suo costo complessivo, pur sempre rilevabile dalla sommatoria degli oneri e delle singole voci di costo elencati nel contratto; pertanto, stante il suo valore sintetico, l’ISC non rientra nel novero dei tassi, prezzi e altre condizioni la cui erronea indicazione è sanzionata dall’art. 117 TUB mediante la sostituzione dei tassi d’interesse normativamente stabiliti a quelli pattuiti (conf. Cass. n. 39169/2021). 

I principi sono stati espressi nel giudizio di appello promosso da una banca contro la sentenza di primo grado che rideterminava il piano di ammortamento del contratto di mutuo quantificando l’importo che gli attori avevano pagato in eccesso a titolo di interessi sul predetto mutuo.

In particolare l’appellante riteneva prive di pregio le contestazioni, mosse dai mutuatari nei confronti degli istituti di credito, volte ad ottenere la declaratoria di nullità della clausola determinativa dell’ISC a seguito della sua inesatta indicazione nei contratti di mutuo e di difformità tra ISC pattuito e TEG applicato e chiedeva, quindi, la revoca della condanna a versare l’importo risultante dal ricalcolo del piano di ammortamento effettuato previa applicazione dei tassi sostitutivi ex art. 117 TUB, settimo comma.

Posto che l’ISC/TAEG ha funzione meramente informativa finalizzata a porre il cliente nella condizione di conoscere il costo totale ed effettivo del finanziamento prima di accedervi, e non è, invece, un requisito di validità del contratto, la difformità tra ISC indicato in contratto ed ISC effettivamente applicato, non comportando di per sé una maggiore onerosità del finanziamento, secondo la Corte d’Appello non determinava la nullità parziale del contratto e non portava all’applicazione del tasso sostitutivo ex art. 117, settimo comma, TUB, laddove, i tassi e gli altri oneri economici erano stati dettagliatamente pattuiti per iscritto in altre specifiche clausole, permettendo alla parte mutuataria di individuare comunque l’impegno economico effettivo derivante dall’operazione di finanziamento, attraverso la sommatoria degli oneri e delle singole voci di costo indicati in contratto.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Ordinanza del 21 febbraio 2022 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

La nullità determinata dalla genericità e dalla indeterminatezza della causa petendi o del petitum ex art. 164, quarto comma, c.p.c. travolge l’intero atto, seppur vi siano delle porzioni della domanda non affette da tale vizio (conf. Trib. Milano, 2.5.2017). Tuttavia, il termine concesso dal giudice per la rinnovazione della citazione nulla ex art. 164 c.p.c. ha natura perentoria, sicché, in caso di mancata rinnovazione, il provvedimento di cancellazione della causa dal ruolo emesso dal giudice ex art. 307, terzo comma, c.p.c., comporta la contemporanea e automatica estinzione del processo, anche in difetto di eccezione di parte (conf. Cass. n. 32207/2021).

Sulla base di tali principi, nella vicenda in questione, rilevata la persistente incertezza in ordine al petitum e alla causa petendidelle domande svolte – favorita anche dalla veste formale dell’atto di citazione, che non risultava strutturato in paragrafi distinti a seconda della domanda svolta – il Giudice dichiarava estinto il giudizio, disponendo la cancellazione della causa dal ruolo.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 21 febbraio 2022, n. 415 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Angelica Castellani

L’amministratore di una società di
capitali, con l’accettazione della carica, acquisisce, di regola, il diritto ad
essere compensato per l’attività svolta in esecuzione dell’incarico
affidatogli. Tale diritto è, nelle società per azioni, espressamente sancito
dagli artt. 2389 e 2364, n. 3), c.c., mentre per quanto concerne le società a
responsabilità limitata, nonostante l’assenza di analoghe disposizioni
espresse, esso viene pacificamente ricavato dall’applicazione analogica degli artt.
1709 e 2389 c.c.

Secondo i principi del sistema
vigente, quello di amministratore di società è un contratto che la legge
presume oneroso (cfr. la disposizione dell’art. 1709 c.c., dettata con
riferimento allo schema generale dell’agire gestorio e senz’altro applicabile
anche alla materia societaria, come pure posta a presupposto delle previsioni
dell’art. 2389 c.c., specificamente scritte per il tipo società per azioni).
Non v’è, dunque, ragione di ritenere che il diritto a percepire il compenso sia
subordinato ad una richiesta che l’amministratore rivolga alla società
amministrata durante lo svolgimento del relativo incarico.

In tema di determinazione del compenso
degli amministratori di società di capitali, 
qualora difetti una disposizione dell’atto costitutivo e l’assemblea si
rifiuti od ometta di stabilire il compenso spettante all’amministratore, ovvero
lo determini in misura inadeguata, quest’ultimo è legittimato a richiederne al
giudice la determinazione, eventualmente in via equitativa, purché alleghi e
provi la qualità e quantità delle prestazioni concretamente svolte.

Deve ritenersi legittima la
previsione statutaria di gratuità delle funzioni di amministratore, trattandosi
di un diritto disponibile, giacché al rapporto di immedesimazione organica
intercorrente tra la società e l’amministratore non si applica né l’art. 36
Cost. né l’art. 409, comma 1, n. 3) c.p.c.

Una società a responsabilità limitata era stata convenuta
in giudizio da un consigliere del consiglio di amministrazione al fine di
ottenere, da un lato, il pagamento dei compensi
medio tempore maturati per l’intera durata
dell’incarico di amministratore svolto in favore della società; dall’altro
lato, il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti per
effetto della revoca dalla carica di amministratore, che era stata deliberata
dalla società in mancanza di giusta causa e senza preavviso.

Nel caso di specie, lo statuto sociale prevedeva come
meramente “eventuale” la remunerazione dell’organo gestorio e, più
precisamente, ne subordinava espressamente l’attribuzione del compenso alla
determinazione dei soci compiuta all’atto della nomina.

Il Tribunale si è pronunciato nel senso di ammettere la
natura gratuita dell’incarico, valorizzando la determinazione delle parti,
peraltro in linea con quanto chiaramente desumibile dallo statuto sociale. I
giudici di secondo grado, inoltre, avevano rilevato la sussistenza di alcuni
elementi che impedivano di riconoscere, in concreto, la natura onerosa
dell’attività prestata dall’amministratore in favore della società, e
segnatamente: (a) il tenore della disposizione statutaria; (b) la mancata
determinazione del compenso all’atto di nomina e (c) l’accettazione senza
riserva dell’incarico da parte dell’attore

(Massime a cura di Eugenio Sabino)