Tribunale di Brescia, sentenza del 2 settembre 2022, n. 2196 – società cooperativa, rimborso del versamento dei soci, risparmio sociale, recesso, postergazione del credito

Nelle società cooperative, il diritto al rimborso spetta a ciascun socio che abbia esercitato il diritto di recesso, per il solo fatto di aver effettuato il versamento, a prescindere dalla liceità o meno della provvista impiegata, salvo che sia diversamente previsto nello statuto sociale.

La norma di cui all’art. 2467 c.c., prevista in tema di società a responsabilità limitata, che prevede la postergazione del rimborso dei finanziamenti eseguiti dai soci a favore di società rispetto al soddisfacimento degli altri creditori alla ricorrenza di determinati presupposti (ossia, l’eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto ovvero una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole effettuare un conferimento), non è applicabile alle società cooperative, tenuto conto, tra l’altro, della diversità di funzione che assolve il capitale in tale tipo sociale (funzionale alla gestione mutualistica), rispetto alle altre società lucrative. Ne consegue che deve ritenersi preclusa la possibilità di assimilare il prestito sociale cooperativo ai finanziamenti soci di cui all’art. 2467 c.c.

(Nel caso in esame, in ogni caso, la convenuta aveva omesso di allegare riferimenti concreti che avrebbero giustificato l’applicazione della norma invocata al tipo societario della società cooperativa).

I principi sono stati espressi nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo promosso da una società cooperativa, in qualità di cessionaria del credito costituito dal risparmio sociale maturato dai propri soci nei confronti di un’altra società cooperativa convenuta.

In particolare, la società attrice chiedeva, in via riconvenzionale, la condanna della società convenuta, beneficiaria della scissione parziale della società attrice, al pagamento in proprio favore del credito maturato dai soci a titolo di rimborso delle quote di risparmio sociale a seguito del loro recesso e poi ceduto all’attrice.

Secondo la tesi attorea, il suddetto credito avrebbe trovato il proprio fondamento, oltre che in una scrittura privata stipulata tra le due società cooperative e i rispettivi soci, nella scissione parziale della società attrice, con cui la stessa ha trasferito alla società beneficiaria convenuta tutte le sue passività, ad eccezione dei debiti della scissa nei confronti dei propri soci per il rimborso del risparmio sociale (non contemplati nel progetto di scissione).

La società convenuta si costituiva in giudizio chiedendo, tra l’altro, (i) di dichiarare l’inesistenza del credito ceduto costituito dal risparmio sociale, in quanto derivante da provviste conseguite dai soci illecitamente; (ii)  di accertare la postergazione del rimborso del risparmio sociale rispetto alla soddisfazione degli altri creditori ai sensi dell’art. 2467 c.c; in subordine (iii) di accertare l’estinzione del credito per confusione; in ogni caso, il rigetto della domanda riconvenzionale svolta dall’attrice.

Il tribunale ha accolto la domanda riconvenzionale formulata dalla società attrice, condannando la società convenuta al versamento del credito derivante dal risparmio sociale dei soci e al pagamento delle spese di lite.

(Massime a cura di Valentina Castelli)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 15 luglio 2022 – s.a.s., revoca dell’amministratore per giusta causa




Tribunale di Brescia, sentenza del 7 maggio 2022, n. 1239 – società cooperativa, invalidità delle deliberazioni sociali, esclusione del socio, opposizione del socio escluso

L’irregolarità delle comunicazioni relative all’esclusione del socio da una società cooperativa non configura un vizio insanabile del procedimento di contestazione e successiva deliberazione, laddove esista uno stretto collegamento tra la persona del socio e il luogo di notificazione delle comunicazioni, per quanto diverso dall’indirizzo annotato sul libro soci. Tale irregolarità avrebbe potuto, piuttosto, legittimare il socio a una tardiva allegazione delle proprie giustificazioni.

In materia di esclusione del socio “volontario” appare difficile distinguere la fattispecie del socio “volontario” che abbia cessato l’attività di volontariato presso la cooperativa, legittimante l’esclusione, da quella del socio “volontario” che abbia cessato di prestare la propria opera a favore della cooperativa, determinante la decadenza. Invero, una volta qualificato il socio “volontario” come colui che presta a favore della cooperativa la propria attività gratuitamente, esclusivamente per fini di solidarietà, non sembra assumere concreta pregnanza che tale attività coincida con lo stesso servizio offerto all’esterno dalla cooperativa, con altra attività “solidaristica” o con un’attività di carattere amministrativo o professionale resa gratuitamente dal socio e, comunque, idonea a consentire alla cooperativa di poter operare in vista del raggiungimento dei suoi scopi sociali (in quanto tale, anch’essa definibile come “volontariato”). In ogni caso, per poter rimanere nella compagine sociale della cooperativa occorre mantenere con la stessa un rapporto inquadrabile nelle tipologie sopra descritte. In caso contrario, il socio è soggetto ad esclusione o dichiarazione di decadenza.

I principi sono stati espressi nell’ambito del giudizio avente ad oggetto l’opposizione della delibera del consiglio di amministrazione di una società cooperativa sociale onlus di esclusione del socio dalla medesima ai sensi della quale lo stesso ha richiesto di accertare la nullità e/o l’annullamento della relativa comunicazione relativa alla delibera in quanto non preceduta da lettera di contestazione dell’addebito, priva dell’indicazione specifica dei fatti posti alla base dell’esclusione e inviata all’indirizzo di posta elettronica certificata di un soggetto giuridico diverso dall’attore. Con riferimento al merito del provvedimento opposto, il socio ha, inter alia, contestato che la presa d’atto che il socio cessato di prestare la propria opera di amministratore a favore della cooperativa rientrasse in una ipotesi delle ipotesi di esclusione tassativamente previste dallo statuto potendo al più essere inquadrata in un’ipotesi di decadenza, la quale, tuttavia, non era stata invocata nella delibera di esclusione.

Si costituiva in giudizio la società cooperativa sociale onlus negando la fondatezza delle allegazioni e deduzioni avversarie e chiedendo il rigetto delle domande attoree.

Il Tribunale rilevato che l’irregolarità delle comunicazioni relative all’esclusione del socio poteva legittimare l’attore a una tardiva allegazione delle proprie giustificazioni, facoltà che egli aveva, nondimeno, mancato di esercitare, avendo promosso tempestiva opposizione senza negare l’addebito contestatogli e senza addurre valida giustificazione allo stesso e, rilevato che, non emergeva alcun sostanziale interesse dell’attore a pretendere una qualificazione della propria situazione in termini di decadenza piuttosto che di esclusione, ha dichiarato la correttezza e legittimità del provvedimento di esclusione oggetto di opposizione e, pertanto, ha rigettato le domande attoree.

(Massime a cura di Simona Becchetti)




Sentenza dell’11 aprile 2022, n. 888 – Giudice designato: Dott. Raffaele Del Porto

È da
escludersi che la mera intervenuta ammissione del creditore al passivo del
fallimento possa comportare, per effetto del preteso giudicato fallimentare, una
preclusione all’esame delle domande coltivate dalla curatela. Infatti, l’ammissione
del credito allo stato passivo non fa stato fra le parti fuori dal fallimento:
il giudicato ha natura strettamente endofallimentare, dal momento che esso, ai
sensi dell’art. 96, comma 6, l. fall., copre solo la statuizione di rigetto o
di accoglimento della domanda di ammissione, precludendone il riesame (conf. Cass.
27709/2020).

La
dichiarazione di fallimento del debitore ingiunto – intervenuta quando il
decreto ingiuntivo non era ancora definitivo – comporta la declaratoria di
improcedibilità della domanda azionata in via monitoria dal creditore, essendo
questi tenuto a far accertare il proprio credito nell’ambito della verifica del
passivo, ai sensi degli artt. 92 e ss. l.fall., in concorso con gli altri
creditori (conf., fra le altre, Cass. 6195/2020). Trattasi, inoltre, di
improcedibilità rilevabile d’ufficio, senza che vada integrato il
contraddittorio nei confronti della curatela fallimentare.

Nel
caso di specie, la dichiarazione di fallimento del debitore interveniva in
pendenza di procedimento monitorio azionato a suo carico (ed in relazione al
quale il debitore aveva altresì presentato domanda di opposizione al decreto
ingiuntivo). Da ciò consegue che:
i)
l’esame delle domande di risoluzione del contratto e di risarcimento dei danni
proposte dal debitore, poi fallito, non risulta precluso dal giudicato
endofallimentare;
ii) il credito vantato nei suoi confronti deve essere
insinuato al passivo del fallimento;
iii) il decreto ingiuntivo (non
ancora definitivo) è revocato e la domanda azionata in via monitoria per far
valere detto credito è dichiarata improcedibile.

(Massime a cura di Chiara Alessio)




Sentenza dell’8 aprile 2022, n. 860 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Angelica Castellani

Nelle
società di capitali, l’interesse del socio al potenziamento e alla
conservazione della consistenza economica dell’ente è tutelabile esclusivamente
con strumenti interni (i.e., la partecipazione alla vita sociale, l’impugnazione
delle deliberazioni degli organi societari, le azioni di responsabilità contro
gli amministratori). Ritenendosi queste tutele sufficienti, i soci non sono
legittimati ad impugnare i negozi giuridici stipulati dalla società. La
validità di questi, infatti, anche nelle ipotesi di nullità per illiceità
dell’oggetto, della causa o dei motivi, può essere contestata esclusivamente
dalla stessa società, senza che, al contrario, il socio possa invocare l’applicazione
dell’art. 1421 c.c., il quale sancisce che – salvo diversa disposizione di
legge – la nullità possa essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse (conf.
Cass. 12615/1999, Cass. n. 4579/2009, Cass. n. 29325/2021).

Tra
i presupposti costitutivi dell’azione surrogatoria di cui all’art. 2900 c.c.,
il legislatore prevede l’inerzia del debitore rispetto all’esercizio delle sue
pretese personali. Tale inerzia – e con essa la legittimazione del creditore
all’esercizio in via surrogatoria dell’altrui diritto – viene meno solo nel
momento in cui il debitore ponga in essere condotte idonee e sufficienti a far
ritenere utilmente espressa la sua volontà in ordine alla gestione del
rapporto. Il creditore, inoltre, non può sindacare le modalità con cui il
debitore abbia ritenuto di esercitare la propria situazione giuridica
nell’ambito del rapporto, né contestare le scelte e l’idoneità delle
manifestazioni di volontà espresse a produrre gli effetti riconosciuti
dall’ordinamento.

Nel
caso di specie, parte attrice agiva nella duplice qualità di socia e,
ex art. 2900 c.c., di creditore della parte
convenuta, al fine di ottenere, in via gradata:
i) l’accertamento della
nullità
ovvero l’annullamento di un
lodo arbitrale irrituale pronunciato tra le medesime parti;
ii) l’annullamento dei successivi accordi, in
quanto fondati su lodo nullo o annullabile, nonché in quanto in ogni caso non
idonei a configurare convalida del lodo (sul presupposto che fosse annullabile)
a causa dell’omessa menzione, richiesta
ex art. 1444 c.c., delle cause
di annullabilità.

(Massime a cura di Chiara Alessio)




Sentenza del 5 aprile 2022, n. 812 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Angelica Castellani

In tema di responsabilità degli
amministratori, il contenuto e la natura della transazione di fine mandato,
sottoscritta tra società e amministratore delegato, non precludono la
possibilità di contestare la sussistenza di profili di responsabilità a carico
dell’amministratore per presunti atti di mala gestio compiuti in corso
di rapporto, salvo che la società non vi abbia espressamente rinunciato in sede
di accordo transattivo. In ogni caso, la società che agisce per il risarcimento
dei danni è tenuta a fornire la prova dell’esistenza del danno, del suo
ammontare e della sussistenza di un nesso eziologico con il comportamento
inadempiente o illecito dell’amministratore, non essendo l’antigiuridicità
della condotta di per sé idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio
della società.

Tale principio trova applicazione sia
nel caso di transazione novativa, in cui l’accordo si pone come nuova ed unica
fonte di disciplina del rapporto preesistente, sia nel caso di transazione c.d.
“semplice” o “conservativa”, con cui le parti si limitano a regolare il
rapporto preesistente mediante reciproche concessioni, senza costituirne uno
nuovo.

Da ciò consegue altresì che, in caso di
successiva scoperta di inadempimenti non rilevati al momento della transazione,
questi potranno essere fatti valere solo mediante l’impugnazione dell’accordo
transattivo per errore, il quale rileverà in questo caso in quanto inerente al
presupposto della transazione e non, invece, alle reciproche concessioni.

Nel
caso di specie, il Tribunale ha ritenuto che l’azione di responsabilità esercitata
dalla società nei confronti dell’amministratore delegato, per presunte condotte
di
mala gestio al medesimo
imputabili, non fosse preclusa dall’intervento di una transazione novativa di
fine rapporto tra i suddetti soggetti, in quanto la società non vi aveva
rinunciato espressamente nel patto transattivo. Il Tribunale, tuttavia, rigettava
la domanda in conseguente del mancato soddisfacimento dell’onere probatorio a
carico della società, la quale ometteva di dare prova sia del danno sia del
nesso causale tra questo e la condotta tenuta dall’amministratore. Al contrario,
avendo l’amministratore dichiarato, in sede di transazione, di voler rinunciare
ad ogni altra pretesa nei confronti della società, risultava a lui preclusa la
possibilità di porre in contestazione l’esistenza di un suo credito per
compensi ed indennizzo.   

(Massime a cura di Chiara Alessio)




Tribunale di Brescia, sentenza del 29 marzo 2022, n. 756 – s.r.l., diritto di recesso, clausola di gradimento, clausola di prelazione impropria, limiti al trasferimento mortis causa

Qualora lo statuto di una s.r.l. contenga una clausola di gradimento non mero – tale da intendersi anche quella che subordina il trasferimento (inter vivos) di partecipazioni al preventivo gradimento dell’acquirente da parte del consiglio di amministrazione e di tutti gli altri soci, prevedendo però un chiaro limite soggettivo – il diritto di recesso non è riconosciuto per il solo fatto dell’esistenza di siffatta clausola, poiché ciò finirebbe per introdurre surrettiziamente una vera e propria facoltà di recesso ad nutum, in difetto di una chiara previsione statutaria in tal senso. Al contrario, alla luce di quanto disposto dall’art. 2469 c.c., in tale ipotesi il diritto di exit è accordato al socio solo in conseguenza del diniego ricevuto al fine di consentirgli di non rimanere prigioniero della società (cfr. Corte d’Appello Venezia n. 2158/2021).

Analoghe considerazioni debbono essere svolte con riguardo alle clausole di prelazione “a prezzo amministrato” che impongono al socio, qualora questi voglia cedere la propria partecipazione, di offrirla preventivamente e a parità di condizioni agli altri soci, cui viene altresì riconosciuto il diritto di sottoporre la determinazione del prezzo da corrispondere all’offerente a un arbitratore, nonché alle clausole di gradimento nei trasferimenti mortis causa, quando le medesime prevedono che – eccezion fatta per il trasferimento al successore o ai successori in linea retta del socio defunto – la partecipazione possa essere ceduta solo a soggetti graditi all’organo amministrativo della società. In entrambi i casi, non vi è diritto di recesso per la mera esistenza di un limite alla circolazione della partecipazione, qualora esso risulti in concreto inidoneo, in forza della sua effettiva applicazione, a determinare la definitiva compressione del diritto al trasferimento della partecipazione.

I princìpi sono stati espressi nell’ambito di un giudizio volto a dirimere una controversia sorta tra un socio di minoranza e una società a responsabilità limitata relativamente alla sussistenza del diritto di recesso dalla società in capo al primo. Nel caso di specie, infatti, la parte attrice aveva esercitato dapprima recesso parziale e poi, senza rinuncia esplicita al primo recesso, recesso per l’intera partecipazione. La società resistente adduceva, inter alia, l’insussistenza del diritto di recesso: i) nel difetto di una clausola statutaria “di mero gradimento”; ii) in ragione della clausola statutaria di prelazione impropria o “a prezzo amministrato”; iii) per la sola presenza di una clausola statutaria limitativa delle ipotesi di trasferimento mortis causa. Il Collegio ha statuito che non spettava alla parte attrice diritto di recesso, non avendo, tra l’altro, la medesima mai manifestato la propria intenzione di alienare a terzi (in tutto o in parte) la propria quota. Sono risultate perciò assorbite le ulteriori questioni relative alla ammissibilità di un recesso parziale, condizionato o esercitato dal solo nudo proprietario.

(Massime a cura di Chiara Alessio)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 23 marzo 2022 – s.n.c., diritto del socio amministratore di accesso ai documenti societari e alla sede sociale




Ordinanza del 21 febbraio 2022 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

La nullità determinata dalla genericità e dalla indeterminatezza della causa petendi o del petitum ex art. 164, quarto comma, c.p.c. travolge l’intero atto, seppur vi siano delle porzioni della domanda non affette da tale vizio (conf. Trib. Milano, 2.5.2017). Tuttavia, il termine concesso dal giudice per la rinnovazione della citazione nulla ex art. 164 c.p.c. ha natura perentoria, sicché, in caso di mancata rinnovazione, il provvedimento di cancellazione della causa dal ruolo emesso dal giudice ex art. 307, terzo comma, c.p.c., comporta la contemporanea e automatica estinzione del processo, anche in difetto di eccezione di parte (conf. Cass. n. 32207/2021).

Sulla base di tali principi, nella vicenda in questione, rilevata la persistente incertezza in ordine al petitum e alla causa petendidelle domande svolte – favorita anche dalla veste formale dell’atto di citazione, che non risultava strutturato in paragrafi distinti a seconda della domanda svolta – il Giudice dichiarava estinto il giudizio, disponendo la cancellazione della causa dal ruolo.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 21 febbraio 2022, n. 415 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Angelica Castellani

L’amministratore di una società di
capitali, con l’accettazione della carica, acquisisce, di regola, il diritto ad
essere compensato per l’attività svolta in esecuzione dell’incarico
affidatogli. Tale diritto è, nelle società per azioni, espressamente sancito
dagli artt. 2389 e 2364, n. 3), c.c., mentre per quanto concerne le società a
responsabilità limitata, nonostante l’assenza di analoghe disposizioni
espresse, esso viene pacificamente ricavato dall’applicazione analogica degli artt.
1709 e 2389 c.c.

Secondo i principi del sistema
vigente, quello di amministratore di società è un contratto che la legge
presume oneroso (cfr. la disposizione dell’art. 1709 c.c., dettata con
riferimento allo schema generale dell’agire gestorio e senz’altro applicabile
anche alla materia societaria, come pure posta a presupposto delle previsioni
dell’art. 2389 c.c., specificamente scritte per il tipo società per azioni).
Non v’è, dunque, ragione di ritenere che il diritto a percepire il compenso sia
subordinato ad una richiesta che l’amministratore rivolga alla società
amministrata durante lo svolgimento del relativo incarico.

In tema di determinazione del compenso
degli amministratori di società di capitali, 
qualora difetti una disposizione dell’atto costitutivo e l’assemblea si
rifiuti od ometta di stabilire il compenso spettante all’amministratore, ovvero
lo determini in misura inadeguata, quest’ultimo è legittimato a richiederne al
giudice la determinazione, eventualmente in via equitativa, purché alleghi e
provi la qualità e quantità delle prestazioni concretamente svolte.

Deve ritenersi legittima la
previsione statutaria di gratuità delle funzioni di amministratore, trattandosi
di un diritto disponibile, giacché al rapporto di immedesimazione organica
intercorrente tra la società e l’amministratore non si applica né l’art. 36
Cost. né l’art. 409, comma 1, n. 3) c.p.c.

Una società a responsabilità limitata era stata convenuta
in giudizio da un consigliere del consiglio di amministrazione al fine di
ottenere, da un lato, il pagamento dei compensi
medio tempore maturati per l’intera durata
dell’incarico di amministratore svolto in favore della società; dall’altro
lato, il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti per
effetto della revoca dalla carica di amministratore, che era stata deliberata
dalla società in mancanza di giusta causa e senza preavviso.

Nel caso di specie, lo statuto sociale prevedeva come
meramente “eventuale” la remunerazione dell’organo gestorio e, più
precisamente, ne subordinava espressamente l’attribuzione del compenso alla
determinazione dei soci compiuta all’atto della nomina.

Il Tribunale si è pronunciato nel senso di ammettere la
natura gratuita dell’incarico, valorizzando la determinazione delle parti,
peraltro in linea con quanto chiaramente desumibile dallo statuto sociale. I
giudici di secondo grado, inoltre, avevano rilevato la sussistenza di alcuni
elementi che impedivano di riconoscere, in concreto, la natura onerosa
dell’attività prestata dall’amministratore in favore della società, e
segnatamente: (a) il tenore della disposizione statutaria; (b) la mancata
determinazione del compenso all’atto di nomina e (c) l’accettazione senza
riserva dell’incarico da parte dell’attore

(Massime a cura di Eugenio Sabino)