Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 28 giugno 2023, n. 1112 – contratti bancari, prova scritta del credito, contratto monofirma, fideiussione, nullità parziale per violazione della normativa antitrust

Qualora una banca intenda far valere in giudizio il credito derivante da un rapporto di conto corrente, deve provare l’andamento del medesimo dall’inizio e per l’intera durata del suo svolgimento, senza interruzioni (cfr. Cass. n. 23856/2021). Gli estratti conto non costituiscono tuttavia l’unico mezzo di cui la banca possa utilmente avvalersi ai fini della dimostrazione delle operazioni effettuate sul conto corrente e, quindi, del suo credito nei confronti del correntista. Pertanto, in assenza di limitazioni al riguardo, è possibile desumere la relativa prova dalle schede dei movimenti ovvero da altri atti o documenti idonei ad attestare il compimento dei negozi da cui derivano, nonché il titolo, la natura e l’importo delle operazioni, oltre che l’annotazione in conto delle relative partite (cfr. Cass. n. 11543/2019; Cass. n. 2435/2020; Cass. n. 1077/2021; Cass. n. 38976/2021 e Cass. n. 1538/2022). Va invece esclusa la possibilità per la banca di provare l’ammontare del proprio credito mediante la produzione, ai sensi dell’art. 2710 c.c., dell’estratto notarile delle sue scritture contabili o dell’estratto di saldaconto, dai quali risulti il mero saldo del conto (cfr. Cass. n. 11543/2019).

Ai fini della prova del credito della banca, l’assenza degli estratti conto per il periodo iniziale del rapporto non è astrattamente preclusiva di un’indagine contabile per il periodo successivo, potendo questa attestarsi sulla base di riferimento più sfavorevole per il creditore istante quale, a titolo esemplificativo, quella di un calcolo che preveda l’inesistenza di un saldo debitore alla data dell’estratto conto iniziale. Pertanto, nell’ipotesi in cui la banca creditrice non abbia prodotto il primo estratto conto, si ritiene corretto effettuare il calcolo dei rapporti di dare e avere tra le parti partendo dal “saldo zero” (cfr. Cass. n. 24153/2017; Cass. n. 13258/2017).

La mancanza della firma della banca sui contratti bancari che, ai sensi dell’art. 117, 1° co., TUB, devono essere redatti per iscritto e devono essere consegnati al cliente è priva di rilievo ai fini della loro validità, potendosi applicare al riguardo il principio espresso in materia di contratti di intermediazione finanziaria, secondo il quale ai fini della validità del contratto è sufficiente che questo sia redatto per iscritto, che sia sottoscritto dal cliente e che a quest’ultimo ne sia consegnata una copia, potendo desumersi il consenso dell’istituto di credito o dell’intermediario dai comportamenti concludenti dallo stesso tenuti (cfr. Cass., S.U., n. 898/2018; Cass., S.U., n. 1653/2018; Cass. n. 19298/2022; Cass. n. 8124/2022; Cass. n. 9187/2021; Cass. n. 14646/2018; Cass. n. 16270/2018; Cass. n. 14243/2018). 

In caso di lamentata nullità della fideiussione per violazione della normativa antitrust, vale il principio secondo il quale i contratti di fideiussione “a valle” di intese dichiarate parzialmente nulle dall’Autorità Garante, in relazione alle sole clausole contrastanti con gli artt. 2, 2° co., lett. a), l. n. 287/1990 e 101 TFUE, sono parzialmente nulli, ai sensi degli artt. 2, 3° co., della legge citata e dell’art. 1419 c.c., limitatamente alle clausole che riproducono quelle dello schema unilaterale costituente l’intesa vietata, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti (Cass., S.U., n. 41994/2021; Cass., n. 15146/2023; Cass., n. 15275/2023; Cass., n. 11333/2023; Cass., n. 9071/2023).

Princìpi espressi in grado d’appello nell’ambito di una controversia concernente l’opposizione al decreto ingiuntivo con il quale era stato ingiunto agli opponenti il pagamento, in favore della banca opposta, del saldo debitore relativo a due rapporti di conto corrente da questa intrattenuti con uno degli opponenti e garantiti dalla fideiussione prestata dall’altro.

(Massime a cura di Edoardo Compagnoni)




Corte di Appello di Brescia, sentenza del 26 giugno 2023, n. 1079 – interessi usurari, usurarietà interessi moratori

La disciplina antiusura si applica agli interessi moratori essendo la stessa finalizzata a sanzionare non solo la pattuizione di interessi eccessivi convenuti al momento della stipula del contratto quale corrispettivo per la concessione del denaro, ma anche la promessa di qualsiasi somma usuraria dovuta in relazione al contratto. Il confronto da effettuare ai fini della verifica del rispetto della disciplina antiusura va effettuato tra dati omogenei ed in conformità alle indicazioni espresse nelle c.d. “Istruzioni della Banca d’Italia” la quali sono recepite nei decreti ministeriali attuativi al fine di far sì che il conteggio dei tassi effettivi globali medi (c.d. TEG) sia effettuato con i parametri e le modalità ivi stabilite. Con riferimento alla valutazione dell’usurarietà del tasso di mora, il decreto ministeriale di rilevazione dei tassi effettivi globali medi costituisce parametro “privilegiato” per la sua valutazione. In conseguenza dell’accertamento dell’usurarietà degli interessi moratori, ai sensi dell’art. 1815, comma 2, c.c., non saranno dovuti gli interessi moratori pattuiti, ferma restando, ai sensi dell’art. 1224, comma 1, c.c., la debenza degli interessi corrispettivi lecitamente convenuti, in relazione ai quali, dunque, nessuna pretesta restitutoria può essere giustificata e, pertanto, trovare accoglimento.

In tema di interessi convenzionali, la disciplina antiusura si applica sia agli interessi corrispettivi (e ai costi posti a carico del debitore per il caso di regolare adempimento del contratto) sia agli interessi moratori (e ai costi posti a carico del medesimo debitore per il caso, e come conseguenza dell’inadempimento), ma non consente di utilizzare il cd. criterio della sommatoria tra tasso corrispettivo e tasso di mora, poiché gli interessi corrispettivi e quelli moratori si fondano su presupposti diversi e antitetici, essendo i primi previsti per il caso di (e fino al) regolare adempimento del contratto e i secondi per il caso di (e in conseguenza dell’) inadempimento del contratto (in merito si segnala anche Cass. 05/05/2022, n. 14214; Cass. 7352/2022; Cass. 31615/2021; S.U. 19597/2020 cit.; Cass. 26286/2019). Inoltre, non è possibile procedere a sommatoria tra il tasso di mora e gli ulteriori costi e spese allo stesso contratto di mutuo, in considerazione del fatto che tali voci di costo – le quali devono essere computate ai fini della verifica dell’eventuale superamento della soglia usura ad opera degli interessi corrispettivi – non devono invece cumularsi al tasso di mora poiché lo stesso, a seguito dell’inadempimento del debitore, assume valore assorbente rispetto a tutte le pretese creditorie.

Qualora l’interesse corrispettivo sia lecito, e solo il calcolo degli interessi moratori applicati comporti il superamento della soglia usuraria, ne deriva che solo questi ultimi sono illeciti e preclusi, fermo restando che, ai sensi di quanto previsto dall’art. 1224 c.c., comma 1, dovranno essere in ogni caso applicati gli interessi corrispettivi nella misura in cui siano stati lecitamente pattuiti. Ciò in considerazione del fatto che, diversamente, ove si prevedesse la gratuità del mutuo in tale ipotesi, si finirebbe per premiare il debitore inadempiente rispetto a colui che adempia ai suoi obblighi con puntualità, determinando un pregiudizio generale all’intero ordinamento sezionale del credito (cui si assegna una funzione di interesse pubblico), nonché allo stesso principio generale di buona fede, di cui all’art. 1375 c.c.

Principi espressi nell’ambito del giudizio di appello finalizzato, inter alia, a far dichiarare la nullità del contratto di mutuo fondiario per applicazione di interessi usurari e, per l’effetto, a condannare l’istituto di credito alla rifusione di quanto percepito indebitamente dal mutuatario e al risarcimento del danno.

(Massime a cura di Giorgio Peli)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 12 giugno 2023 – s.s., revoca dell’amministratore per giusta causa




Tribunale di Brescia, sentenza del 1° giugno 2023, n. 1350 – simulazione

La divergenza tra dichiarazione-titolo e contenuto-effetti determinata dalla simulazione si realizza mediante un’unitaria fattispecie negoziale, che non prevede un distinto accordo intermedio inteso a collegare il negozio simulato a quello dissimulato. La controdichiarazione, dunque, va espunta – in quanto priva di rilevanza, tanto sul piano strutturale che su quello funzionale – dagli elementi costitutivi dell’accordo simulatorio, trattandosi di null’altro che di un documento che riveste esclusivamente funzione probatoria, meramente ricognitiva e rappresentativa del preesistente accordo simulatorio (cfr. Cass. n. 24950/2020).

Principi espressi nell’ambito del giudizio promosso dai soci di una società a responsabilità limitata al fine di ottenere: i) il pagamento del residuo prezzo di vendita del 40% delle partecipazioni nella s.r.l.; ii) la dichiarazione di inefficacia ex art. 2901 c.c. dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale; iii) la risoluzione dell’accordo fiduciario per inadempimento nonché il risarcimento dei danni.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Tribunale di Brescia, sentenza del 29 maggio 2023, n. 1316 – appalti pubblici, modifica del contratto, jus variandi

La ratio dell’istituto dello jus variandi in materia di appalti pubblici è quella di consentire la soddisfazione del preminente interesse pubblico di adattamento del contratto concluso con la pubblica amministrazione alle “necessità” sopravvenute nel corso dell’esecuzione dell’opera o del servizio, senza che ciò obblighi a nuova procedura di affidamento.

Tale esigenza è contemperata dal divieto per la P.A. di imporre al contraente una variazione eccessiva (in aumento o diminuzione) degli obblighi contrattuali rispetto all’originaria previsione e dalla necessità che tale variazione sia ancorata a oggettive esigenze e aventi carattere imprevedibile e sopravvenute successivamente, nel corso dell’esecuzione del contratto.

Il diritto di modifica, che opera entro la misura massima del quinto (c.d. quinto d’obbligo) delle prestazioni contrattuali (massimale), attiene dunque alla fase esecutiva del rapporto e non a quella precedente, di formazione del vicolo contrattuale.

Ne consegue che la trasmissione dell’ordine di fornitura, avente ad oggetto il massimale contrattuale (nell’osservanza della cornice regolamentare di riferimento), rappresenta esclusivamente il momento di perfezionamento del contratto ma non integra ed esaurisce il diritto di modifica delle prestazioni contrattuali afferente alla successiva fase esecutiva del rapporto.

La prerogativa dello jus variandi non può dunque essere legittimamente esercitata per rimediare a  originari errori, come sono ad esempio gli errori di una stazione appaltante in sede di valutazione del fabbisogno o per eludere gli obblighi discendenti dal rispetto delle procedure ad evidenza pubblica attraverso un artificioso frazionamento del contenuto delle prestazioni (nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto la stazione appaltante, contrattualmente inadempiente nei confronti della società appaltatrice, avendo esercitato lo jus variandi previsto dall’art. 106, comma 12, Codice degli Appalti, in assenza dei relativi presupposti e avendo pacificamente impedito, con la propria condotta, l’integrale esecuzione del contratto, rifiutando di ricevere l’ultima parte di vaccini acquistati e omettendo di pagarne il prezzo).

Principi espressi nell’ambito della controversia tra un soggetto appaltatore e appaltante, con riguardo all’esercizio dello jus variandi in materia di appalti pubblici. In particolare, l’appaltante è stato ritenuto contrattualmente inadempiente, avendo esercitato lo jus variandi in assenza dei relativi presupposti e avendo pacificamente impedito, con la propria condotta, l’integrale esecuzione del contratto, rifiutando di ricevere l’ultima parte di vaccini acquistati e omettendo di pagarne il prezzo.

(Massime a cura di Carola Passi)




Tribunale di Brescia, sentenza del 29 maggio 2023, n. 1322 – azione di responsabilità ex art. 146 l. fall. nei confronti degli amministratori, conflitto di interessi nella conclusione di un contratto, responsabilità per abuso di direzione e coordinamento

Il contratto concluso in conflitto di interessi integra gli estremi della responsabilità di cui all’art. 2476 c.c. qualora l’amministratore abbia fatto prevalere un interesse extrasociale incompatibile con quello della società e per essa pregiudizievole, alla stregua di una valutazione condotta secondo un giudizio ex ante che tenga conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta analoga a quella adottata, nonché della diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione (cfr. Cass. n. 7279/2023). In particolare, in relazione all’acquisto, da parte di una società consortile, di crediti sostanzialmente inesigibili vantati dalle consorziate nei confronti di una società insolvente, agisce in conflitto d’interessi l’amministratore che: (i) sia nel contempo gestore anche delle altre società (cedenti e debitrice ceduta) coinvolte nell’operazione, (ii) acquisti tali crediti per soddisfare l’interesse delle cedenti a sottrarsi alle conseguenze dell’insolvenza della debitrice, traslando tale pregiudizio sulla società consortile cessionaria e consentendo nel contempo alle cedenti medesime di estinguere i propri debiti verso quest’ultima grazie alla datio in solutum in tal modo compiuta.

La responsabilità ex art. 2497 c.c. per abuso di direzione e coordinamento riguarda il fenomeno dei gruppi societari, caratterizzati dalla previsione di meccanismi quantomeno negoziali che consentano alla controllante di indirizzare le scelte gestionali della controllata. Inoltre, tale fenomeno presuppone l’esistenza di un’attività di governance della società proveniente da un soggetto estraneo ad essa, ossia diverso dai suoi organi interni. Infine, sul piano oggettivo, richiede l’effettività, la stabilità e la sistematicità di un’influenza sull’altrui gestione, in un contesto di coordinamento gestionale quantomeno duraturo, in cui l’aggregazione delle varie società controllate risponda ad un disegno organizzativo di articolazione imprenditoriale. 

I princìpi esposti sono stati espressi in relazione ad una società consortile, i cui amministratori svolgevano le medesime funzioni gestorie nelle due società consorziate, nonché in una terza società debitrice di queste ultime. Gli amministratori sono stati ritenuti responsabili, ai sensi degli artt. 146 l. fall. e 2476 c.c., per aver posto in essere un’operazione di cessione di crediti in conflitto d’interessi. Nello specifico, gli amministratori avevano acquistato per conto della società consortile – come datio in solutum a soddisfazione di propri crediti – alcuni crediti che le consorziate vantavano nei confronti della terza società. La prova del conflitto di interessi è stata ritenuta raggiunta tenuto conto dell’identità soggettiva degli amministratori della società cessionaria, delle società cedenti nonché della società debitrice ceduta. Pertanto, la cessione dei crediti è stata giudicata illecita in quanto funzionale al soddisfacimento dell’interesse delle consorziate cedenti a sottrarsi alle conseguenze dell’insolvenza della debitrice ceduta, avendo arrecato, al contempo, un pregiudizio ingiustificato alla cessionaria attraverso la datio in solutum

(Massime a cura di Leonardo Esposito)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 22 maggio 2023, n. 863 – concordato preventivo, anticipazione ricevute bancarie, compensazione, artt. 56 e 169 l. fall.

In tema di anticipazione su ricevute bancarie regolata in conto corrente, qualora le relative operazioni siano compiute in un momento precedente all’ammissione del correntista a concordato preventivo e  questo, successivamente all’ammissione alla procedura, agisca per la restituzione dell’importo delle ricevute incassate dalla banca, è necessario accertare se la convenzione relativa all’anticipazione contenga una clausola attributiva del diritto della banca di “incamerare” le somme riscosse (c.d. patto di compensazione o patto di annotazione ed elisione nel conto di partite di segno opposto), perché soltanto in presenza di una simile convenzione la banca ha diritto a compensare il suo debito per il versamento al cliente delle somme incassate con il proprio credito, verso lo stesso cliente, conseguente ad operazioni creditizie regolate sul medesimo conto corrente, a nulla rilevando che detto credito sia anteriore alla ammissione alla procedura concorsuale ed il correlativo debito, invece, posteriore, poiché in siffatta ipotesi non può ritenersi operante il principio della cristallizzazione dei crediti (cfr. Cass. n. 17999/2011 e Cass. n. 11523/2020). Infatti in tal caso il fatto genetico di entrambi i crediti può essere ravvisato nell’operazione complessivamente posta in essere dalle parti in epoca anteriore alla presentazione della domanda di concordato preventivo da parte del correntista, attraverso la stipulazione del contratto di anticipazione bancaria e del collegato mandato all’incasso con patto di compensazione.

Principio espresso, in grado d’appello,  nell’ambito di una controversia concernente la compensazione fra il credito vantato dalla banca per il rimborso dell’anticipazione concessa alla società correntista successivamente ammessa al concordato preventivo e il debito della prima nei confronti della seconda per la restituzione degli importi riscossi, in epoca successiva alla presentazione della domanda di ammissione al concordato preventivo, in esecuzione del mandato all’incasso conferitole dalla cliente.

(Massima a cura di Giovanni Maria Fumarola)




Tribunale di Brescia, sentenza del 16 maggio 2023, n. 1174 – s.r.l., dimissioni dell’amministratore, revoca dell’amministratore, assenza di giusta causa, risarcimento del danno

L’atto di dimissione dall’incarico di amministratore di società di capitali, poiché suscettibile di iscrizione nel registro delle imprese, deve assumere carattere rituale; la volontà di rinunciare all’incarico, dunque, deve essere espressa in atto scritto debitamente trasmesso alla società, ovvero risultare da una dichiarazione contenuta in un verbale dell’assemblea dei soci o del consiglio di amministrazione. La rinuncia non può essere desunta per fatti concludenti, ovvero ancora da dichiarazioni verbali da provarsi per testimoni.  

Nella società a responsabilità limitata, se l’amministratore è nominato a tempo indeterminato, in caso di revoca deliberata dall’assemblea in assenza di giusta causa, ai fini della sussistenza di un diritto al risarcimento del danno non si applica l’art. 2383, comma terzo, c.c. (non richiamato direttamente, del resto, dall’art. 2475 c.c.), ma l’art. 1725, comma secondo, c.c., sicché la società deve risarcire il danno all’amministratore revocato solo in mancanza di un congruo preavviso. 

Diversamente opinando, la società non potrebbe revocare l’amministratore nominato a tempo indeterminato in assenza di giusta causa senza l’insorgere di un contestuale obbligo di risarcimento del danno, in spregio al carattere fiduciario che contraddistingue tale incarico (cfr. Cass. n. 9482/1999). In mancanza di un’espressa norma in materia di società a responsabilità limitata che disciplini la fattispecie, bisogna dunque ricorrere – in virtù del condiviso carattere fiduciario dei due incarichi – all’applicazione analogica della disciplina in tema di risarcimento del danno conseguente alla revoca del mandato a tempo indeterminato (cfr. Cass. n. 9482/1999 e Cass. n. 3312/2000). 

Princìpi espressi nel contesto di un’azione di accertamento dell’illegittimità della delibera di revoca di un amministratore di società a responsabilità limitata nominato a tempo indeterminato e di condanna al risarcimento del danno per mancanza di giusta causa ai sensi dell’art. 2383, comma terzo, c.c. Il Tribunale ha accolto solo parzialmente la domanda di condanna, individuando però, quale fondamento dell’obbligo di risarcimento, non l’asserita assenza di una giusta causa di revoca ai sensi dell’art. 2383, comma terzo, c.c., bensì l’improvvisa interruzione del rapporto conseguente alla mancanza di un congruo termine di preavviso ex art. 1725, comma secondo, c.c. 

(Massime a cura di Giovanni Gitti) 




Tribunale di Brescia, sentenza del 10 maggio 2023, n. 1239 – società cooperativa sociale onlus, clausola statutaria di esclusione o decadenza del socio, preventiva contestazione degli addebiti

La trasmissione della lettera di contestazione (che ha dato avvio al procedimento di esclusione) nonché della delibera di esclusione del socio ad un indirizzo PEC di altra società di cui il socio escluso è amministratore e legale rappresentante, nonostante tale domicilio sia diverso da quello indicato nel libro soci, non configura un “vizio insanabile” del procedimento di contestazione e (successiva) esclusione del socio, laddove sia pacifico che il socio escluso abbia ricevuto a tale indirizzo la delibera di esclusione (avverso la quale ha proposto tempestiva opposizione), dovendosi presumere, in ragione di tale circostanza e dell’incarico ricoperto dal socio nella società presso la quale è stato effettuato l’invio, l’esistenza di uno stretto collegamento tra la persona del socio escluso e il luogo di notificazione di entrambe le comunicazioni. L’invio della lettera di contestazione a tale diverso indirizzo costituisce quindi una mera irregolarità che non invalida il procedimento di esclusione, in quanto il socio escluso poteva contestare la fondatezza degli addebiti formulati in sede di opposizione all’esclusione.

In una società cooperativa sociale onlus, qualora il regolamento interno abbia qualificato il socio volontario come colui che “presta” a favore della cooperativa “la propria attività gratuitamente, esclusivamente per fini di solidarietà”, non sembra assumere concreta pregnanza che tale attività coincida con il servizio offerto all’esterno dalla cooperativa (la cui cessazione, ai sensi di statuto, legittimerebbe l’esclusione), con altra attività “solidaristica” o con un’attività di carattere amministrativo o professionale resa gratuitamente dal socio a favore della cooperativa stessa e funzionale a consentire alla cooperativa di poter operare in vista del raggiungimento dei suoi scopi sociali (la cui cessazione, ai sensi di statuto, legittimerebbe la declaratoria di decadenza dalla qualità di socio). Ne emerge una certa fungibilità degli istituti dell’esclusione e della decadenza così come delineati nello statuto della cooperativa, analoga essendo la causa di cessazione del rapporto sociale, medesimo l’organo preposto all’accertamento del suo verificarsi e all’assunzione della relativa delibera, medesime, infine, le conseguenze. Tenuto conto che, nel caso concreto, la procedura di esclusione salvaguarda in maniera completa i diritti del socio, non emerge alcun sostanziale interesse del socio che si oppone all’esclusione a pretendere una qualificazione della propria situazione in termini di decadenza piuttosto che di esclusione, con conseguente irrilevanza di quanto sul punto eccepito dal socio opponente.

Princìpi espressi nell’ambito di un giudizio di opposizione alla delibera di esclusione promosso da un socio di una cooperativa sociale onlus deducendo, in primo luogo, di non aver ricevuto la lettera di contestazione che aveva dato avvio al procedimento di esclusione, in quanto inviata non al domicilio indicato nel libro soci ma all’indirizzo PEC di altra società di cui lo stesso socio escluso era amministratore e legale rappresentante; e, in secondo luogo, che la cessazione dell’attività di amministratore (circostanza pacifica e non contestata) non rientrava in alcuna delle ipotesi di esclusione previste dallo statuto ma al più in una ipotesi di decadenza dalla qualità di socio non invocata nella delibera di esclusione.

(Massime a cura di Filippo Casini)




Tribunale di Brescia, sentenza dell’8 maggio 2023, n. 1099 – invalidità deliberazione assembleare di approvazione del bilancio, funzione informativa del bilancio, diritto all’informazione del socio, carenza di informazioni

In materia di invalidità delle deliberazioni assembleari di s.p.a., il socio che impugna una deliberazione di approvazione del bilancio ha l’onere di: i) indicare con esattezza le singole poste asseritamente iscritte in bilancio in violazione delle norme codicistiche e dei principi contabili; ii) enunciare chiaramente in che cosa consistano i vizi denunciati. 

In relazione alla funzione informativa del bilancio e al correlato diritto all’informazione, stabiliti dall’art. 2423, comma 3, c.c., gli amministratori sono obbligati a  soddisfare l’interesse  del socio a una conoscenza concreta dei reali elementi contabili recati dal bilancio ed a rispondere alla sua domanda di informazione che sia pertinente e non trovi ostacolo in oggettive esigenze di riservatezza, in modo da consentire l’espressione di un voto consapevole in assemblea, basato su un’adeguata conoscenza dei dati rappresentati contabilmente. 

La carenza d’informazione sul bilancio rileva quale vizio di invalidità della relativa deliberazione assembleare di approvazione laddove il socio si sia astenuto o abbia manifestato un voto difforme da quello che avrebbe esercitato qualora fosse stato correttamente messo a conoscenza delle informazioni omesse. In tal caso, sul socio che lamenti una carenza informativa grava l’onere di specificare la tipologia di informazione omessa, la cui conoscenza è essenziale ai fini dell’esercizio consapevole del diritto di voto.

I principi sono stati espressi nei giudizi di impugnazione (poi riuniti) promossi dai soci di minoranza di una società per azioni avverso le deliberazioni assembleari di approvazione di due bilanci di detta società, sulla base dell’asserita erroneità delle rappresentazioni contabili offerte dagli amministratori, dalla cui rettifica sarebbe emersa una perdita.

(Massime a cura di Simona Becchetti)