Ordinanza del 21 febbraio 2022 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

La nullità determinata dalla genericità e dalla indeterminatezza della causa petendi o del petitum ex art. 164, quarto comma, c.p.c. travolge l’intero atto, seppur vi siano delle porzioni della domanda non affette da tale vizio (conf. Trib. Milano, 2.5.2017). Tuttavia, il termine concesso dal giudice per la rinnovazione della citazione nulla ex art. 164 c.p.c. ha natura perentoria, sicché, in caso di mancata rinnovazione, il provvedimento di cancellazione della causa dal ruolo emesso dal giudice ex art. 307, terzo comma, c.p.c., comporta la contemporanea e automatica estinzione del processo, anche in difetto di eccezione di parte (conf. Cass. n. 32207/2021).

Sulla base di tali principi, nella vicenda in questione, rilevata la persistente incertezza in ordine al petitum e alla causa petendidelle domande svolte – favorita anche dalla veste formale dell’atto di citazione, che non risultava strutturato in paragrafi distinti a seconda della domanda svolta – il Giudice dichiarava estinto il giudizio, disponendo la cancellazione della causa dal ruolo.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Sentenza del 21 febbraio 2022, n. 415 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Angelica Castellani

L’amministratore di una società di
capitali, con l’accettazione della carica, acquisisce, di regola, il diritto ad
essere compensato per l’attività svolta in esecuzione dell’incarico
affidatogli. Tale diritto è, nelle società per azioni, espressamente sancito
dagli artt. 2389 e 2364, n. 3), c.c., mentre per quanto concerne le società a
responsabilità limitata, nonostante l’assenza di analoghe disposizioni
espresse, esso viene pacificamente ricavato dall’applicazione analogica degli artt.
1709 e 2389 c.c.

Secondo i principi del sistema
vigente, quello di amministratore di società è un contratto che la legge
presume oneroso (cfr. la disposizione dell’art. 1709 c.c., dettata con
riferimento allo schema generale dell’agire gestorio e senz’altro applicabile
anche alla materia societaria, come pure posta a presupposto delle previsioni
dell’art. 2389 c.c., specificamente scritte per il tipo società per azioni).
Non v’è, dunque, ragione di ritenere che il diritto a percepire il compenso sia
subordinato ad una richiesta che l’amministratore rivolga alla società
amministrata durante lo svolgimento del relativo incarico.

In tema di determinazione del compenso
degli amministratori di società di capitali, 
qualora difetti una disposizione dell’atto costitutivo e l’assemblea si
rifiuti od ometta di stabilire il compenso spettante all’amministratore, ovvero
lo determini in misura inadeguata, quest’ultimo è legittimato a richiederne al
giudice la determinazione, eventualmente in via equitativa, purché alleghi e
provi la qualità e quantità delle prestazioni concretamente svolte.

Deve ritenersi legittima la
previsione statutaria di gratuità delle funzioni di amministratore, trattandosi
di un diritto disponibile, giacché al rapporto di immedesimazione organica
intercorrente tra la società e l’amministratore non si applica né l’art. 36
Cost. né l’art. 409, comma 1, n. 3) c.p.c.

Una società a responsabilità limitata era stata convenuta
in giudizio da un consigliere del consiglio di amministrazione al fine di
ottenere, da un lato, il pagamento dei compensi
medio tempore maturati per l’intera durata
dell’incarico di amministratore svolto in favore della società; dall’altro
lato, il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti per
effetto della revoca dalla carica di amministratore, che era stata deliberata
dalla società in mancanza di giusta causa e senza preavviso.

Nel caso di specie, lo statuto sociale prevedeva come
meramente “eventuale” la remunerazione dell’organo gestorio e, più
precisamente, ne subordinava espressamente l’attribuzione del compenso alla
determinazione dei soci compiuta all’atto della nomina.

Il Tribunale si è pronunciato nel senso di ammettere la
natura gratuita dell’incarico, valorizzando la determinazione delle parti,
peraltro in linea con quanto chiaramente desumibile dallo statuto sociale. I
giudici di secondo grado, inoltre, avevano rilevato la sussistenza di alcuni
elementi che impedivano di riconoscere, in concreto, la natura onerosa
dell’attività prestata dall’amministratore in favore della società, e
segnatamente: (a) il tenore della disposizione statutaria; (b) la mancata
determinazione del compenso all’atto di nomina e (c) l’accettazione senza
riserva dell’incarico da parte dell’attore

(Massime a cura di Eugenio Sabino)




Sentenza del 19 gennaio 2022 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Angelica Castellani

Per quanto concerne la individuazione, nell’ambito di un giudizio
cautelare, del termine entro il quale le parti devono instaurare il giudizio di
merito, l’unico vincolo imposto alla discrezionalità
dell’autorità giudiziaria dalle norme sovranazionali è quello della “ragionevolezza”,
criterio da ritenersi, in ogni caso, rispettato qualora il termine fissato dal
giudice designato coincida con quello massimo stabilito dalla disposizione
generale di diritto interno ed esso sia compatibile con le esigenze di celerità
del processo e di provvisorietà degli effetti della tutela cautelare,
codificate dal legislatore internazionale e comunitario.

Principio espresso nell’ambito di un procedimento
civile ex art. 669-
novies, secondo
comma, c.p.c., promosso da una società per azioni ai fini dell’accertamento ad
opera del Tribunale dell’intervenuta inefficacia dell’ordinanza resa nel
procedimento cautelare di prime cure, stante la mancata instaurazione del
giudizio di merito nei termini perentori di cui al combinato disposto degli
articoli 132 del D. Lgs. n. 30/2005 (Codice della proprietà industriale) e 669-
octies
c.p.c.

(Massima a cura di Eugenio Sabino)




Sentenza del 3 gennaio 2022, n. 1 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Angelica Castellani

Qualora vengano contestate all’organo amministrativo,
in aggiunta alla violazione dell’art. 2486 c.c., specifiche operazioni dannose
che risultino perfezionate nel corso della fase di illegittima prosecuzione
dell’attività sociale (accertata nel suo carattere antigiuridico, in uno con
l’addebito logicamente presupposto di infedele rappresentazione in bilancio
della reale situazione economica, finanziaria e patrimoniale della società),
anche la porzione di depauperamento del patrimonio specificamente imputabile
alle suddette specifiche operazioni concorre alla formazione del risultato di
esercizio e, quindi, al deficit finale, senza che possano selezionarsi
perdite, direttamente e in via esclusiva, conseguenti ai singoli addebiti,
essendo soggetti a sterilizzazione i soli costi normali di liquidazione.

La valutazione della portata lesiva delle operazioni
dannose singolarmente contestate all’organo amministrativo risulta, pertanto,
assorbita dall’accertata lesività dell’illegittima prosecuzione dell’attività
d’impresa, per la quale il danno è stato quantificato non in via analitica,
bensì mediante il criterio presuntivo codificato dal terzo comma dell’art. 2486
c.c.; trattasi di un criterio utilizzabile qualora i dati contabili a
disposizione impediscano una ricognizione dell’aggravamento patrimoniale
specificamente riconducibile alle singole perdite operative nette derivate.

Nel caso di specie, il Tribunale
aveva rilevato che, pur ricorrendo la causa di scioglimento prevista dall’art.
2484, primo comma, n. 4), c.c., il convenuto avesse continuato a gestire la
società proseguendone l’attività, senza tuttavia provvedere alle iniziative
imposte dalla legge; con ciò aggravandone il dissesto. Su tali basi, i giudici
di secondo grado hanno condannato l’amministratore unico di una società – successivamente
dichiarata fallita – al risarcimento dei danni sofferti dalla società medesima
e dai creditori sociali derivanti dalle condotte di
mala gestio allo stesso
contestate.

(Massime a cura di Eugenio Sabino)




Sentenza del 1° dicembre 2021 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott. Lorenzo Lentini

Nel caso in cui l’inabilitazione di una delle parti costituite sia stata esclusivamente richiamata nel decreto di nomina del curatore, senza che nulla sia stato versato in atti dal difensore – ancorché astrattamente idonea a rilevare ai sensi dell’art. 300 c.p.c., trattandosi di un evento che incide sulla capacità della medesima – non determina, tuttavia, l’interruzione del giudizio, atteso che la dichiarazione ex art. 300 c.p.c. deve provenire dal difensore della parte colpita dall’evento interruttivo, non potendo il difensore della controparte validamente sostituirsi in tale attività (conf. Cass. n. 5002/97).  

In presenza di un patto fiduciario, avente ad oggetto un contratto di cessione delle quote, la domanda d’intestazione della quota può essere modificata in caso di inabilitazione della parte nominata e ciò, in quanto riconducibile nel limite tracciato dal criterio della unicità della vicenda sostanziale sottesa al giudizio (conf. Cass. n. 12310/15). La tardività della dichiarazione di nomina deve essere espressamente eccepita dalla parte interessata, non essendo rilevabile d’ufficio dal tribunale (conf. Cass. n. 12741/2007). Analoghe considerazioni possono essere formulate con riferimento alla tempestività dell’accettazione da parte del nominato e dell’eventuale revoca della nomina. 

Con la promessa del fatto del terzo, il promittente assume: (i) una prima obbligazione di “facere”, consistente nell’adoperarsi affinché il terzo si impegni o tenga il comportamento promesso, onde soddisfare l’interesse del promissario, ed (ii) una seconda obbligazione di “dare”, cioè di corrispondere l’indennizzo nel caso in cui, nonostante si sia adoperato, il terzo si rifiuti di obbligarsi o di tenere il comportamento oggetto della promessa; sicché, qualora l’obbligazione di “facere” non venga adempiuta e l’inesecuzione, totale o parziale, sia imputabile al promittente, il promissario avrà a disposizione gli ordinari rimedi contro l’inadempimento (quali la risoluzione del contratto, l’azione di inadempimento, l’azione di adempimento); mentre se, nonostante l’esatto adempimento dell’obbligazione di “facere”, il promissario non abbia ottenuto il risultato sperato a causa del rifiuto del terzo, diverrà attuale l’altra obbligazione di “dare”, in virtù della quale il promittente sarà tenuto a corrispondere l’indennizzo (conf. Cass. n. 24853/2014).

Principi espressi nel giudizio volto a ottenere l’emissione di una sentenza ex art. 2932 c.c., che produca gli effetti del contratto di cessione della quota pari al 100% del capitale sociale della s.r.l. – di titolarità del convenuto (amministratore della s.r.l.) – oggetto di un patto fiduciario, in base al quale la quota avrebbe dovuto essere trasferita al fiduciante ovvero a persona da nominare, a semplice richiesta del medesimo. Nel caso di specie, pertanto, si eccepiva l’inadempimento del fiduciario (i.e. dell’amministratore della s.r.l.) per non aver ottemperato alla richiesta di presentarsi avanti al notaio per la sottoscrizione dell’atto di cessione.

Con la prima memoria ex art. 183, sesto comma, c.p.c. l’attore (nel caso di specie il fiduciante) modificava la domanda e chiedeva l’emissione della pronuncia costitutiva a favore di sé stesso, esponendo di avere revocato l’atto di nomina in ragione dell’incidente occorso nel frattempo all’altro attore; incidente che lo aveva reso asseritamente inidoneo all’assunzione della carica di socio unico della s.r.l.

Il Tribunale riteneva la domanda ammissibile: i) per l’unicità della vicenda sostanziale sottesa al giudizio; e ii) per il fatto che il convenuto non aveva eccepito specificamente la tardività, sul piano sostanziale, della dichiarazione di revoca della nomina, limitandosi a sollevare la questione sul piano meramente processuale, sotto il profilo dell’ammissibilità della nuova domanda di intestazione della quota.

Ritenuto che la condizione della liberazione del fiduciario da eventuali garanzie prestate non risultava pattuita dalle parti, anche a volere ipotizzare l’assunzione di tale impegno, la condotta del convenuto integrerebbe comunque un inadempimento del negozio fiduciario, in quanto: i) la richiesta di restituzione della quota, risultava successiva all’introduzione del presente giudizio; ii) si era già formato l’accordo delle parti in ordine al momento in cui avrebbe dovuto essere assunto l’impegno alla liberazione dalle garanzie, con la conseguenza che il rifiuto del convenuto di presentarsi avanti al notaio, che avrebbe formalizzato tale impegno, appariva ingiustificato e arbitrario; e iii) l’impegno a liberare il fiduciario dalle garanzie costituiva invero una promessa del fatto del terzo. Alla luce di tali considerazioni, il Tribunale dichiarava l’inadempimento del convenuto e accoglieva la domanda attorea, disponendo il trasferimento della quota.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 1° dicembre 2021 – s. s., scioglimento per impossibilità di funzionamento della società e sopravvenuta impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale




Ordinanza del 29 novembre 2021 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

L’esistenza di una clausola compromissoria statutaria, che pacificamente devolve agli arbitri la cognizione delle controversie tra soci e società, non preclude la proposizione di istanze cautelari quando il collegio arbitrale non sia ancora stato costituito, prevalendo il principio di effettività della tutela giurisdizionale (cfr. Trib. Milano 2.12.2015).

In ambito societario, l’eventuale ostruzionismo di un socio o dell’amministratore non giustifica il ricorso da parte della maggioranza all’assunzione di decisioni extra-assembleari in difetto dei relativi presupposti. Pertanto, nel caso in cui: (i) l’opzione per il metodo assembleare sia stata esercitata dallo stesso socio che poi si è risolto ad avviare la procedura di consultazione scritta, deve escludersi che il singolo socio possa unilateralmente  revocare  la  propria  iniziativa,  una  volta  che  dell’argomento  sia  stata investita l’assemblea dei soci e quest’ultima non abbia ancora deliberato; (ii) la richiesta di rinvio dell’assemblea, formulata dal socio titolare di una partecipazione superiore a un terzo del capitale e motivata dall’insufficiente informazione sugli argomenti all’ordine del giorno, equivale, nei limiti cognitivi tipici della fase, a un’espressione anticipata della volontà che l’argomento sia oggetto di discussione, dichiarazione rilevante in quanto idonea a determinare, ai sensi dell’art. 2479, comma quarto, c.c., l’improcedibilità della procedura di consultazione scritta, dovendosi riconoscere che il luogo dove si realizza pienamente la dialettica tra soci è solo l’assemblea di cui all’art. 2479-bis c.c.; e (iii) la comunicazione recapitata dall’amministratore ai soci prima del perfezionamento della procedura di consultazione scritta, appare idonea a determinarne l’improcedibilità ai sensi dell’art. 2479, quarto comma, c.c., allora la delibera assembleare potrà essere dichiarata invalida.

La valutazione della sussistenza di un nesso causale fra l’esecuzione (ovvero la protrazione dell’efficacia) della deliberazione impugnata ed il pregiudizio temuto, implica l’apprezzamento comparativo della gravità delle conseguenze derivanti, sia al socio impugnante sia alla società, dall’esecuzione e dalla successiva rimozione della deliberazione impugnata. Così, il provvedimento cautelare di sospensione dell’efficacia della delibera potrà essere concesso soltanto ove si ritenga prevalente, rispetto al corrispondente pregiudizio che potrebbe derivare alla società per l’arresto subito alla sua azione, il pregiudizio lamentato dal socio (cfr. Trib. Roma 22.4.2018). 

Principi espressi nel giudizio promosso con ricorso ex art. 700 c.p.c. con il quale l’amministratore unico di una s.r.l. (con una partecipazione pari al 42% del capitale) chiedeva la sospensione degli effetti della delibera assembleare (avente ad oggetto la revoca dell’amministratore unico e la nomina del nuovo amministratore), impugnata con giudizio arbitrale in ossequio alla clausola compromissoria statutaria.

In particolare, il ricorrente riteneva nulla la delibera per i seguenti motivi: i) carenza della sottoscrizione dell’amministratore, requisito formale dallo statuto, per tale dovendosi intendere l’amministratore uscente e non già quello neonominato; ii) mancata trascrizione nel libro delle decisioni dei soci, in violazione dell’art. 2478 c.c.; iii) eccesso di potere, in quanto la delibera era motivata dall’interesse extrasociale perseguito dalla maggioranza.

Sotto il profilo del periculum in mora, il ricorrente evidenziava il pregiudizio derivante dall’adozione di una delibera in spregio alle regole di legge e statutarie, violazioni grazie alle quali era stato possibile nominare un amministratore inidoneo perché privo di adeguate competenze tecniche e dei necessari requisiti professionali.

Rilevato che il pregiudizio a carico del ricorrente era implicito nella lesione integrale del suo diritto di intervento –  strumento fondamentale per il corretto esplicarsi del processo decisionale di pertinenza dei soci, lesione ancora più grave se si considera l’importanza dell’oggetto della delibera (i.e. la nomina dell’organo di gestione) materia riservata alla competenza dei soci ai sensi dell’art. 2479 c.c., trattandosi di una ipotesi di periculum quasi in re ipsa – e che non vi era alcun pregiudizio per la controparte derivante dalla sospensione dell’efficacia della delibera (ben potendo la s.r.l. assumere in tempi rapidi una nuova delibera a contenuto analogo a quella qui impugnata, ma nel rispetto delle regole previste dalla legge e dallo statuto), il Tribunale accoglieva il ricorso e disponeva la sospensione dell’efficacia della delibera, con conseguente reintegro dell’amministratore revocato. 

Il Tribunale esaminando il fumus del ricorso rilevava che l’eventuale inerzia imputata al precedente amministratore non esonerava evidentemente la s.r.l. dal rispetto delle regole procedimentali previste per la formazione della volontà dei soci, fermo restando che i soci ostili all’amministratore avrebbero potuto introdurre un procedimento cautelare di revoca per giusta causa, laddove veramente convinti che il medesimo stesse ostacolando, in ragione di un interesse personale, il corretto funzionamento degli organi sociali. 

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Tribunale di Brescia, ordinanza dell’11 novembre 2021 – società di capitali, società a responsabilità limitata, fusione, opposizione dei creditori, autorizzazione a procedere

Il procedimento di autorizzazione a procedere alla fusione nonostante l’opposizione di un creditore ex artt. 2503, ult. co., e 2445, ult. co., c.c.ha natura cautelare: lo si inferisce principalmente dalla natura contenziosa dell’opposizione, che è assimilabile, per taluni profili, all’azione revocatoria, in quanto volta a tutela della garanzia patrimoniale generica ed avente ad oggetto il carattere pregiudizievole dell’operazione rispetto alla posizione dei creditori anteriori all’iscrizione del progetto di fusione.

Milita nella medesima direzione anche il fattore strutturale, alla stregua del quale il procedimento di autorizzazione non può che aprirsi in via incidentale, una volta introdotto il giudizio di cognizione piena. L’ autorizzazione a procedere alla fusione nonostante l’opposizione presuppone, infatti, l’accertamento giudiziale, sia pure in via sommaria, della stessa situazione controversa fra le parti nell’ambito del giudizio contenzioso di opposizione sul carattere pregiudizievole o meno dell’operazione contestata.

L’istanza da parte delle società coinvolte nell’operazione di essere autorizzate a procedere comunque alla fusione, in quanto volta alla rimozione degli effetti di sospensione ex lege di quest’ultima conseguenti all’opposizione proposta, non può dar luogo, in ragione della matrice contenziosa, ad un procedimento di volontaria giurisdizione, ma dà origine ad un procedimento di natura cautelare in corso di causa c.d. a parti invertite, nell’ambito del quale va sommariamente apprezzata anche la fondatezza delle ragioni di opposizione (cfr. Trib. Milano, 20.12.2018; Trib. Milano, 20.8.2015; Trib. Milano, 18.7.2011; Trib. Genova, 13.7.2010).

Detto procedimento, condividendo la natura contenziosa del giudizio di opposizione, si caratterizza per una funzione anticipatoria del contenuto definitivo della sentenza, nel contemperamento degli opposti interessi della società debitrice coinvolta nella fusione e del suo creditore, con finalità cautelare rispetto alla definizione degli stessi.

Nel giudizio di opposizione alla fusione, il rischio di un pregiudizio alle ragioni creditorie dell’opponente deve essere accertato valutando le possibilità di soddisfacimento del credito avendo come riferimento, da un lato, le garanzie economico-patrimoniali che la società debitrice offre prima della fusione, e, dall’altro, le garanzie che, dopo la fusione, offrirebbe la società che rimane o che diviene comunque debitrice. Grava perciò sul creditore opponente l’onere di provare il pregiudizio arrecatogli dalla fusione, mentre nel procedimento cautelare di autorizzazione alla fusione incombe sulla società interessata all’operazione la prova dell’inesistenza del pregiudizio al creditore opponente, sia pure tenendo conto dei fatti da questo dedotti nel giudizio di opposizione.

Il peggioramento qualitativo delle condizioni della garanzia patrimoniale offerta all’opponente nel passaggio dallo scenario ante fusione a quello post fusione nulla dice, in realtà, sul rischio di pregiudizio per il medesimo, dovendosi prendere in esame, ai fini della valutazione, anche gli aspetti economico-finanziari che, in chiave prospettica, caratterizzano l’operazione oggetto di contestazione. In particolare, tale rischio può essere escluso qualora la consulenza tecnica espletata abbia evidenziato che i margini operativi generati dal business sarebbero sufficientemente capienti da sopportare i debiti contratti dalla società debitrice, consentendo la maturazione di utili.

Principi espressi in occasione di un giudizio di opposizione alla fusione promosso dal creditore di una società di capitali coinvolta in tale operazione ai sensi dell’art. 2503, ult. co., c.c. La società debitrice, costituendosi in detto giudizio, aveva formulato un’istanza ex artt. 2503, ult. co., e 2445, ult. co., c.c. volta ad ottenere l’autorizzazione a procedere comunque alla fusione, attesa l’infondatezza dell’opposizione e l’assenza di qualsiasi pregiudizio per il creditore opponente.

(Massime a cura di Carola Passi)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 25 ottobre 2021 – s.s., nuova istanza di sospensione delibera esclusione soci basata su circostanze sopravvenute




Sentenza del 5 febbraio 2020 – Presidente: Dott. Donato Pianta – Consigliere relatore: Dott. Giuseppe Magnoli

Attesa
l’autonomia tra i giudizi civile e penale nonché la diversità del regime
probatorio e di responsabilità ivi operante (sia con riferimento al tema del
riparto dell’onere probatorio sia con riferimento alla responsabilità solo
dolosa, per l’imputazione in ambito penale, ed invece anche colposa, in sede
civile), l’accertamento contenuto nella sentenza penale in relazione alla
condotta tenuta dall’amministratore non costituisce un vincolo per il giudice
civile nella definizione della lite.

In
tema di responsabilità degli amministratori, a fronte dell’addebito
all’amministratore unico per non aver richiesto ed ottenuto dai soci il
versamento delle quote residue di capitale sociale, l’unica replica utile è
quella costituita dalla dimostrata sollecitazione in tal senso e dall’avvenuto
versamento, a quello e non ad altro titolo, delle somme di danaro ancora dovute
dai soci alla società. Né l’amministratore può sottrarsi alla responsabilità –
per il danno che ne è derivato alla società e soprattutto ai relativi
creditori, con riferimento alla ridotta consistenza del patrimonio sociale a
ciò conseguita – attribuendo l’imputazione che assume (soltanto) erronea
all’operato di dipendenti o collaboratori. E ciò sia perché l’amministratore
risponde anche dell’operato di questi ultimi, sia perché tra gli oneri di
diligenza a suo carico rientra certamente anche quello di controllare l’operato
dei suoi collaboratori, soprattutto in quanto relativo ad operazioni
riconducibili, in ultima istanza, all’amministratore stesso.

I principi sono stati espressi nel giudizio
di appello promosso dall’ex socio e amministratore unico di una s.r.l. in
liquidazione, poi fallita, avverso la sentenza del Tribunale che aveva accertato
la sua responsabilità, quale amministratore unico, in relazione alle seguenti
condotte: (i) mancata richiesta ai soci del versamento del residuo capitale
sottoscritto, onere aggirato contabilmente tramite scritture contabili
artificiose; (ii) irregolare tenuta delle scritture contabili e compimento di
ulteriori operazioni contabili non chiare né trasparenti.

(Massime
a cura di Marika Lombardi)