Sentenza del 12 marzo 2021 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott.ssa Angelica Castellani

Il
giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità integrale del contratto
deve rilevarne d’ufficio la sua nullità solo parziale, e solo qualora le parti,
all’esito di tale indicazione officiosa, omettano un’espressa istanza di
accertamento in tal senso, deve rigettare l’originaria pretesa non potendo
inammissibilmente sovrapporsi alla loro valutazione e alle loro determinazioni
espresse nel processo (Cass. SS.UU. n. 26242/2014).

Le
eccezioni in senso stretto si identificano solo in quelle per le quali la legge
espressamente riservi il potere di rilevazione alla parte o in quelle in cui il
fatto integratore dell’eccezione corrisponda all’esercizio di un diritto
potestativo azionabile in giudizio da parte del titolare e, quindi, per
svolgere l’efficacia modificativa, impeditiva o estintiva di un rapporto giuridico, supponga il
tramite di una manifestazione di volontà della parte (ex multis, Cass. n. 20317/2019, conforme a Cass. SS.UU. n.
1099/1998, Cass. n. 12353/2010 e Cass. n. 27045/2018). L’invocata sostituzione ex art. 1419 c.c. della clausola
contrattuale derogativa dell’art. 1957 c.c. con la norma di legge costituisce
effetto consequenziale alla dedotta nullità, sicché la decadenza di cui alla
citata norma, non integrando eccezione in senso stretto per il cui rilievo
risulta indispensabile l’iniziativa di parte, può essere rilevata d’ufficio
quale fatto estintivo risultante dal materiale allegatorio e probatorio
acquisito in atti.

In tema di accertamento
dell’esistenza di intese restrittive della concorrenza vietate dall’art. 2
della l. n. 287 del 1990, con particolare riguardo alle clausole relative a
contratti di fideiussione stipulati con le banche, il provvedimento della Banca
d’Italia di accertamento dell’infrazione, adottato prima delle modifiche
apportate dall’art. 19, c. 11, della l. n. 262 del 2005, possiede, al pari di
quelli emessi dall’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, un’elevata
attitudine a provare la condotta anticoncorrenziale, indipendentemente dalle
misure sanzionatorie che siano in esso pronunciate, e il giudice del merito è
tenuto, per un verso, ad apprezzarne il contenuto complessivo, senza poter
limitare il suo esame a parti isolate di esso, e, per altro verso, a valutare
se le disposizioni convenute contrattualmente coincidano con le condizioni
oggetto dell’intesa restrittiva, non potendo attribuire rilievo decisivo
all’attuazione o meno della prescrizione contenuta nel menzionato provvedimento
con cui è stato imposto all’ABI di estromettere le clausole vietate dallo
schema contrattuale diffuso presso il sistema bancario (Cass. n. 13846/2019).

La produzione in
giudizio dei provvedimenti delle autorità indipendenti che espongono gli esiti
dell’istruttoria antitrust unitamente
all’ulteriore compendio probatorio atto a confermare la diffusività dello
schema contrattuale nel settore di riferimento in un arco temporale che
ricomprende il momento in cui è stata stipulata la fideiussione oggetto di
causa integrano elementi di prova sufficienti a dimostrare l’esistenza del
cartello anticoncorrenziale e la sua attitudine a spiegare effetti sulla
negoziazione particolare.

Da un lato, la
circostanza che una intesa ‘a monte sia nulla perché anticoncorrenziale
non comporta automaticamente la nullità di tutti i contratti posti in essere
dalle imprese aderenti all’intesa. Dall’altro lato, avendo l’Autorità
amministrativa circoscritto l’accertamento dell’illiceità ad alcune specifiche
clausole, ciò non esclude, né è incompatibile con il fatto che in concreto la
nullità del contratto ‘a valle’ debba essere valutata dal giudice adito e che
possa trovare applicazione l’art. 1419 c.c., laddove l’assetto degli interessi
in gioco non venga pregiudicato da una pronuncia di nullità parziale, limitata
alle clausole rivenienti dalle intese illecite (Cass. n. 24044/2019).

Pertanto, la nullità ‘a valle’ delle fideiussioni omnibus
deve essere valutata alla stregua dell’art. 1418 ss. c.c. e può trovare
applicazione l’art. 1419 cod. civ., laddove l’assetto degli interessi in gioco
non venga pregiudicato da una pronuncia di nullità parziale, limitata alle
clausole rivenienti dalla intesa illecita, posto che, in linea generale, solo
la banca potrebbe dolersi della loro espunzione (Cass. n. 4175/2020).

La valutazione
concorrenziale dello schema contrattuale non si fonda sul mero confronto della
singola clausola con la regola codicistica, quanto piuttosto sulla previsione
uniforme di una disciplina di dettaglio idonea ad incidere sulla
caratterizzazione dell’offerta bancaria, impedendo l’efficace forma di
concorrenza rappresentata dalla differenziazione della stessa e aggravando la
posizione del fideiussore.

Devono ritenersi
caratterizzate da oggetto illecito, e quindi nulle ai sensi del combinato
disposto degli artt. 1418 e 1346 c.c., le
clausole che traspongono nel contratto ‘a valle’ l’identico contenuto del
prodotto dell’intesa ‘a monte’, la cui invalidità è testualmente sancita
dall’art. 2, c. 2, lett. a) della l. n. 287 del 1990, cui va riconosciuta
natura di norma di ordine pubblico economico. Tali clausole, contenute in
un contratto c.d. ‘seriale’,
destinato all’utilizzazione sistematica e generalizzata, sono direttamente
strumentali al risultato vietato dalla legge, veicolando l’identico contenuto
di condizioni generali di cui è già stata accertata la nullità in quanto
uniformemente applicate. L’oggetto del contratto è illecito anche quando la
prestazione, pur in sé lecita, è funzionale al perseguimento di un risultato
vietato dall’ordinamento. Nel caso di specie, attraverso tali clausole si
realizza e si perpetua la violazione degli interessi generali sottesi alla
legge antitrust.

Con riferimento al
regime di nullità – totale o parziale – in mancanza della prova che i
contraenti non avrebbero concluso il contratto senza le clausole colpite da
nullità, il paradigma da adottare deve essere quello della nullità parziale ex art. 1419, c. 2, c.c.

Pertanto, salva la
dimostrazione, da fornirsi a cura della parte che invochi la nullità
dell’intero regolamento negoziale, che i contraenti non lo avrebbero concluso
senza quella parte del suo contenuto colpita da nullità, deve ritenersi che il
fideiussore avrebbe prestato la garanzia, atteso che la sostituzione della
disciplina codicistica alle pattuizioni nulle è a lui più favorevole.

Con riferimento
all’eccezione ex art. 1955 c.c., il fatto del creditore rilevante ai
fini della liberazione del fideiussore non può consistere nella mera inazione,
ma deve costituire violazione di un dovere giuridico imposto dalla legge o
nascente dal contratto e integrante un fatto quanto meno colposo, o comunque
illecito, dal quale sia derivato un pregiudizio giuridico, non solo economico,
che deve concretizzarsi nella perdita del diritto (di surrogazione ex
art. 1949 c.c., o di regresso ex art. 1950 c.c.), e non già nella mera
maggiore difficoltà di attuarlo per le diminuite capacità satisfattive del
patrimonio del debitore (in tal senso, da ultimo, Cass. n. 4175/2020;
precedenti conformi: Cass. n. 21833/2017, Cass. n. 9695/2011 e Cass. n.
28838/2008).

Il principio in base al
quale, nella fideiussione per obbligazione futura, sussiste l’onere del creditore,
previsto dall’art. 1956 c.c., di richiedere l’autorizzazione del fideiussore
prima di far credito al terzo, le cui condizioni patrimoniali siano peggiorate
dopo la stipulazione del contratto di garanzia, assolvendo alla finalità di
consentire al fideiussore di sottrarsi, negando l’autorizzazione,
all’adempimento di un’obbligazione divenuta, senza sua colpa, più gravosa, non
risulta applicabile allorché nella stessa persona coesistano le qualità di
fideiussore e di amministratore della società debitrice principale, poiché, in
tale ipotesi, la richiesta di credito da parte della persona obbligatasi a
garantirlo comporta di per sé la preventiva autorizzazione del fideiussore alla
concessione del credito (ex multis, Cass. n. 31227/2019, Cass. n. 7444/2017
e Cass. n. 3761/2006).

Inoltre, qualora il
fideiussore sia anche socio della società debitrice principale, da una parte si
deve presumere – salvo circostanze particolari da dedurre – che egli sia già
pienamente informato delle peggiorate condizioni economiche della società, e
dall’altra parte, si deve ritenere che la sua qualità di socio gli consenta di
attivarsi per impedire che continui la negativa gestione (mediante la revoca
dell’amministratore) o per non aggravare ulteriormente i rischi assunti (mediante
l’anticipata revoca della fideiussione); pertanto, anche in questa circostanza,
non è consentito eccepire la liberazione ex art. 1956 c.c. (così, Cass.
n. 2902/2016 e Cass. n. 11979/2013).

Al
fine di poter efficacemente opporre al terzo contraente le limitazioni dei
poteri di rappresentanza dei propri organi sociali, la società deve dimostrare,
ai sensi dell’art. 2384, c. 2, c.c., non già la mera conoscenza o conoscibilità
dell’esistenza di tali limitazioni da parte del terzo, ma altresì la sussistenza
di un accordo fraudolento o, quanto meno, la consapevolezza di una stipulazione
potenzialmente generatrice di un danno per la società (ex multis, Cass. n. 7293/2009).

Principi espressi in sede, inter alia,
di accertamento della nullità parziale di un contratto di fideiussione omnibus
contenente clausole riproduttive degli artt. 2, 6 e 8 dello schema ABI.

(Massime
a cura di Giorgio Peli)




Decreto del 4 marzo 2021 – Presidente: Dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice relatore: Dott. Gianluigi Canali

L’art. 160 l. fall, come modificato
dal D.L. 27.6.2015 n. 83, convertito con modificazioni dalla L. 6.8.2015 n.
132, prevede, al quarto comma, che nei concordati non riconducibili all’art. 186-bis
l. fall la proposta di concordato preventivo deve assicurare il pagamento
di almeno il venti per cento dell’ammontare dei crediti chirografari. Tale
disposizione deve essere interpretata secondo un criterio “intermedio”,
sostanzialmente ispirato alla disciplina ante 2005 in tema di concordato
per cessione dei beni, secondo cui la valutazione del giudice volta a
verificare la sufficienza dei beni offerti ad assicurare il soddisfacimento dei
crediti nella misura prevista dovrà essere fondata su elementi seri e concreti
idonei a determinare la fondata opinione, intesa come “quasi certezza”, che secondo
l’id quod plerumque accidit la liquidazione dei beni stessi fornirà i
mezzi necessari al detto soddisfacimento (conf. Cass. n. 3527/1989; Cass. n.
2809/1988; Cass. n. 3128/1973). L’assunzione di tale criterio interpretativo
incide necessariamente anche sul contenuto dell’attestazione, la quale dovrà
fornire elementi oggettivi che consentano di ritenere certo il risultato
prospettato dal debitore.

Principi
espressi nel giudizio avente ad oggetto la presentazione della domanda di
ammissione alla procedura di concordato preventivo promossa da una s.p.a. (nella
quale quest’ultima aveva proposto ai creditori un piano liquidatorio che prevedeva
il pagamento integrale dei crediti in prededuzione e privilegiati e il
pagamento nella misura del 26,47% dei crediti chirografari). Il Tribunale dichiarava
inammissibile la proposta di concordato formulata dalla s.p.a., poiché il piano
proposto veniva giudicato inidoneo ad assicurare il pagamento del 20% dei
crediti chirografari. Sul punto, il Tribunale rilevava le seguenti criticità:
a) con riferimento al compendio immobiliare, la carenza di manifestazione di
interesse con la conseguenza che la relativa vendita sarebbe avvenuta, con ogni
probabilità, con ribassi notevolmente superiori al 20% e, dunque, con
impossibilità a garantire il pagamento ai creditori chirografari nella misura
del 20%; b) l’incertezza in relazione all’acquisto delle rimanenze indicate
dalla società proponente o, comunque, che l’acquisto potesse essere concretizzato
a valori prossimi a quelli indicati dalla proponente; c) l’esistenza di crediti
in relazione ai quali l’incasso risultava incerto nella misura e nei tempi
indicati nella proposta.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 4 marzo 2021 – Giudice designato: Dott. Lorenzo Lentini

A
seguito della sentenza della Corte di Giustizia UE n. C/383-18 dell’11.9.2019,
il diritto del consumatore alla riduzione del costo totale del credito in caso
di rimborso anticipato del finanziamento include tutti i costi a carico del
consumatore. Può ritenersi pertanto superato l’orientamento giurisprudenziale
nazionale che, ai fini della determinazione degli effetti dell’estinzione
anticipata dei rapporti di credito al consumo, distingueva tra costi up-front
e recurring.

Gli
eventuali collaboratori (agenti, mediatori finanziari, promotori, etc.) di cui
l’intermediario si avvalga ai fini dell’offerta fuori sede dei propri prodotti
o servizi non fanno venir meno il rapporto contrattuale diretto con il cliente,
con la conseguenza che sono riconducibili a detto rapporto contrattuale le
commissioni di mediazione pagate ai collaboratori dell’intermediario.

Principi espressi nel giudizio d’appello promosso
dal consumatore nei confronti della società finanziaria avverso la sentenza del
Giudice di Pace, ai fini della restituzione del residuo delle commissioni e del
premio assicurativo pagati a seguito di estinzione anticipata del
finanziamento.

(Massime
a cura di Lorena Fanelli)




Sentenza del 4 marzo 2021 – Giudice designato: Dott. Lorenzo Lentini

L’articolo 16, paragrafo 1, della direttiva 2008/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2008, relativa ai contratti di credito ai consumatori e che abroga la direttiva 87/102/CEE del Consiglio, deve essere interpretato nel senso che il diritto del consumatore alla riduzione del costo totale del credito in caso di rimborso anticipato del credito include tutti i costi posti a carico del consumatore (cfr. Corte di Giustizia UE11.9.2019, C-383/18 ).

I principi sono stati espressi nel giudizio di appello promosso dalla parte mutuataria di un contratto di finanziamento (“cessione del quinto”) avverso la sentenza con cui il Giudice di Pace aveva rigettato la domanda restitutoria svolta dalla medesima nei confronti  dell’intermediario finanziario ai sensi dell’art. 125-sexies T.U.B.

Con il gravame, l’appellante censurava la mancata applicazione della normativa settoriale relativa al rapporto e, in particolare, all’ipotesi di estinzione anticipata, in virtù della quale il cliente-consumatore ha diritto alla restituzione della parte “non maturata” degli oneri corrisposti in sede di conclusione del contratto (“interessi, commissioni, premi assicurativi”).

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 12 febbraio 2021 – Giudice designato: Dott. Raffaele Del Porto

In tema di contratti finanziari speculativi su valute, la mancata attivazione da parte della banca del meccanismo automatico di limitazione del rischio (c.d. di stop loss) in un’ipotesi di repentini cambi di prezzo e di successiva temporanea situazione di mancanza di liquidità nel mercato valutario con conseguente sospensione degli scambi non costituisce una circostanza idonea ad escludere la responsabilità della banca per la perdita subita dai sottoscrittori, costituendo, a contrario, tale circostanza indice della radicale inadeguatezza del sistema predisposto dalla stessa nell’ipotesi di situazioni di mercato, comunque non eccezionali, idonee ad accentuare il rischio cui è esposto il cliente. Ed invero, proprio in tale meccanismo il contratto trova il suo naturale elemento di equilibrio, cosicché deve ritenersi escluso che un meccanismo “che serve a chiudere una posizione al fine di evitare perdite superiori ad una soglia prefissata, prima dell’azzeramento del margine” possa non funzionare “nella situazione in cui il cliente va maggiormente tutelato da repentini cambi di prezzo” (conf. Trib. Milano, sentenza n. 4640/2020). 

Qualora il danno subito dall’investitore sia riconducibile alla mancata attivazione da parte della banca del meccanismo automatico di limitazione del rischio per l’esecuzione di operazioni finanziarie su valute connotate da elevata rischiosità, non trova applicazione l’eccezione ex art. 1225 c.c., trattandosi di un danno prevedibile.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso, nei confronti di una banca, dai sottoscrittori di due contratti del tipo “contract for difference” per la conclusione di operazioni di compravendita a pronti di valuta su un mercato “over the counter”; nella specie, tali contratti  (i) consentivano ai sottoscrittori di effettuare operazioni sul mercato di riferimento a fronte del deposito di un margine di garanzia pari al 2% del valore complessivo degli ordinativi e (ii) prevedevano un meccanismo automatico di limitazione del rischio dell’operazione (c.d. di “stop loss”), consistente in un ordine (automatico) di chiusura dell’operazione al raggiungimento di una perdita pari all’1% della somma destinata a garanzia.

Gli attori, in particolare, lamentavano di aver subito una perdita significativamente superiore rispetto a quanto contrattualmente pattuito a causa della mancata attivazione, da parte della banca, del meccanismo di “stop loss” e chiedevano la condanna della stessa alla restituzione delle somme indebitamente addebitate. 

La banca si costituiva in giudizio concludendo per il rigetto delle domande attoree e, in via subordinata, chiedendo di circoscrivere la condanna al danno risarcibile ex art. 1225 c.c. In particolare, a sostegno del rigetto delle domande attoree, la convenuta precisava che la perdita subita dagli attori fosse riconducibile ad un evento straordinario e improvviso (nella specie, la decisione della Banca Centrale Svizzera di porre fine alla politica di difesa del tasso di cambio con eliminazione del tasso minimo del cambio Euro/Franco svizzero), che avrebbe generato una temporanea situazione di mancanza di liquidità nel mercato degli scambi delle valute, tale per cui la stessa non avrebbe potuto verificare il realizzarsi della condizione di prezzo impostata negli ordini di “stop loss” che, quindi, non si sono attivati per un certo lasso temporale.

(Massime a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza del 5 febbraio 2021 – Presidente: Dott.ssa Alessia Busato – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

In tema di contratto di leasing, il
ricorso al tasso sostitutivo ex art. 117 del d.lgs. 385/1993 trova
applicazione nelle ipotesi, invero eccezionali, in cui non sia assolutamente
determinabile il tasso di interesse del rapporto, situazione che non ricorre
nel caso in cui il corrispettivo del rapporto e le altre condizioni economiche
sono illustrate chiaramente nel frontespizio del contratto.

In tema di contratto di leasing,
sotto il profilo della trasparenza, è sufficiente che il testo del contratto
riporti il “tasso leasing”, mentre il t.a.e.g. va indicato solo se la parte
utilizzatrice gode della disciplina di favore riservata ai consumatori;
inoltre, eventuali difformità tra il tasso di leasing e quello in concreto
praticato non rappresentano vizi idonei a incidere sulla validità del
contratto.

I principi sono stati espressi nel
giudizio di reclamo promosso da una s.r.l., in qualità di utilizzatrice,
avverso l’ordinanza che ha disposto il rilascio dell’immobile alla medesima
concesso in godimento a seguito della risoluzione del contratto di
leasing.

(Massime a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza del 5 febbraio 2021 – Presidente: Dott.ssa Alessia Busato – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

In materia di leasing, il ricorso al tasso sostitutivo ex art. 117 d.lgs. 385/1993 trova applicazione nelle ipotesi, invero eccezionali, in cui non sia assolutamente determinabile il tasso di interesse del rapporto, situazione che non può ritenersi  sussistente qualora il corrispettivo del rapporto e le altre condizioni economiche siano illustrati chiaramente nel frontespizio del contratto.

Sotto il profilo della trasparenza, è sufficiente che il contratto di leasing riporti il “tasso leasing”, in quanto il t.a.e.g. va indicato solo se la parte utilizzatrice gode della disciplina di favore riservata ai consumatori.

I principi sono stati espressi nel giudizio di reclamo promosso dalla parte utilizzatrice di un contratto di leasing immobiliare avverso l’ordinanza che aveva disposto il rilascio dell’immobile alla medesima concesso in godimento a seguito della risoluzione del contratto. 

(Massime a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 4 febbraio 2021 – Presidente: Dott. Donato Pianta – Consigliere estensore: Dott. Giuseppe Magnoli

La presenza in atti della copia di un atto
notarile, anche se non dichiarata conforme, o se sprovvista di idonea
attestazione da parte dell’ufficiale rogante, costituisce di per sé dato più
che sufficiente per inferirne la rituale e regolare formazione. Il che conduce
a ritenere pienamente valido il contratto di compravendita, con conseguente
pari validità dei collegati contratti di locazione finanziaria.

La dichiarazione della concedente di volersi
avvalere dell’effetto risolutivo derivante dalla clausola risolutiva espressa
ha la funzione di rimettere all’interessato la scelta di avvalersi o meno dell’effetto
risolutivo conseguente ai presupposti per la risoluzione, già interamente
verificatisi. Invero, i presupposti per la risoluzione di diritto sono
costituiti dalla presenza della clausola e dalla ricorrenza della situazione di
fatto da essa considerata (e cioè dall’inadempimento nel pagamento del canone),
mentre la dichiarazione di risoluzione, per la funzione sua propria, ben può
essere espressa anche con l’atto introduttivo del giudizio

Principi espressi a seguito del giudizio
di appello promosso dall’utilizzatore di un contratto di leasing immobiliare
avverso la sentenza del tribunale che aveva respinto la sua domanda volta a far
dichiarare la nullità di un contratto e in subordine la mancata risoluzione per
inadempimento dell’utilizzatore.

(Massime
a cura di Lorena Fanelli)




Sentenza del 1° febbraio 2021 – Giudice designato: Dott. Lorenzo Lentini

La
disposizione dell’art. 1815 c.c., secondo la quale, se sono convenuti interessi
usurari la clausola è nulla e non sono dovuti interessi, è applicabile solo al
caso di interessi corrispettivi.

Il
criterio per determinare l’usurarietà del tasso di interesse è quello stabilito
da Cass. SS. UU. n. 19597/2020; pertanto, se il tasso convenuto rispetta detto
criterio, non potrà definirsi usurario, né potranno essere applicati altri
criteri, tra cui il cosiddetto tasso T.E.MO., il quale non dignità giuridica
(conf. Trib. Milano, 6.11.2020), trattandosi di riferimento sconosciuto alla
normativa, sia primaria che regolamentare.

Principi espressi all’esito di due cause, riunite
nel medesimo procedimento, nelle quali l’utilizzatore del contratto di
leasing chiedeva dichiararsi la gratuità del
contratto ai sensi dell’art. 1815 c.c. per usurarietà del tasso di interesse,
mentre il locatore chiedeva dichiararsi la risoluzione del contratto per
inadempimento, in conseguenza del mancato pagamento dei canoni.

(Massima
a cura di Lorena Fanelli)




Sentenza del 28 gennaio 2021 – Giudice designato: Dott.ssa Angelica Castellani

E’ da escludersi l’indeterminatezza delle
condizioni economiche del contratto di leasing immobiliare, laddove il testo negoziale contenga
tutte le specifiche condizioni economiche praticate al rapporto, tra cui, in
particolare: il valore di realizzazione del compendio immobiliare oggetto di leasing, la durata del rapporto, il corrispettivo globale
della locazione finanziaria, il numero, la periodicità, la decorrenza e l’ammontare
dei canoni, il prezzo per l’eventuale acquisto alla scadenza del contratto, il
parametro di indicizzazione, il tasso degli interessi di mora, il tasso interno
di attualizzazione e le singole spese.

L’art. 3 della delibera CICR 9.2.2000,
in attuazione della delega conferitale dal legislatore del t.u.b., prevede che “nelle
operazioni di finanziamento per le quali è previsto che il rimborso del
prestito avvenga mediante pagamento di rate con scadenze temporali predefinite,
in caso di inadempimento del debitore l’importo complessivamente dovuto alla
scadenza di ciascuna rata può, se contrattualmente stabilito, produrre
interessi a decorrere dalla data di scadenza e sino al momento del pagamento”;
pertanto, ricorrendo tali presupposti, è da escludersi l’anatocismo in caso di
applicazione dell’interesse moratorio ad una rata già comprensiva di interessi
e altri oneri.

La pretesa di conseguire, per il tramite della
declaratoria di nullità del saggio dell’interesse moratorio, l’accertamento
della gratuità dell’intero rapporto è infondata, posto che, in caso di
pattuizione di interessi moratori usurari, l’effetto invalidante di cui al
secondo comma dell’art. 1815 c.c. rimarrebbe circoscritto a detto onere e non potrebbe
estendersi alla pattuizione relativa all’interesse corrispettivo.

Principi espressi all’esito del giudizio
promosso dal concedente al fine di ottenere la risoluzione del contratto di
leasing per inadempimento
dell’utilizzatore.

(Massime
a cura di Lorena Fanelli)