Sentenza del 22 gennaio 2021 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

Il messaggio di posta elettronica (c.d. e-mail)
costituisce un documento elettronico che contiene la rappresentazione
informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti che, seppure privo
di firma, rientra tra le riproduzioni informatiche e le rappresentazioni
meccaniche di cui all’art. 2712 c.c. e, pertanto, forma piena prova dei fatti e
delle cose rappresentate se colui contro il quale viene prodotto non ne
disconosca la conformità ai fatti o alle cose medesime (conf. Cass. n.
11606/2018). Tale disconoscimento tuttavia deve essere chiaro, circostanziato
ed esplicito, dovendosi concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti
la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta (conf. Cass. n.
19155/2019).

I requisiti ai fini della protezione delle
informazioni aziendali possono essere così puntualizzati: a) novità, in
quanto l’informazione non deve essere generalmente nota ovvero agevolmente
accessibile da terzi; b) valore economico, idoneo ad attribuire un
vantaggio competitivo, che viene meno laddove l’informazione sia resa pubblica,
con la precisazione che tale requisito presuppone l’effettuazione di uno sforzo
economico per ottenere (ovvero duplicare) tali informazioni; c)
segretezza, intesa come sottoposizione delle informazioni a misure
ragionevolmente adeguate alla protezione, di ordine fisico (es. password)
e giuridico (es. non disclosure agreement), con la precisazione che la
segretezza non equivale ad una assoluta inaccessibilità (condizione, peraltro,
di difficile se non impossibile verificazione), bensì presuppone che
l’acquisizione delle informazioni segrete richieda da parte del terzo non
autorizzato sforzi non indifferenti, con la conseguenza che non possono essere
tutelate informazioni soggette, per loro natura ovvero in ragione di altre
circostanze, a diffusione incontrollata o incontrollabile.

Il difetto di allegazione in punto di
descrizione del know-how asseritamente sottratto è tale da precludere
non soltanto la concessione della tutela ex art. 98 c.p.i., ma finanche
la stessa identificazione delle informazioni riservate di cui si lamenta
l’altrui sfruttamento.

I principi sono stati espressi nel giudizio
promosso da una s.n.c. operante nel settore della carpenteria meccanica nei
confronti di una s.r.l. concorrente e dei due ex dipendenti, attuali soci e
amministratori della società concorrente convenuta. In particolare, parte
attrice lamentava la commissione a propri danni dei seguenti atti di
concorrenza sleale: i) lo sfruttamento indebito di
know-how tecnico (disegni e progetti) e
commerciale (tempi, offerti, prezzi) da parte degli ex dipendenti, già assunti
come impiegati tecnici, attuato mediante la sottrazione dei
file
contenuti nella casella aziendale
dropbox, finalizzato ad agganciare la
clientela dell’attrice; ii) lo sviamento di clientela, posto in essere in
costanza di rapporto di lavoro. Alla luce delle suddette circostanze, la
società attrice chiedeva l’inibitoria delle condotte anticoncorrenziali
descritte, con fissazione di penale per l’eventuale violazione e pubblicazione
del provvedimento, oltre che il risarcimento dei danni subiti.

(Massime a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 5 gennaio 2021 – Giudice designato: Dott. Stefano Franchioni

Ai sensi dell’art. 67, comma 2, l.f. sono revocati i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili compiuti entro sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento, se la curatela dimostra che l’altra parte conosceva lo stato d’insolvenza del debitore e, laddove alla domanda di concordato preventivo sia seguita la dichiarazione di fallimento, l’art. 69 bis, comma 2, l.f. prevede la retrodatazione del termine iniziale di decorrenza del c.d. “periodo sospetto” al giorno della pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese. 

Rappresentano circostanze che consentono di fondare l’accertamento della scientia decoctionis la mancanza di contestazioni da parte della debitrice circa l’esistenza dei crediti azionati, l’accettazione da parte della creditrice di pagamenti rateali del debito a fronte della disponibilità di un titolo giudiziale esecutivo, l’inadempimento della debitrice rispetto ai primi due piani di rientro accordati ed il pagamento del terzo piano di rientro mediante cambiali (conf. Cass. n. 24937/2007). 

La prova della scientia decoctionis non è ricavabile dalla mera esistenza di esecuzioni individuali in quanto non soggette a forme pubblicitarie. Siffatta prova può essere raggiunta attraverso la dimostrazione della diffusione di notizie sulla situazione di dissesto in cui versa una società di rilevanti dimensioni in considerazione dell’elevatissimo numero di procedure esecutive incardinate tra gli operatori del settore territorialmente contigui (conf. Cass. n. 5256/2010).

Principi espressi in caso di accoglimento della domanda ex art 67 l.f., con la quale il fallimento ha agito per la revoca di pagamenti eseguiti dalla società in bonis nel semestre anteriore alla pubblicazione nel registro delle imprese del ricorso per concordato preventivo c.d. “con riserva” presentato dalla società poi fallita. 

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza dell’1 giugno 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Davide Scaffidi

L’interesse ad agire per la declaratoria di nullità di un titolo brevettuale altrui non può essere identificato in un mero interesse al rispetto della legalità di cui un qualsiasi soggetto si affermi titolare. Deve piuttosto ribadirsi che l’esperimento della domanda di nullità di una privativa industriale mira ad eliminare un titolo ostativo al libero esercizio dell’attività di impresa e, laddove esso sia effettivamente nullo, alla rimozione degli effetti ad esso connessi con la correlativa possibilità di condurre liberamente quella l’attività nel campo ricoperto dal titolo brevettuale dichiarato nullo (conf. Trib. Milano n. 10518/2015).

Ai sensi dell’art. 100 c.p.c. e dell’art. 122 c.p.i., l’interesse ad agire non può essere costituito da un interesse di mero fatto, non assistito dai requisiti di concretezza ed attualità, che sono comunemente richiesti dall’ordinamento affinché possa ritenersi integrata l’apposita condizione, che giustifica l’ammissibilità di una domanda di accertamento quale è per l’appunto la domanda di accertamento dell’invalidità di una privativa altrui. 

Ai sensi dell’art. 100 c.p.c. e dell’art. 122 c.p.i., deve ritenersi che l’interesse ad agire difetta quando l’attore promuove un’azione soltanto al fine di scongiurare l’eventualità di ulteriori e futuri procedimenti e la domanda di nullità dei titoli brevettuali avanzata dall’attrice è sorretta esclusivamente da generiche ed astratte esigenze di certezza dei rapporti tra le due imprese, non ponendosi, in concreto, il problema di dover eliminare una situazione di incertezza, obiettiva e pregiudizievole, in ordine alla portata di diritti e obblighi delle parti rispetto ai titoli brevettuali oggetto di censura. 

Principi espressi dichiarando il difetto di interesse ad agire della società in relazione alle domande proposte volte alla declaratoria di nullità di due brevetti di titolarità della società convenuta e dei quali l’inventore era stato il legale rappresentate della prima. La società attrice, non avendo allegato possibili profili di interferenza potenziale tra i manufatti realizzati dalla stessa e l’oggetto dei brevetti della convenuta, non ha, conseguentemente, dimostrato come i diritti vantati sui titoli brevettuali potessero costituire un ostacolo attuale e concreto al libero esercizio della propria libertà imprenditoriale.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Decreto del 3 dicembre 2020 – Presidente: Dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice estensore: Dott. Stefano Franchioni

Il credito vantato da Banca del Mezzogiorno-Mediocredito Centrale, quale gestore del Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese istituito con l. 662/96, art. 2, comma 100, lett. a), è assistito dal privilegio di cui all’art. 9, comma 5, del d.lgs. n. 123/1998 (con collocazione in privilegio rispetto a ogni altro titolo di prelazione da qualsiasi causa derivante, ad eccezione del privilegio per spese di giustizia e di quelli previsti dall’articolo 2751-bis c.c.) non solo nelle ipotesi di erogazione diretta del finanziamento ma anche qualora abbia prestato la garanzia (fideiussoria) prevista ex lege e la stessa sia stata escussa dall’ente di credito garantito a seguito dell’inadempimento del mutuatario e della conseguente revoca del mutuo da parte della banca. Ciò sulla base di un’interpretazione che valorizza la ratio fondante la richiamata previsione, che mira a recuperare il sacrificio patrimoniale che il sostegno pubblico ha in concreto sopportato in funzione dello sviluppo delle attività produttive anche per procurare la provvista per lo svolgimento di ulteriori e futuri sostegni allo sviluppo delle medesime (Cass. Civ. n. 14915/2019).

L’intervento di sostegno a mezzo di garanzia personale ai sensi del d.lgs. 123/1998 si apprezza, per qualità, in un tipo di rischio imprenditoriale non diverso da quello proprio della concessione dei mutui o comunque delle erogazioni dirette di somme all’impresa beneficiaria della protezione accordata dalla legge in discorso, con obbligo di restituzione delle somme medesime. Irrilevante si presenta la diversa conformazione strutturale delle due fattispecie, posto che l’assunzione di un impegno diretto da parte del garante nei confronti del terzo viene a determinare una posizione di rischio omologa a quello della consegna diretta delle somme nelle mani del mutuatario.

Al riconoscimento che gli interventi di sostegno pubblico in forma di concessione di garanzia godono del privilegio ex art. 9, comma 5, d.lgs. 123/1998 non è di ostacolo la constatazione che di tale privilegio non viene a disporre il creditore che ha erogato il mutuo (ovverosia, la banca mutuataria) e che è avvantaggiato dalla garanzia. Non vi è infatti alcuna necessità – sotto il profilo strutturale, come pure sotto quello logico – che la posizione del creditore garantito si avvantaggi di un privilegio, perché di un privilegio possa disporre il garante: la posizione del creditore, cioè, non si pone come un medio logico inevitabile in proposito. Conformemente alla regula iuris dell’art. 2745 c.c., l’art. 9, comma 5, del d.lgs. 123/1998 riconosce il privilegio in ragione del sostegno pubblico che viene dato alle attività produttive consegnandolo al garante, che ha pagato la banca garantita (per il credito che questa vanta verso il debitore principale), in quanto destinatario finale del depauperamento patrimoniale connesso all’estinzione della relativa obbligazione: sarebbe disparità del tutto non giustificata, perciò, se l’intervento di garanzia non si giovasse del privilegio che pur assiste, nel contesto normativo del d.lgs. n. 123/1998, le altre forme di intervento poste a sostegno pubblico delle attività produttive (Cass. Civ. n. 2664/2019; Cass. Civ. n. 8882/2020; Cass. Civ. n. 11122/2020).

L’art. 8-bis del d.l. 3/2015 (conv. in l. 33/2015), nel riconoscere il privilegio anche al diritto alle restituzioni spettanti ai terzi prestatori di garanzie, non va considerato nè come una disposizione di interpretazione autentica, e dunque retroattiva, nè come disposizione innovativa: si tratta semplicemente di una disposizione ripetitiva, e confermativa, del regime già vigente (Cass. Civ. n. 14915/2019).

Ai sensi dell’art. 2749 c.c. (richiamato dall’art. 54, comma 3, l. fall.), il privilegio accordato al credito si estende anche agli interessi dovuti per l’anno in corso alla data del pignoramento (ovvero, alla data del fallimento) e per quelli dell’anno precedente; trattandosi di privilegio generale, ai sensi dell’art. 54, comma 3, l.fall., il decorso degli interessi, nei limiti della misura legale, cesserà alla data del deposito del progetto di riparto nel quale il credito sarà soddisfatto anche se parzialmente. La misura legale, alla quale rinvia l’art. 2749, comma 2, c.c. ai fini dell’individuazione dei limiti della collocazione privilegiata del credito per interessi, deve intendersi riferita non già al saggio d’interesse stabilito dalla legge che disciplina il singolo credito, ma a quello previsto in via generale dall’art. 1284 c.c. (Cass. Civ. n. 13458/2014; Cass. Civ. n. 16084/2012).

Principi espressi in un giudizio di opposizione allo stato passivo promosso dall’Agenzia delle Entrate, per conto di Banca del Mezzogiorno-Mediocredito Centrale che, quale gestore del Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese istituito con l. 662/96 – art. 2, comma 100, lett. a) – aveva garantito per il 50% il finanziamento erogato da un intermediario bancario alla società fallita (all’epoca in bonis).

Il Tribunale, sulla scorta dei superiori principi e in riforma dell’originario provvedimento del Giudice Delegato, ha ammesso il credito in privilegio ex art. 9, comma 5 del d.lgs. n. 123/1998, collocando in pari grado anche agli interessi dovuti per l’anno in corso alla data del fallimento e per l’anno precedente nonché a quelli maturandi, nei limiti della misura legale, sino alla data del deposito del progetto di riparto nel quale il credito sarà soddisfatto anche solo parzialmente.

(Massime a cura di Filippo Casini)




Decreto del 29 ottobre 2020 – Presidente: Dott. Gianluigi Canali – Giudice relatore: Dott. Stefano Franchioni

Posto che il decreto ingiuntivo acquista efficacia di giudicato formale e sostanziale solo nel momento in cui il giudice, dopo averne controllato la notificazione, lo dichiari esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c. e che tale operazione consiste in una vera e propria attività giurisdizionale di verifica del contraddittorio che si pone come ultimo atto del giudice all’interno del processo d’ingiunzione e a cui non può surrogarsi il giudice delegato in sede di accertamento del passivo, va esclusa l’opponibilità alla procedura fallimentare del decreto ingiuntivo non munito, prima del fallimento, della dichiarazione di esecutorietà ex art. 647 c.p.c., non rilevando l’avvenuta concessione della provvisoria esecutività ex art. 642 c.p.c. o la mancata tempestiva opposizione alla data della pronuncia di fallimento, eventualmente attestata dal cancelliere.

Il decreto ingiuntivo non munito, prima della dichiarazione di fallimento, del decreto di esecutorietà non è opponibile al fallimento, neppure nell’ipotesi in cui il decreto ex art. 647 c.p.c. venga emesso successivamente, tenuto conto del fatto che, intervenuto il fallimento, ogni credito deve essere accertato nel concorso dei creditori ai sensi dell’art. 52 l.f.

Se pure si concedesse che i titolari di un diritto d’ipoteca sui beni compresi nel fallimento costituiti in garanzia per crediti vantati verso debitori diversi dal fallito possano avvalersi del procedimento di verificazione dello stato passivo, l’accertamento avrebbe comunque ad oggetto esclusivamente la validità ed efficacia della garanzia ipotecaria e la misura di partecipazione al riparto delle somme ricavate dalla liquidazione dei beni gravati dall’ipoteca e non il credito del ricorrente ai fini della sua ammissione al passivo tra i creditori concorrenti.

Principi espressi nell’ambito di un procedimento di opposizione allo stato passivo in cui il creditore chiedeva il riconoscimento del privilegio ipotecario in mancanza di decreto ex art. 647 c.p.c. emesso in data anteriore al fallimento.

(Massime a cura di Giulia Ballerini)




Ordinanza del 21 ottobre 2020 – Giudice designato: Dott.ssa Alessia Busato

Anche lo storno di un solo dipendente è da considerarsi illecito allorché connotato dall’animus nocendi dello stornante oltre che dalla natura essenziale – cioè idonea ad avere ripercussioni traumatiche sull’organizzazione aziendale – dell’apporto lavorativo del dipendente stornato.

Può configurarsi un atto di concorrenza sleale in presenza di un trasferimento di un complesso di informazioni da parte di un ex dipendente che, pur non costituenti un vero e proprio diritto di proprietà industriale, costituiscano un complesso strutturato e organizzato di dati cognitivi, che superino la normale capacità mnemonica ed esperienza del dipendente. 

Principi espressi nell’ambito di un procedimento cautelare nel quale la ricorrente chiedeva l’inibizione dell’attività dei resistenti consistente in concorrenza sleale, in particolare da sviamento della clientela con rivelazione di segreti commerciali ex artt. 98 e 99 c.p.i. e storno di dipendenti.

(Massima a cura di Giovanni Maria Fumarola)




Ordinanza del 21 ottobre 2020 – Giudice designato: Dott.ssa Alessia Busato

La regola sulla ripartizione dell’onere della prova prevista dall’art. 121 c.p.i. opera all’evidenza anche nell’ambito del procedimento cautelare, non essendovi alcun dato normativo o sistematico che possa portare a diversa conclusione.

Nell’ambito di un procedimento cautelare, pur con le peculiarità della cognizione sommaria propria di simili procedimenti, è sempre possibile eccepire la nullità del titolo.

Principi espressi nell’ambito di un procedimento cautelare nel quale la ricorrente, previa descrizione ex art. 129 c.p.i. dell’attività di lavorazione dei prodotti svolti dalla resistente, chiedeva l’inibizione ex art. 131 c.p.i. delle attività costituenti asserita violazione di un brevetto.

(Massima a cura di Giovanni Maria Fumarola)




Ordinanza del 2 ottobre 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

Non diversamente da quanto avviene nelle ipotesi di esecuzione forzata avente ad oggetto un immobile locato a terzi, le questioni discendenti dalla vigenza di un contratto di locazione non incidono sull’esito del rapporto sostanziale tra le parti del giudizio di merito, da cui scaturisce il titolo esecutivo, e non possono che essere risolte in executivis.

Decisione resa con riferimento ad un reclamo avverso un’ordinanza pronunciata in seguito al procedimento cautelare instaurato da una società di leasing nei confronti della locataria finanziaria dell’immobile e non anche nei confronti dei conduttori dell’immobile, qualificatisi destinatari sostanziali degli effetti lesivi del provvedimento reclamato.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)




Sentenza del 30 settembre 2020 – Presidente relatore: Dott. Donato Pianta

Gli interessi moratori non hanno natura
remunerativa, bensì risarcitoria, in quanto la loro funzione è quella di tenere
indenne la controparte dal danno causato dal ritardo nel proprio adempimento.
Essi sono assoggettabili alla disciplina dell’usura e anche la sola pattuizione
di interessi moratori usurari è sufficiente all’applicazione delle suddette
norme. 

La pattuizione contrattuale degli
interessi moratori non può ritenersi usuraria se il criterio di calcolo
applicato al fine di determinare il tasso soglia di tali interessi è corretto,
in quanto applica la maggiorazione di 2,1 punti percentuali del TEGM riferito
all’interesse corrispettivo.

Se viene accertata la natura usuraria
degli interessi moratori, unica conseguenza è la debenza dei soli interessi
corrispettivi e non l’azzeramento degli interessi dovuti.

Non sussiste indeterminatezza nelle
condizioni del contratto di leasing laddove si riscontrano, nel testo
contrattuale, l’indicazione del costo del bene finanziato, la durata del
contratto, la periodicità, il numero e l’importo dei canoni a carico
dell’utilizzatore, il tipo di tasso applicato e l’eventuale criterio di
indicizzazione del tasso stesso.

E’ applicabile anche al leasing il principio espresso con
riferimento ai mutui ad ammortamento, secondo il quale la formazione delle rate
di rimborso, nella misura composita predeterminata di capitale ed interessi,
attiene alle mere modalità di adempimento di due obbligazioni poste a carico
del mutuatario – aventi ad oggetto l’una la restituzione della somma ricevuta
in prestito e l’altra la corresponsione degli interessi per il suo godimento –
che sono ontologicamente distinte e rispondono a finalità diverse. Sicché il
fatto che nella rata esse concorrano, allo scopo di consentire all’obbligato di
adempiervi in via differita nel tempo, non è sufficiente a mutarne la natura né ad eliminarne
l’autonomia (si veda, in parte motiva, Cass. Civ., sez. I, 22 maggio 2014, n.
11400); di conseguenza, non si configura l’ipotesi di anatocismo.

È ritenuta legittima la stipulazione di un contratto di leasing
“a tasso indicizzato”, in cui ciascun rateo è legato ad un parametro
finanziario di riferimento pattuito dai contraenti ed inserito in una specifica
clausola contrattuale di indicizzazione. Tale clausola non è però autonoma,
essendo un elemento accessorio e non scindibile rispetto al contratto di cui fa
parte, ragion per cui deve essere assoggettato alla medesima disciplina cui
deve essere sottoposto il contratto nel suo complesso. Di conseguenza non può
nemmeno ritenersi necessaria la stipulazione di un contratto-quadro, non
essendo in presenza di alcuno strumento finanziario autonomo e a sé stante.

E’
da ritenersi valida la clausola risolutiva espressa laddove la sua operatività,
prevista espressamente per il “mancato o ritardato adempimento, anche parziale,
di uno degli obblighi assunti dall’Utilizzatore”, è specificata con l’esplicito
richiamo delle varie fattispecie rilevanti: il
profilo d’inadempimento è dunque delineato in modo puntuale e specifico.

Principi espressi a seguito dell’impugnazione della sentenza del
Tribunale, al fine di vedere dichiarata la nullità del contatto di
leasing per usurarietà del tasso di interesse.

(Massime a cura di Lorena Fanelli)




Decreto del 3 settembre 2020 – Presidente: Dott. Gianluigi Canali – Giudice relatore: Dott. Stefano Franchioni

Ai sensi dell’art. 61, comma 2, l.f., il “regresso tra i coobbligati falliti può essere esercitato solo dopo che il creditore sia stato soddisfatto integralmente”. Ne consegue che il regresso verso il fallito è consentito non solo all’altro coobbligato fallito (come testualmente recita la norma), ma anche agli altri coobbligati (o fideiussori) in bonis che abbiano integralmente estinto le ragioni di credito del creditore comune, atteso che la posizione del creditore che, pur ricevendo parzialmente il pagamento da un coobbligato fallito, mantiene il diritto ad ottenere l’intero negli altri fallimenti, è sostanzialmente identica a quella del creditore che, dopo la dichiarazione di fallimento, riceve un pagamento parziale da un coobbligato (o fideiussore) in bonis.

L’art. 61, comma 2, l.f. risponde all’esigenza di assicurare la stabilità della situazione esistente al momento della dichiarazione di fallimento, mantenendola ferma fino a che il credito principale non scompaia per intero dal passivo, onde evitare che si creino, per effetto dei pagamenti da parte dei coobbligati e dell’esercizio dell’azione di regresso contro i falliti, duplicazioni di concorso dello stesso credito nel passivo, con conseguenti duplicazioni di accantonamenti in sede fallimentare a favore di una stessa pretesa creditoria, tali da comportare una diminuzione della massa ripartibile fra gli altri creditori. 

È rilevante, ai fini dell’ammissibilità tanto della surrogazione quanto del regresso, che l’adempimento risulti integrale ex parte creditoris, cioè idoneo ad estinguere la pretesa che il creditore comune abbia insinuato o possa insinuare al passivo del fallimento, indipendentemente dal fatto che, attraverso il pagamento, il coobbligato abbia totalmente assolto la propria obbligazione. Diversamente opinando, potrebbe risultare pregiudicato lo stesso diritto del creditore comune di vedere soddisfatto sul ricavato il credito che residua all’esito del pagamento effettuato dal coobbligato, in contrasto con il principio, ribadito dall’art. 61, comma 1, per l’ipotesi di fallimento di uno o più coobbligati e dall’art. 62, comma 1, per l’ipotesi di pagamento parziale eseguito anteriormente alla dichiarazione di fallimento, secondo cui nelle obbligazioni solidali il creditore può agire nei confronti di ciascuno dei coobbligati fino alla completa soddisfazione del proprio credito (conf. Cass. n. 3216/2012).

L’insinuazione del creditore rimane inalterata fino al suo integrale pagamento con conseguente irrilevanza, ai fini della partecipazione al concorso, degli adempimenti parziali eseguiti dal coobbligato (o dal fideiussore) successivamente alla dichiarazione di fallimento, ancorché idonei ad esaurire l’obbligazione del solvens (conf. Cass. n. 26003/2018). 

Principi espressi relativi al rigetto di opposizione allo stato passivo: il Tribunale ha affermato che l’art. 61 l.f. è disposizione speciale che disciplina il concorso tra i coobbligati in caso di fallimento del debitore comune, con la conseguenza che il pagamento solamente parziale (ex parte creditoris) è inidoneo a fondare l’ammissione al passivo tanto in via surrogatoria che in via di regresso, giacché l’adempimento deve essere  integrale e idoneo a estinguere le pretese che il creditore comune abbia insinuato o possa insinuare al passivo del fallimento, indipendentemente dal fatto che, con il pagamento, il coobbligato abbia assolto alla propria obbligazione.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)