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Sentenza del 25 febbraio 2022 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

In materia di rapporti di leasing, sulla scorta dei principi generali applicabili alle fattispecie di responsabilità contrattuale, in capo al creditore incombe l’onere di allegare il titolo e l’inadempimento, mentre sul debitore grava l’onere di provare il corretto adempimento, ovverosia il fatto estintivo dell’obbligazione. Pertanto, il predetto onere non può ritenersi assolto mediante un mero rinvio alla perizia di parte, non essendo il giudice tenuto a ricercare all’interno della documentazione versata in atti quegli elementi in fatto che spetta unicamente alla parte interessata introdurre in giudizio, ritualmente e tempestivamente, all’interno dell’atto difensivo (conf. Trib. Brescia, ord. 10.2.2020), né invero a effettuare autonomamente una “ricongiunzione” dei pagamenti, cumulativamente versati in atti, con i debiti risultanti dall’estratto conto avversario.

Nel caso in cui il contratto di leasing ponga a carico dell’utilizzatore gli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria dell’immobile – utilizzatore che viene espressamente costituito custode del bene – egli deve sopportare eventuali esborsi conseguenza di atti vandalici di terzi.

La normativa speciale prevista dalla L. 124/2017 subordina l’accredito al cliente del valore di realizzo del bene alla previa restituzione e al successivo collocamento sul mercato. Invero, il bene può essere immesso sul mercato soltanto dopo la restituzione e il corrispettivo ricavato dalla vendita va imputato a deconto del credito della concedente nel momento in cui la stessa faccia valere in giudizio il diritto al risarcimento del danno (conf. Trib. Brescia, 3 gennaio 2022). Resta, tuttavia, impregiudicata la facoltà per l’utilizzatrice, nell’ipotesi in cui il valore residuo dell’immobile superi l’importo spettante alla concedente in forza della clausola penale, di agire in un autonomo giudizio ai fini della restituzione della differenza (conf. Trib. Brescia, 9.7.2021).

Nel caso di scostamento tra tasso indicato in contratto e tasso leasing effettivo, l’art. 117 d.lgs. n. 385/983 si applica nel caso di assoluta mancanza o indeterminatezza del tasso di interesse, non già nelle ipotesi di erronea indicazione del tasso, laddove l’unico rimedio esperibile dal cliente è di tipo risarcitorio (conf. Trib. Brescia, 18.1.2021). Peraltro, in materia di leasing l’oggetto del contratto è desumibile dall’indicazione del numero e dell’importo unitario dei canoni, della durata del rapporto, dell’importo delle spese, del tasso di interesse di mora e del prezzo di riscatto dell’immobile. Nell’ipotesi in cui non sia specificamente contestato che gli addebiti effettuati dalla concedente nel corso del rapporto siano stati coerenti con le summenzionate previsioni contrattuali, non può configurarsi alcuna fattispecie di indebito. Infatti, anche a voler per assurdo ipotizzare la veridicità del “T.E.G.” o rectius“T.A.N.” – tipologia di tasso invero sconosciuta alla normativa in tema di leasing, che prevede l’indicazione del solo tasso che per il quale si verifica l’uguaglianza fra costo di acquisto del bene locato (al netto di imposte) e valore attuale dei canoni e del prezzo dell’opzione di acquisto finale (al netto di imposte) contrattualmente previsti – l’unico rimedio esperibile sarebbe di tipo risarcitorio, trattandosi di voce esposta a fini di trasparenza, con la conseguenza che la pretesa di ricalcolo del piano di ammortamento sulla base di tale tasso alternativo non troverebbe fondamento alcuno (conf. Trib. Brescia, 31 gennaio 2022).

I principi sono stati espressi nel giudizio di opposizione promosso da una s.r.l. avverso il decreto ingiuntivo emesso in favore di una banca a titolo di canoni scaduti e interessi di mora derivanti dal contratto di leasing immobiliare, risolto dalla concedente, giusta clausola risolutiva espressa.

In particolare, l’opponente eccepiva: i) il deposito del ricorso monitorio in periodo feriale; ii) la non conformità agli originali telematici del ricorso e del decreto ingiuntivo oggetto di notifica; iii) la mancata allegazione della procura al ricorso monitorio; iv) il mancato svolgimento della procedura di mediazione obbligatoria; v) l’imputabilità del mancato pagamento dei canoni fatti valere da controparte agli atti vandalici che avevano reso l’immobile inutilizzabile per diversi anni, costringendo l’utilizzatrice a sopportare i costi di ripristino; vi) il rifiuto da parte della concedente, contrario a buona fede, di rinegoziare i termini contrattuali; vii) la mancata cooperazione da parte della concedente ai fini dell’ottenimento dell’indennizzo assicurativo; viii) la natura traslativa del contratto di leasing, con conseguente applicabilità dell’art. 1526 c.c.; ix) l’insussistenza del credito, tenuto conto del diritto dell’utilizzatrice di vedersi riconosciuto il valore di realizzo dell’immobile; x) la nullità della clausola che disciplina la corresponsione di interessi, stante la pattuizione di interessi di mora usurari. 

Con la prima memoria ex art. 183, sesto comma, c.p.c. l’opponente formulava ulteriori motivi di opposizione, sulla scorta delle risultanze di una perizia di parte, ovverosia: a) l’applicazione di un tasso superiore al tasso indicato contrattualmente, il che all’evidenza comporta la necessità di rideterminare il debito per rate scadute azionato in sede monitoria; b) l’indeterminatezza contrattuale della previsione dei tassi e delle altre condizioni contrattuali ai sensi dell’art. 117 TUB, con conseguente ricalcolo del piano di ammortamento al saggio d’interesse sostitutivo; c) l’incertezza sulla data di stipula del contratto, rilevante ai fini della determinazione del tasso soglia; d) il superamento del tasso soglia; e) l’incertezza del credito azionato in via monitoria, che non tiene conto di pagamenti parziali effettuati dall’opponente.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 23 febbraio 2022 – Presidente: dott. Donato Pianta – Giudice relatore: dott.ssa Annamaria Laneri

L’indice sintetico di costo, o indicatore sintetico di costo (ISC), detto anche tasso annuo effettivo globale (TAEG) è l’indicatore di tasso di interesse di un’operazione di finanziamento. Esso rappresenta il costo effettivo dell’operazione, espresso in percentuale, che il cliente deve alla società che ha erogato il prestito o il finanziamento; in altri termini, il TAEG racchiude, contemporaneamente, il tasso d’interesse in regime di capitalizzazione composta e tutte le spese accessorie della pratica, con la conseguenza che avendo l’ISC/TAEG lo scopo di consentire al cliente di conoscere il costo totale effettivo del credito che gli viene erogato mediante il mutuo, la sua inesatta indicazione non comporta, di per sé, una maggiore onerosità del finanziamento, quanto piuttosto l’erronea rappresentazione del suo costo complessivo, pur sempre rilevabile dalla sommatoria degli oneri e delle singole voci di costo elencati nel contratto; pertanto, stante il suo valore sintetico, l’ISC non rientra nel novero dei tassi, prezzi e altre condizioni la cui erronea indicazione è sanzionata dall’art. 117 TUB mediante la sostituzione dei tassi d’interesse normativamente stabiliti a quelli pattuiti (conf. Cass. n. 39169/2021). 

I principi sono stati espressi nel giudizio di appello promosso da una banca contro la sentenza di primo grado che rideterminava il piano di ammortamento del contratto di mutuo quantificando l’importo che gli attori avevano pagato in eccesso a titolo di interessi sul predetto mutuo.

In particolare l’appellante riteneva prive di pregio le contestazioni, mosse dai mutuatari nei confronti degli istituti di credito, volte ad ottenere la declaratoria di nullità della clausola determinativa dell’ISC a seguito della sua inesatta indicazione nei contratti di mutuo e di difformità tra ISC pattuito e TEG applicato e chiedeva, quindi, la revoca della condanna a versare l’importo risultante dal ricalcolo del piano di ammortamento effettuato previa applicazione dei tassi sostitutivi ex art. 117 TUB, settimo comma.

Posto che l’ISC/TAEG ha funzione meramente informativa finalizzata a porre il cliente nella condizione di conoscere il costo totale ed effettivo del finanziamento prima di accedervi, e non è, invece, un requisito di validità del contratto, la difformità tra ISC indicato in contratto ed ISC effettivamente applicato, non comportando di per sé una maggiore onerosità del finanziamento, secondo la Corte d’Appello non determinava la nullità parziale del contratto e non portava all’applicazione del tasso sostitutivo ex art. 117, settimo comma, TUB, laddove, i tassi e gli altri oneri economici erano stati dettagliatamente pattuiti per iscritto in altre specifiche clausole, permettendo alla parte mutuataria di individuare comunque l’impegno economico effettivo derivante dall’operazione di finanziamento, attraverso la sommatoria degli oneri e delle singole voci di costo indicati in contratto.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Ordinanza del 21 febbraio 2022 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

La nullità determinata dalla genericità e dalla indeterminatezza della causa petendi o del petitum ex art. 164, quarto comma, c.p.c. travolge l’intero atto, seppur vi siano delle porzioni della domanda non affette da tale vizio (conf. Trib. Milano, 2.5.2017). Tuttavia, il termine concesso dal giudice per la rinnovazione della citazione nulla ex art. 164 c.p.c. ha natura perentoria, sicché, in caso di mancata rinnovazione, il provvedimento di cancellazione della causa dal ruolo emesso dal giudice ex art. 307, terzo comma, c.p.c., comporta la contemporanea e automatica estinzione del processo, anche in difetto di eccezione di parte (conf. Cass. n. 32207/2021).

Sulla base di tali principi, nella vicenda in questione, rilevata la persistente incertezza in ordine al petitum e alla causa petendidelle domande svolte – favorita anche dalla veste formale dell’atto di citazione, che non risultava strutturato in paragrafi distinti a seconda della domanda svolta – il Giudice dichiarava estinto il giudizio, disponendo la cancellazione della causa dal ruolo.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 21 febbraio 2022, n. 415 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Angelica Castellani

L’amministratore di una società di
capitali, con l’accettazione della carica, acquisisce, di regola, il diritto ad
essere compensato per l’attività svolta in esecuzione dell’incarico
affidatogli. Tale diritto è, nelle società per azioni, espressamente sancito
dagli artt. 2389 e 2364, n. 3), c.c., mentre per quanto concerne le società a
responsabilità limitata, nonostante l’assenza di analoghe disposizioni
espresse, esso viene pacificamente ricavato dall’applicazione analogica degli artt.
1709 e 2389 c.c.

Secondo i principi del sistema
vigente, quello di amministratore di società è un contratto che la legge
presume oneroso (cfr. la disposizione dell’art. 1709 c.c., dettata con
riferimento allo schema generale dell’agire gestorio e senz’altro applicabile
anche alla materia societaria, come pure posta a presupposto delle previsioni
dell’art. 2389 c.c., specificamente scritte per il tipo società per azioni).
Non v’è, dunque, ragione di ritenere che il diritto a percepire il compenso sia
subordinato ad una richiesta che l’amministratore rivolga alla società
amministrata durante lo svolgimento del relativo incarico.

In tema di determinazione del compenso
degli amministratori di società di capitali, 
qualora difetti una disposizione dell’atto costitutivo e l’assemblea si
rifiuti od ometta di stabilire il compenso spettante all’amministratore, ovvero
lo determini in misura inadeguata, quest’ultimo è legittimato a richiederne al
giudice la determinazione, eventualmente in via equitativa, purché alleghi e
provi la qualità e quantità delle prestazioni concretamente svolte.

Deve ritenersi legittima la
previsione statutaria di gratuità delle funzioni di amministratore, trattandosi
di un diritto disponibile, giacché al rapporto di immedesimazione organica
intercorrente tra la società e l’amministratore non si applica né l’art. 36
Cost. né l’art. 409, comma 1, n. 3) c.p.c.

Una società a responsabilità limitata era stata convenuta
in giudizio da un consigliere del consiglio di amministrazione al fine di
ottenere, da un lato, il pagamento dei compensi
medio tempore maturati per l’intera durata
dell’incarico di amministratore svolto in favore della società; dall’altro
lato, il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti per
effetto della revoca dalla carica di amministratore, che era stata deliberata
dalla società in mancanza di giusta causa e senza preavviso.

Nel caso di specie, lo statuto sociale prevedeva come
meramente “eventuale” la remunerazione dell’organo gestorio e, più
precisamente, ne subordinava espressamente l’attribuzione del compenso alla
determinazione dei soci compiuta all’atto della nomina.

Il Tribunale si è pronunciato nel senso di ammettere la
natura gratuita dell’incarico, valorizzando la determinazione delle parti,
peraltro in linea con quanto chiaramente desumibile dallo statuto sociale. I
giudici di secondo grado, inoltre, avevano rilevato la sussistenza di alcuni
elementi che impedivano di riconoscere, in concreto, la natura onerosa
dell’attività prestata dall’amministratore in favore della società, e
segnatamente: (a) il tenore della disposizione statutaria; (b) la mancata
determinazione del compenso all’atto di nomina e (c) l’accettazione senza
riserva dell’incarico da parte dell’attore

(Massime a cura di Eugenio Sabino)




Sentenza del 10 febbraio 2022 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

A seguito della cessione del credito, il debitore ceduto diviene obbligato verso il cessionario allo stesso modo in cui era tale nei confronti del suo creditore originario. Pertanto, potrà opporre al cessionario tutte le eccezioni opponibili al cedente, sia quelle attinenti alla validità del titolo costitutivo del credito, sia quelle relative ai fatti modificativi ed estintivi del rapporto anteriori alla cessione o anche posteriori al trasferimento, ma anteriori all’accettazione della cessione o alla sua notifica o alla sua conoscenza di fatto (conf. Cass. n. 575/2001).

Rispetto all’azione di ripetizione di indebito oggettivo è passivamente legittimato solo il soggetto che ha ricevuto la somma che si assume essere non dovuta, come si evince dalla formulazione letterale dell’art. 2033 c.c. (conf. Cass. n. 25170/2016).

In materia di finanziamenti, affinché possa configurarsi un collegamento negoziale sono necessari due elementi: (i) uno oggettivo, costituito dal nesso teleologico tra i negozi, volti alla regolamentazione degli interessi reciproci delle parti nell’ambito di una finalità pratica consistente in un assetto economico globale e unitario, e (ii) uno soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti di volere non solo l’effetto tipico dei singoli negozi in concreto posti in essere, ma anche il coordinamento tra di essi per la realizzazione di un fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che assume una propria autonomia anche dal punto di vista causale (conf. Cass. 5.3.2019). Peraltro, affinché possa configurarsi un collegamento negoziale in senso tecnico non è sufficiente un nesso occasionale tra i negozi, ma è necessario che il collegamento dipenda dalla genesi stessa del rapporto, dalla circostanza, cioè, che uno dei due negozi trovi la propria causa (e non il semplice motivo) nell’altro, nonché dall’intento specifico e particolare delle parti di coordinare i due negozi, instaurando tra di essi una connessione teleologica; soltanto se la volontà di collegamento si sia obiettivata nel contenuto dei diversi negozi si può ritenere che entrambi o uno di essi, secondo la reale intenzione dei contraenti, siano destinati a subire le ripercussioni delle vicende dell’altro (conf. Cass. n. 12567/2004).

I principi sono stati espressi nel giudizio di opposizione promosso avverso il decreto ingiuntivo ottenuto da una banca a titolo di debito residuo derivante dalle rate insolute del contratto di prestito concluso tra le parti. In particolare, l’opponente eccepiva: i)la nullità del mutuo per difetto di causa concreta, trattandosi di prestito concesso per ripianare il saldo debitore, in tesi inesistente, del conto corrente intrattenuto dalla s.r.l. (di cui l’opponente era socia con una partecipazione pari al 30% del capitale) con la medesima banca, rapporto collegato sul piano negoziale al prestito e caratterizzato da vari vizi, o oggetto del procedimento pendente presso il Tribunale; ii) la nullità del mutuo in quanto fittizio, non essendosi verificata alcuna traditio di denaro, transitato direttamente nelle casse della s.r.l. ai fini dell’estinzione del debito nei confronti della banca, in virtù del collegamento negoziale anzidetto; iii) l’indeterminatezza della clausola di indicizzazione del tasso, poiché non specifica se detta indicizzazione coinvolga la sola quota interessi oppure anche la quota capitale; iv) la concessione abusiva del credito da parte della banca.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 1 febbraio 2022, n. 196 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Angelica Castellani

L’azione ex art. 146 l. fall.
è proposta dal curatore fallimentare avverso gli amministratori della società
fallita, al fine di ottenere la reintegrazione del patrimonio sociale
nell’interesse dei soci e dei creditori sociali, nei confronti dei quali la
clausola compromissoria non può operare, trattandosi di soggetti terzi rispetto
alla società (conf. Cass. n. 19398/2014, Cass. n. 28533/2018 e Cass. n.
15830/2021). È, quindi, esclusa la competenza degli arbitri in relazione
all’azione di responsabilità degli amministratori ex art. 146 l. fall.,
in ragione del contenuto unitario e inscindibile di tale azione, nella quale
confluiscono, con connotati di autonomia e con la modifica della legittimazione
attiva, sia l’azione prevista dall’art. 2393 c.c. sia quella di cui all’art.
2394 c.c. Un’ipotetica separazione delle cause rispetto al fallimento attore,
l’una afferente all’esercizio dell’azione sociale (di competenza degli arbitri)
e l’altra all’azione dei creditori sociali (di competenza del giudice
ordinario), significherebbe contraddire la connotazione unitaria e inscindibile
dell’azione di responsabilità esercitata dal curatore e vanificarne lo scopo
(conf. Cass. n. 15830/2020).

La procedura di liquidazione del patrimonio
del debitore, disciplinata dagli artt. 14-ter
e ss. della l. n. 3/2012, prevede un procedimento di accertamento del passivo
strutturato in fasi (avviso ai creditori, invio della domanda di
partecipazione, predisposizione del progetto di stato passivo e sua
approvazione con intervento del giudice delegato in presenza di osservazioni non
superabili, eventuale reclamo al collegio avverso il provvedimento del giudice
delegato). L’art. 14-octies della l. n. 3/2012, a differenza di quanto
sancito dall’art. 52 l. fall., non detta un principio di esclusività
dell’accertamento dei crediti nell’ambito della procedura da
sovraindebitamento. Il contrasto relativo all’esistenza/permanenza o meno del
potere di cognizione in capo al giudice ordinario a seguito dell’apertura della
procedura di liquidazione del patrimonio del debitore, dev’essere risolto mantenendo
la distinzione tra l’accertamento del credito, che in mancanza di una esplicita
disposizione di legge non può essere sottratto alla cognizione del giudice
ordinario, e la sua soddisfazione in sede concorsuale, per la quale la
partecipazione al procedimento di formazione del passivo (disciplinata dagli
artt. 14-ter e ss. della l. n. 3/2012) costituisce passaggio obbligato.
Pertanto, a seguito della dichiarazione di apertura della procedura
liquidazione, in tanto il creditore potrà concorrere alla distribuzione del
ricavato della liquidazione, in quanto egli abbia presentato domanda di
partecipazione ex art. 14-septies l. n. 3/2012 e abbia ottenuto
l’ammissione del proprio credito al passivo formato ai sensi del successivo
art. 14-octies; in mancanza, il credito potrà essere fatto valere solo
alla chiusura della liquidazione e sull’eventuale residuo. Sebbene, dunque, il
procedimento di verifica del passivo nella procedura da sovraindebitamento non
sia per legge connotato da carattere di esclusività, esso costituisce l’unico
mezzo per concorrere alla distribuzione del ricavato in pendenza di
liquidazione.

In sede di azione ex art.
146, secondo comma, l. fall., il curatore fallimentare è legittimato a far
valere la responsabilità degli amministratori della società fallita sia nell’ambito
dell’azione sociale (in presenza dei relativi presupposti, vale a dire il danno
prodotto al patrimonio sociale da un atto, colposo o doloso, commesso in
violazione ai doveri imposti dalla legge o dall’atto costitutivo), sia nell’ambito
dell’azione dei creditori sociali (nella misura in cui il patrimonio sociale
sia divenuto insufficiente per l’integrale soddisfazione dei creditori della
società in conseguenza di un atto, commesso con dolo o colpa, in violazione
degli obblighi funzionali alla conservazione della sua integrità). Le due
azioni, ancorché diverse per presupposti e regime giuridico, vengono ad
assumere, nell’ipotesi di fallimento, carattere unitario e inscindibile, al
fine di consentire l’acquisizione all’attivo della procedura di quel che è
stato sottratto dal patrimonio sociale – unitariamente considerato a garanzia
sia dei soci che dei creditori sociali – per fatti imputabili agli
amministratori (conf. Cass. n. 23452/2019; Cass. n. 19340/2016; Cass. n.
10378/2012).

L’azione sociale di responsabilità
si prescrive nel termine di cinque anni, con decorrenza dal momento in cui il
danno diventa oggettivamente percepibile all’esterno, manifestandosi nella
sfera patrimoniale della società; il decorso di tale termine rimane, peraltro,
sospeso, a norma dell’art. 2941, n. 7, c.c., fino alla cessazione
dell’amministratore dalla carica in ragione del rapporto fiduciario
intercorrente tra l’ente ed il suo organo gestorio (conf. Cass. n. 24715/2015;
Cass. n. 10378/2012; Cass. n. 6719/2008). L’azione dei creditori sociali, anche
laddove promossa dal curatore fallimentare a norma dell’art. 146 l. fall., è
soggetta a prescrizione quinquennale che decorre dal momento dell’oggettiva
percepibilità, da parte dei creditori, dell’insufficienza dell’attivo a
soddisfare i debiti (e non anche dall’effettiva conoscenza di tale situazione),
che, a sua volta, dipendendo dall’insufficienza della garanzia patrimoniale
generica (art. 2740 c.c.), non corrisponde allo stato d’insolvenza ex art.
5 della l. fall., derivante, in primis, dall’impossibilità di ottenere
ulteriore credito. In ragione della onerosità della prova gravante sul
curatore, sussiste una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies
a quo
di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento,
ricadendo sull’amministratore la prova della diversa data anteriore di
insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale (conf. Trib. Brescia, n. 3593/2017;
Cass. n. 24715/2015).

I principi sono stati espressi in
ipotesi di azione di responsabilità
ex art.
146 l. fall., promossa dal curatore fallimentare nei confronti dei soci
(amministratori) per il compimento di atti di
mala gestio. Il Tribunale riteneva procedibile l’azione ordinaria promossa dal fallimento nei
confronti del socio, fermi i limiti della procedura da esdebitamento, ragione
per la quale sono stati poi revocati i provvedimenti di sequestro chiesti dal
fallimento.

Il Tribunale
accertava la non operatività della
clausola compromissoria contenuta nello statuto della società, in
ragione del contenuto unitario e inscindibile dell’azione di responsabilità e dichiarava non prescritte sia l’azione
sociale di responsabilità sia l’azione dei creditori sociali, posto che:
a) i convenuti non avevano
fornito alcun elemento da cui ricavare l’insorgenza di una situazione di
incapienza patrimoniale anteriore alla dichiarazione di fallimento e
conoscibile ai terzi secondo l’ordinaria diligenza;
b) l’esistenza di
tale situazione non poteva essere desunta, a posteriori, dai dati contenuti nel
rapporto riepilogativo semestrale redatto dal curatore, trattandosi di
documento formatosi solo successivamente all’apertura della procedura
concorsuale. A ciò si aggiunga che i bilanci annualmente depositati dal
fallimento sarebbero stati redatti in violazione dei fondamentali principi di
corretta e veritiera rappresentazione della situazione patrimoniale ed
economica dell’impresa stabiliti dal codice civile, e ciò al precipuo scopo di
occultare ai terzi la grave crisi aziendale culminata nel deposito della
domanda di concordato preventivo
ex art. 161, sesto comma, l. fall., prima,
e nel fallimento della società, poi, con la conseguente impossibilità di far
decorrere la prescrizione dalla pubblicazione, in epoca anteriore al
fallimento, dei suddetti bilanci di esercizio.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 19 gennaio 2022 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Angelica Castellani

Per quanto concerne la individuazione, nell’ambito di un giudizio
cautelare, del termine entro il quale le parti devono instaurare il giudizio di
merito, l’unico vincolo imposto alla discrezionalità
dell’autorità giudiziaria dalle norme sovranazionali è quello della “ragionevolezza”,
criterio da ritenersi, in ogni caso, rispettato qualora il termine fissato dal
giudice designato coincida con quello massimo stabilito dalla disposizione
generale di diritto interno ed esso sia compatibile con le esigenze di celerità
del processo e di provvisorietà degli effetti della tutela cautelare,
codificate dal legislatore internazionale e comunitario.

Principio espresso nell’ambito di un procedimento
civile ex art. 669-
novies, secondo
comma, c.p.c., promosso da una società per azioni ai fini dell’accertamento ad
opera del Tribunale dell’intervenuta inefficacia dell’ordinanza resa nel
procedimento cautelare di prime cure, stante la mancata instaurazione del
giudizio di merito nei termini perentori di cui al combinato disposto degli
articoli 132 del D. Lgs. n. 30/2005 (Codice della proprietà industriale) e 669-
octies
c.p.c.

(Massima a cura di Eugenio Sabino)




Sentenza del 3 gennaio 2022 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

In tema di nullità della clausola penale per violazione dell’art. 1526 c.c., è consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la disciplina pattizia delle conseguenze della risoluzione non contrasta con i limiti imposti dall’art. 1526, secondo comma, c.c., nella misura in cui riconosce all’utilizzatrice la deduzione dal credito complessivo del valore residuo del bene (conf. Trib. Brescia, 4 maggio 2021) Si ritiene, infatti, che la clausola penale contenuta nelle condizioni generali del contratto di leasing immobiliare sia pienamente legittima e compatibile con l’art. 1526 c.c., ove si consideri che la norma preveda per il venditore l’obbligo di restituzione delle rate riscosse e il diritto al pagamento di equo compenso per l’uso della cosa (in aggiunta logicamente alla restituzione del bene di proprietà), statuisca, inoltre, che i contraenti possano convenire che le rate pagate restino acquisite al venditore a titolo d’indennità e altresì che la stessa norma faccia salvo il diritto del venditore al risarcimento del danno. Va da sé che anche la quantificazione del danno, come l’indennità, ben possa essere preventivamente determinata dalle parti con clausola penale, e che tale indubbiamente deve qualificarsi la previsione contrattuale del diritto del concedente di pretendere, a titolo di danno, l’importo corrispondente all’attualizzazione delle rate a scadere e del prezzo di riscatto dedotto il ricavato della vendita del bene immobile recuperato.

Oggetto della clausola penale tipicamente è una somma di denaro e, ai fini della sua determinabilità, è sufficiente che le parti ne pattuiscano i criteri di calcolo. Peraltro, con riferimento a tempi, modalità e condizioni di vendita e a tempi e modalità con cui il corrispettivo dovrebbe essere riversato in favore dell’utilizzatore (elementi non essenziali del patto) occorre rilevare come il bene possa essere immesso sul mercato soltanto dopo la restituzione e il corrispettivo ricavato dalla vendita vada imputato a deconto del credito risarcitorio della concedente e, quindi, non possa essere fatto valere prima del nel momento in cui la stessa concedente agisca ai fini del risarcimento del danno da inadempimento.

Sotto il profilo della contestazione di incertezza del credito, discutendosi di finanziamenti con piano di restituzione predefinito, valgono le ordinarie regole in punto di riparto dell’onere della prova nelle azioni di responsabilità contrattuale. Quindi, la concedente è tenuta a provare il titolo (mediante la produzione dei contratti) e ad allegare l’inadempimento, mentre ricade sul debitore l’onere di provare la corretta esecuzione delle prestazioni a proprio carico, principalmente il pagamento puntuale e tempestivo dei canoni. 

In mancanza della fase del cosiddetto “accertamento del passivo”, il provvedimento di omologazione del concordato preventivo, per le particolari caratteristiche della procedura che a essa conduce, determina un vincolo definitivo sulla riduzione quantitativa dei crediti, ma non comporta la formazione di un giudicato sull’esistenza, entità e rango (privilegiato o chirografario) di questi ultimi, né sugli altri diritti implicati nella procedura stessa, presupponendone un accertamento non giurisdizionale, ma meramente amministrativo, di carattere delibativo e finalizzato al solo scopo di consentire il calcolo delle maggioranze richieste ai fini dell’approvazione della proposta, sicché non esclude la possibilità di far accertare in via ordinaria, nei confronti dell’impresa in concordato, il proprio credito e il privilegio che lo assiste (conf. Cass. n. 33345/2018).

I principi sono stati espressi nel giudizio di opposizione promosso dal fideiussore di una s.r.l. avverso il decreto ingiuntivo ottenuto da una banca a titolo di risarcimento del danno patito a seguito della risoluzione anticipata dei contratti di locazione finanziaria per il mancato pagamento dei canoni, in virtù di quanto previsto dalla clausola risolutiva espressa delle condizioni generali dei medesimi contratti.

In particolare, l’opponente eccepiva: i) la nullità della clausola prevista nelle condizioni generali dei contratti di leasing(“risoluzione del contratto” e relativa penale) per mancata specifica approvazione ai sensi degli artt. 1341 e 1342 c.c.; ii) la nullità della medesima clausola per violazione dell’art. 1526 c.c., trattandosi di leasing traslativo; iii) la nullità della medesima clausola per violazione dell’art. 1383 c.c. nonché degli artt. 1418 e 1346 c.c., stante l’indeterminatezza/indeterminabilità dell’oggetto della clausola; iv) la nullità degli articoli previsti nelle condizioni generali dei contratti per indeterminatezza/indeterminabilità dell’oggetto; v) la carenza dei requisiti per l’emissione del provvedimento ingiuntivo, alla luce dell’illiquidità e dell’incertezza del credito oggetto di causa.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 3 gennaio 2022, n. 1 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Angelica Castellani

Qualora vengano contestate all’organo amministrativo,
in aggiunta alla violazione dell’art. 2486 c.c., specifiche operazioni dannose
che risultino perfezionate nel corso della fase di illegittima prosecuzione
dell’attività sociale (accertata nel suo carattere antigiuridico, in uno con
l’addebito logicamente presupposto di infedele rappresentazione in bilancio
della reale situazione economica, finanziaria e patrimoniale della società),
anche la porzione di depauperamento del patrimonio specificamente imputabile
alle suddette specifiche operazioni concorre alla formazione del risultato di
esercizio e, quindi, al deficit finale, senza che possano selezionarsi
perdite, direttamente e in via esclusiva, conseguenti ai singoli addebiti,
essendo soggetti a sterilizzazione i soli costi normali di liquidazione.

La valutazione della portata lesiva delle operazioni
dannose singolarmente contestate all’organo amministrativo risulta, pertanto,
assorbita dall’accertata lesività dell’illegittima prosecuzione dell’attività
d’impresa, per la quale il danno è stato quantificato non in via analitica,
bensì mediante il criterio presuntivo codificato dal terzo comma dell’art. 2486
c.c.; trattasi di un criterio utilizzabile qualora i dati contabili a
disposizione impediscano una ricognizione dell’aggravamento patrimoniale
specificamente riconducibile alle singole perdite operative nette derivate.

Nel caso di specie, il Tribunale
aveva rilevato che, pur ricorrendo la causa di scioglimento prevista dall’art.
2484, primo comma, n. 4), c.c., il convenuto avesse continuato a gestire la
società proseguendone l’attività, senza tuttavia provvedere alle iniziative
imposte dalla legge; con ciò aggravandone il dissesto. Su tali basi, i giudici
di secondo grado hanno condannato l’amministratore unico di una società – successivamente
dichiarata fallita – al risarcimento dei danni sofferti dalla società medesima
e dai creditori sociali derivanti dalle condotte di
mala gestio allo stesso
contestate.

(Massime a cura di Eugenio Sabino)




Decreto del 9 dicembre 2021 – Presidente: Dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice relatore: Dott. Gianluigi Canali

Nella procedura di concordato
preventivo la proposta e l’attestazione devono: a) individuare, in primo luogo, i creditori e i rispettivi
crediti e, in secondo luogo, qualora detti crediti fossero contestati, tenere
conto della necessità di stanziamento di fondi per rischi, dando atto delle
ragioni degli importi stanziati; b) precisare
se i finanziamenti di natura chirografaria concessi dagli istituti di credito siano
o meno assistiti dalla garanzia pubblicistica rilasciata dal fondo ex L.
662/96; c) verificare se il vincolo
di destinazione di determinati beni possa essere oggetto di impugnazione da
parte dei legittimari, per violazione della quota di legittima.

Al fine di valutare la convenienza
del concordato rispetto all’ipotesi fallimentare, l’attestatore deve verificare:
a) il momento in cui la perdita del capitale sociale si sia verificata; b)
se i componenti dell’organo di controllo abbiano stipulato contratti di
assicurazione e, in caso positivo, per quali somme nonché a quali condizioni
contrattuali. Inoltre, l’attestatore, se nell’eseguire i propri stress test considera
disponibili per la massa i fondi generici, è tenuto a spiegare perché, qualora
si verificassero le prospettate circostanze sfavorevoli, il rischio che quei
fondi siano volti a coprire verrebbe meno.

Principi
espressi nel giudizio di ammissione al concordato preventivo, all’esito del
quale il Tribunale ha giudicato inammissibile la proposta di concordato
formulata, tenuto conto dell’esistenza di lacune e di criticità nel piano proposto
e nell’attestazione, sia in relazione alla quantificazione del passivo
concordatario sia con riferimento alle concrete possibilità di realizzo
dell’attivo. Nello specifico, il Tribunale rilevava che la società debitrice
non aveva preso in debita considerazione le pretese di alcuni professionisti e
che l’attestazione risultava carente in relazione alla valutazione della
convenienza del concordato preventivo rispetto all’ipotesi fallimentare.

(Massima cura di Simona Becchetti)