Tribunale di Brescia, sentenza dell’8 aprile 2024, n. 1473 – invalidità deliberazione di esclusione del socio, legittimità della deliberazione, obbligo di motivazione

L’invalidità della deliberazione di esclusione del socio dalla compagine sociale può derivare anche da vizi inerenti alla completezza della motivazione dell’esclusione; infatti, tale delibera rientra in quel novero di decisioni degli organi sociali che sono soggette all’obbligo di motivazione, funzionale ad assicurare il diritto di difesa del socio in sede di opposizione nonché a consentire il controllo dell’organo giudicante sulla legittimità della deliberazione (cfr. Cass. n. 15647/2020).

La legittimità della delibera di esclusione del socio è ravvisabile, oltre che dall’effettiva ricorrenza della causa di esclusione sottesa al provvedimento di estromissione impugnato e dalla sua riconducibilità fra quelle previste dalla legge ovvero dallo statuto, anche dalla congruità della motivazione adottata a sostegno dell’esclusione, restando preclusa soltanto l’indagine sull’opportunità del provvedimento.

L’obbligo di motivazione nella delibera di esclusione può ritenersi assolto allorquando comprenda l’enunciazione degli addebiti sollevati nei confronti del socio, che integrino violazioni di gravità tale da giustificare, per legge o statutariamente, la sua esclusione dalla compagine sociale. Ciò, in quanto, non può ritenersi superata dalla dedotta previa conoscenza da parte del socio degli addebiti sollevati nei suoi confronti.

Principi espressi nel giudizio di opposizione promosso da una società semplice avverso la delibera di esclusione del socio dalla compagine sociale, adottata dal Consiglio di amministrazione di una società agricola cooperativa a responsabilità limitata.

In particolare, l’opponente lamentava: i) l’irregolarità della notifica; ii) la genericità del contenuto della delibera per omessa indicazione dei motivi di esclusione; e iii) l’assenza di giustificati motivi addebitabili al socio ai fini della sua esclusione.

(Massime a cura di Edoardo Compagnoni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 3 aprile 2024, n. 1389 – impugnazione della delibera di approvazione del bilancio di esercizio, legittimazione attiva e passiva, abuso di maggioranza

Il socio-amministratore di una società di capitali è legittimato all’impugnazione della delibera assembleare di approvazione del bilancio anche nell’ipotesi in cui, nella sua qualità di membro dell’organo amministrativo, abbia precedentemente contribuito all’approvazione del relativo progetto di bilancio, posto che l’art. 2379 c.c., sancendo la legittimazione ad agire per la declaratoria della nullità di “chiunque vi abbia interesse”, non prevede, in relazione a tale evenienza, alcuna restrizione al diritto di impugnazione e  che la parte, esercitando funzioni e ruoli distinti (quello di socio e quello di amministratore), ben può esprimere due diverse valutazioni, senza violare il divieto di venire “contra factum proprium” (cfr. Cass. n. 29325/2020; Cass. n. 15592/2000; Cass. n. 16388/2007).

Nei giudizi di impugnazione di deliberazioni assunte dall’assemblea di società di capitali, legittimata passiva è unicamente la società, dalla quale promana la manifestazione di volontà che è oggetto dell’impugnazione. I singoli soci – che laddove assenti, dissenzienti o astenuti sono titolari del diritto all’impugnativa unitamente agli amministratori e al collegio sindacale – non sono legittimati a resistere all’azione, potendo al più intervenire in giudizio in posizione che la giurisprudenza qualifica come adesivo-dipendente rispetto alle ragioni della società, posizione dalla quale non deriva il diritto all’autonoma impugnazione della sentenza. I soci, d’altra parte, per espressa previsione di legge (cfr. art. 2377, co. 7, c.c. applicabile alle s.r.l. in forza del richiamo contenuto all’art. 2479-ter, ult.co., c.c.), anche ove non impugnanti o parti in causa, subiscono gli effetti dell’annullamento della deliberazione, seppur in via riflessa e non diretta (cfr. in motivazione Cass. n. 4652/2006).

In caso di impugnazione della delibera di approvazione del bilancio per anomalie connesse al risultato finale di esercizio, rapportato ai risultati degli anni precedenti, è necessaria una contestazione specifica delle voci del bilancio e non è sufficiente una doglianza di difetto di chiarezza delle cause del saldo positivo o negativo, posto che il risultato finale di esercizio è l’esito della differenza tra ricavi e costi di una azienda (potendo essere positivo – utile – se i ricavi sono maggiori del totale dei costi e negativo – perdita – se i costi superano i ricavi) ed è, pertanto, la conseguenza delle varie componenti, attive e passive, registrate nel documento informativo.

In caso di impugnazione di una delibera assembleare per abuso della maggioranza, è necessaria la prova dell’interesse personale antitetico a quello sociale perseguito dalla maggioranza con la deliberazione impugnata, nonché della lesione, almeno potenziale, dei diritti di partecipazione o patrimoniali dei soci di minoranza operata a mezzo della decisione.

Principi espressi nel giudizio di impugnazione della deliberazione assembleare di approvazione del bilancio di esercizio di una società a responsabilità limitata, nel corso del quale gli attori avevano contestato la voce del bilancio “finanziamento soci”, l’andamento degli ultimi bilanci della società e avevano lamentato un presunto “abuso di maggioranza” (contestazioni rigettate nel merito dal Tribunale).

(Massime a cura di Vanessa Battiato)




Tribunale di Brescia, sentenza del 11 marzo 2024, n. 957 – successione, recesso eredi

La parte che abbia un titolo legale che le conferisca il diritto di successione ereditaria, come la vedova o i figli del “de cuius”, che sono eredi legittimi e legittimari, non è tenuta a dimostrare di avere accettato l’eredità, qualora proponga in giudizio domande che di per sé manifestino la volontà di accettare, gravando, in questi casi, su chi contesti la qualità di erede l’onere di eccepire la mancata accettazione dell’eredità ed eventualmente i fatti idonei ad escludere l’accettazione tacita, che appare implicita nel comportamento dell’erede (cfr. Cass. n. 21288/2011; Cass. n. 22223/2014; Cass. n. 6745/2018).

Quanto al diritto di recesso, l’art. 2473, primo comma, c.c. predetermina le ipotesi legali di recesso dalla s.r.l. contratta a tempo determinato, rimandando ai patti sociali per eventuali ulteriori ipotesi e per le modalità di esercizio.

Nel caso in cui non sia ancora stato deliberato l’aumento di capitale o la proroga del termine di durata della società, espressamente previsti dallo statuto quali ipotesi legittimanti il recesso del socio dissenziente o assente nelle relative decisioni, ogni ipotetica manifestazione di volontà, formalizzata o meno dagli eredi del socio secondo i canoni statutari, pervenuta prima della assemblea straordinaria in cui si sarebbe deliberata una delle predette decisioni legittimanti il recesso del socio dissenziente o assente, non avrebbe comunque potuto integrare valido esercizio del diritto di recesso. Gli eredi, infatti, solo all’esito della predetta deliberazione, formalizzato il proprio dissenso, avrebbero potuto esercitare validamente il diritto di recesso dalla società.

L’art. 2484, terzo comma, c.c. stabilisce che la pubblicità del fatto dissolutivo abbia efficacia costitutiva: ne consegue che la società non poteva considerarsi in stato di liquidazione prima e in mancanza dell’iscrizione presso l’ufficio del registro delle imprese della dichiarazione con cui gli amministratori avessero accertato la causa di scioglimento (i.e. decorso del termine), né la prosecuzione di fatto dell’impresa poteva integrare “revoca implicita” dello stato di liquidazione.

Va escluso che la volontà del socio di maggioranza di proseguire l’attività sociale sottoforma di s.r.l. unipersonale, integri la prova della “conoscenza” o addirittura dell’“accettazione” da parte dell’amministratore unico del recesso delle attrici e dunque valga quale attestazione della validità dello stesso.

Non può ritenersi violato l’art. 1337 c.c. dal socio superstite, quando dall’ordine del giorno contenuto nell’avviso di convocazione dell’assemblea straordinaria e dalle dichiarazioni rese a verbale dallo stesso si dava per acquisito il valido esercizio del diritto di recesso da parte degli eredi del de cuius, inducendo questi a non formalizzare con raccomandata il loro recesso dalla società a seguito della deliberata proroga del termine della stessa, circostanza legittimante il recesso del socio dissenziente o assente.

Principi espressi nell’ambito di un giudizio, dinanzi al Tribunale, volto ad accertare, in via principale, la validità del recesso esercitato dagli eredi del socio di minoranza di una s.r.l. e a far condannare quest’ultima a liquidare la loro quota di minoranza. In subordine, al fine di far condannare il socio di maggioranza e amministratore unico al risarcimento del danno arrecato ai soci di minoranza per violazione dei doveri di buona fede avendo indotto gli attori a ritenere validamente esercitato il recesso dalla società.

(Massime a cura di Edoardo Abrami)




Tribunale di Brescia, sentenza del 6 marzo 2024, n. 893 – trasporto aereo, trasporto di persone, responsabilità del vettore per danni derivati al passeggero da ritardo del volo, compensazione pecuniaria

Il vettore aereo operativo può ridurre del 50% la compensazione pecuniaria qualora il ritardo del volo non superi le quattro ore. La facoltà discrezionale accordata al vettore non può, tuttavia, tradursi in mero arbitrio, risultando perciò sindacabile in sede giurisdizionale, in caso di dissenso fra le parti, sotto i profili di ragionevolezza e buona fede.

Principi espressi nel giudizio di appello promosso da una incorporation contro la sentenza del Giudice di Pace per non aver riconosciuto la facoltà per il vettore aereo di ridurre l’importo della compensazione pecuniaria, dovuta al passeggero di un volo ritardato, al 50% ai sensi dell’art. 7, co. 2, del Regolamento (CE) n. 261/2004.

Il Tribunale, trattandosi di un ritardo assai prossimo alla soglia delle quattro ore e, dunque, inidoneo a giustificare il riconoscimento da parte della compagnia aerea della compensazione pecuniaria dimezzata, dichiarava la debenza della compensazione nell’intera misura ex art. 7, par. 1, Reg. (CE) n. 261/2004.

(Massime a cura di Luisa Pascucci)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 6 febbraio 2024 – società a responsabilità limitata, controllo dei soci non amministratori ex art. 2476, 2° co., c.c.

Il diritto del socio di s.r.l. previsto dall’art. 2476, 2° co., c.c., che contempla tanto il diritto di ricevere informazioni attraverso la richiesta di notizie sullo svolgimento degli affari, quanto il diritto alla consultazione dei libri sociali e relativa documentazione, consiste in un diritto potestativo di ampia portata, il cui esercizio non richiede alcuna specifica motivazione, né ammette alcun limite, salvo quelli tradizionali del: a) rispetto del canone generale di buona fede, b) contemperamento tra diritti parimenti meritevoli di tutela, sempre che sussistano i presupposti per un bilanciamento. In altre parole, il diritto di informazione non può essere oggetto di protezione laddove il suo esercizio sia animato da scopi meramente emulativi, laddove esso integri un’ipotesi di abuso del diritto o, infine, laddove esso contrasti con un preminente diritto altrui.

Ai fini del riconoscimento del diritto di cui all’art. 2476, 2° co., c.c. è irrilevante che in precedenza il socio non abbia manifestato interesse per la partecipazione sociale, posto che  tale diritto non è attribuito su base “premiale” in relazione all’esercizio “virtuoso” dei diritti sociali, né la sua esclusione può avere un fondamento di tipo “punitivo”.

Il semplice timore di impiego per finalità concorrenziali delle informazioni acquisite nell’esercizio del diritto di cui all’art. 2476, 2° co., c.c., non sorretto da adeguate allegazioni sul compimento effettivo di attività concorrenziale, non consente alla società di impedirne l’esercizio. Alla medesima conclusione deve giungersi nel caso sussista il timore di un utilizzo illecito di informazioni riservate ex art. 98 c.p.i., in assenza di adeguate allegazioni in merito alla tipologia ed al contenuto delle medesime, a maggior ragione qualora il socio istante abbia manifestato la disponibilità a sottoscrivere accordi di non divulgazione.

Il rifiuto della società a consentire l’accesso del socio alla documentazione sociale preclude di fatto la facoltà di quest’ultimo di svolgere un’adeguata due diligence, comprimendo indebitamente il suo diritto di alienare la quota detenuta.

Per quanto riguarda la dedotta mancanza di periculum in mora rilevante in sede cautelare, il diritto del socio ex art. 2476, 2° co., c.c. ha natura strumentale rispetto all’esercizio degli ulteriori diritti sociali, talché deve ritenersi che il tempestivo esercizio di questi ultimi non può che richiedere il tempestivo accesso alle informazioni e alla documentazione sociale. Nelle more del giudizio di cognizione il diritto sociale, cui l’accesso alla documentazione sociale risulta preordinato, verrebbe inevitabilmente compromesso, con pregiudizio non riparabile o non agevolmente riparabile per equivalente.

Principi espressi nell’ambito  di un procedimento  di reclamo avverso un’ordinanza cautelare richiesta dal socio di  una società a responsabilità limitata per l’accertamento del suo diritto, quale socio non amministratore, di avere dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare, anche tramite professionisti di sua fiducia, i libri sociali ed i documenti relativi all’amministrazione, come disposto dall’art. 2476, 2° co., c.c. Nell’ordinanza di rigetto del reclamo il Collegio precisa la portata  ed i limiti di tale diritto.

(Massime a cura di Edoardo Abrami)




Tribunale di Brescia, sentenza del 12 gennaio 2024, n. 117 – società a responsabilità limitata, azione sociale di responsabilità, responsabilità dell’amministratore unico

L’art. 2476, c. 3, c.c. legittima espressamente ciascun socio di s.r.l. a promuovere l’azione di responsabilità contro gli amministratori senza che sia necessario alcun atto autorizzativo da parte della società, e quindi anche in assenza di previa delibera assembleare. Infatti, nell’ambito della disciplina della s.r.l., non è riprodotta una disposizione analoga a quella di cui all’art. 2393, c. 1, c.c. e non pare possibile l’applicazione analogica delle norme in tema di s.p.a. alle s.r.l., a fronte delle differenze anche strutturali tra i due tipi di società e della scelta legislativa di differenziare le due discipline. Essendo ciascun socio della s.r.l. legittimato all’azione di responsabilità sociale, senza alcuna limitazione in merito alla percentuale di quote possedute, sarebbe incoerente con tale previsione imporre alla società, diretta danneggiata, di promuovere l’azione sociale solamente previa delibera assunta con le maggioranze previste dal codice o dallo statuto.

Nell’ambito dell’azione di responsabilità introdotta dai soci nei confronti dell’amministratore, la società, pur formalmente convenuta (in quanto litisconsorte necessario), assume la veste sostanziale di attrice, quantomeno in considerazione del fatto che essa è la beneficiaria della domanda di condanna formulata dai soci.

Come affermato dalla giurisprudenza precedente, «l’azione di responsabilità sociale promossa contro amministratori e sindaci di società di capitali ha natura contrattuale, dovendo di conseguenza l’attore provare la sussistenza delle violazioni contestate e il nesso di causalità tra queste e il danno verificatosi, mentre sul convenuto incombe l’onere di dimostrare la non imputabilità del fatto dannoso alla sua condotta, fornendo la prova positiva dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi imposti» (cfr. Cass. n. 2975/2020). Tale onere probatorio non si atteggia in modo diverso nel caso in cui l’azione sociale sia promossa dai soci, trattandosi di una mera sostituzione processuale. Ne deriva che, in un giudizio nel quale sia contestato l’utilizzo del denaro della società da parte dell’amministratore unico, è onere della parte attrice allegare l’effettuazione di operazioni non connesse all’oggetto sociale o comunque all’attività della società, con ciò allegando l’inadempimento dei doveri incombenti sullo stesso a tutela del patrimonio aziendale, il danno e il nesso di causa tra l’inadempimento e il danno. È invece onere del convenuto provare che tali prelievi erano in qualche modo giustificati o che sono stati eseguiti da terzi.

Princìpi espressi nell’ambito di un giudizio instaurato a seguito dell’esercizio, da parte di due soci di una società a responsabilità limitata semplificata, dell’azione sociale di responsabilità contro il precedente amministratore unico, nel corso del quale gli attori avevano chiesto la condanna di quest’ultimo al risarcimento di asseriti danni subiti dalla società derivanti dall’utilizzo di denaro da parte dell’amministratore a favore di se stesso e di terzi (nel caso di specie, anche a seguito dell’assunzione di prove testimoniali, il Tribunale ha tuttavia riconosciuto che le somme prelevate erano dovute all’amministratore ed esigibili a titolo di compenso per l’attività svolta in virtù di accordi non formalizzati tra i soci).

(Massime a cura di Vanessa Battiato)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza dell’8 gennaio 2024, n. 63 – arbitrato, lodo irrituale, motivi di impugnazione, errore essenziale di fatto, legittimazione passiva dell’arbitro

Il lodo arbitrale irrituale reso ai sensi dell’art. 808-ter c.p.c., producendo i suoi effetti sostanziali esclusivamente nei confronti delle parti, può essere impugnato soltanto da chi abbia assunto tale veste nel procedimento in cui esso è stato pronunciato. Sicché, l’arbitro non è legittimato a promuovere autonomamente l’impugnazione del lodo né è, in astratto, munito di legittimazione passiva in sede di impugnazione del medesimo, essendo in posizione di terzietà rispetto alle parti e non potendo far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui fuori dei casi espressamente previsti dalla legge (Cass., 2357/2017).

Se è certamente vero che gli effetti del lodo irrituale si producono esclusivamente nei confronti delle parti sostanziali dell’arbitrato e che l’arbitro non è legittimato a promuovere autonomamente l’impugnazione, ai fini della valutazione sulla legittimazione passiva dell’arbitro in sede di impugnazione del lodo irrituale, devono essere presi in considerazione i motivi specifici di impugnazione in relazione alla natura del lodo irrituale, deve considerarsi che questi risolve la controversia attraverso uno strumento strettamente negoziale. Attesa dunque la natura negoziale dell’arbitrato irrituale, il relativo lodo deve ritenersi impugnabile, oltre che per i motivi previsti dall’art. 808-ter c.p.c., anche come atto negoziale, ossia anche per i vizi che sono causa di nullità o di annullabilità del contratto. Pertanto, ancorché gli effetti del lodo irrituale riguardino le sole parti sostanziali dell’arbitrato, laddove sia dedotto un vizio della volontà dell’arbitro, quest’ultimo sarà dotato di legittimazione passiva a contraddire sul punto.

Nell’arbitrato irrituale, il lodo può essere impugnato per errore essenziale esclusivamente quando la formazione della volontà degli arbitri sia stata deviata da un’alterata percezione o da una falsa rappresentazione della realtà e degli elementi di fatto sottoposti al loro esame (c.d. errore di fatto), e non anche quando la deviazione attenga alla valutazione di una realtà i cui elementi siano stati esattamente percepiti (c.d. errore di giudizio); con la conseguenza che il lodo irrituale non è impugnabile per “errores in iudicando” (come è invece consentito, dall’ultimo comma dell’art. 829 cod. proc. civ., quanto al lodo rituale) (Cass., 7654/2003). Pertanto, ai fini dell’impugnativa della determinazione negoziale, l’errore che rileva è soltanto quello di fatto essenziale che abbia inficiato la volontà degli arbitri per effetto di una falsa rappresentazione dei fatti dedotti. Non sarà, invece, sufficiente, l’errore consistente nell’omessa considerazione di un documento probatorio.

L’inadeguatezza della motivazione del lodo irrituale non rientra tra i motivi di impugnazione di cui all’art. 808-ter c.p.c. né. Tantomeno, tra i vizi suscettibili di rendere annullabile la determinazione arbitrale. La stesura di una motivazione inadeguata, tuttavia, può costituire una violazione del dovere di diligenza incombente sull’arbitro e potrà dunque essere fatta valere a titolo di responsabilità per inadempimento negoziale. Tale responsabilità, anche se accertata, non è tuttavia capace di incidere sulla validità della deliberazione da questi assunta, se non dipende da una sua errata percezione della realtà.

I princìpi esposti sono stati espressi nell’ambito di una controversia riguardante l’impugnazione di un lodo irrituale pronunciato all’esito di un giudizio di responsabilità degli amministratori di una società a responsabilità limitata in liquidazione ex art. 2476, co. 7, c.c., insorta tra una società in liquidazione (contumace) e i suoi amministratori, da un lato, e i suoi soci e i relativi fideiussori dall’altro, nonché nei confronti dell’arbitro unico. I soci e i loro fideiussori, soccombenti in sede arbitrale in merito all’asserita responsabilità degli amministratori della società in liquidazione, promuovevano molteplici doglianze denunziando: (i) l’omessa pronuncia dell’arbitro rispetto a una domanda di risarcimento del danno diretto; (ii) l’errore essenziale di fatto dell’arbitro unico consistente nell’aver ignorato la documentazione prodotta relativa al valore di stima di un compendio immobiliare; (iii) l’inadeguatezza di parte della motivazione della decisione resa dall’arbitro unico; (iv) l’errore essenziale di fatto dell’arbitro unico consistente nell’aver liquidato, a titolo di risarcimento, una somma inferiore rispetto a quella asseritamente dovuta; (v) l’errore essenziale di fatto dell’arbitro unico nell’aver escluso il risarcimento del danno patito dai fideiussori per la mancata liberazione dalla garanzia prestata; e (vi) l’errore (non essenziale di fatto) dell’arbitro unico nella liquidazione delle spese, in relazione al principio di soccombenza. La Corte d’appello ha ritenuto tutte le doglianze prive di fondamento ha integralmente rigettato l’opposizione proposta.

(Massime a cura di Leonardo Esposito)




Tribunale di Brescia, sentenza dell’8 gennaio 2024, n. 62 – Responsabilità dell’amministratore di s.r.l., Business judgment rule

Non può essere considerato responsabile nei confronti della s.r.l. gestita l’amministratore unico che abbia deciso di aderire ad un sistema fiscale meno favorevole in ragione dell’elevata incertezza relativa al rispetto dei requisiti richiesti per usufruire di un regime impositivo più vantaggioso, incertezza che avrebbe esposto la società al rischio significativo di contenzioso in sede tributaria e, in caso di soccombenza, all’obbligo di versamento di maggiori imposte, sanzioni e interessi.

L’amministratore di una società non risponde necessariamente degli (eventuali) risultati economici negativi dell’attività di impresa, ma solo quando tali risultati risultino conseguenza di scelte operate in violazione dell’obbligo di “agire informato” o caratterizzate da manifesta irragionevolezza (così Cass. n. 3409/2013).

La regola della business judgement rule assume una conformazione peculiare nel caso di esercizio di un’attività di impresa agricola poiché tale attività, per sua natura, sopporta, accanto alla naturale alea propria di ogni attività di impresa, l’ulteriore rischio “biologico” derivante dalla inevitabile soggezione alle incertezze dell’ambiente naturale.

Non può ritenersi in contrasto con l’obbligo di agire informato l’operato dell’amministratore che abbia fatto ricorso all’ausilio di professionisti per la necessaria assistenza tecnica in materia altamente specialistica e connotata da particolare incertezza applicativa, come quella fiscale.

Principi espressi nel contesto di un’azione di responsabilità promossa ex art. 2476, 3° co., c.c. da alcuni  soci di una s.r.l. che svolge attività agricola nei confronti dell’amministratore unico. Parte attrice sosteneva che la scelta dell’amministratore di adottare per un triennio il regime di tassazione ordinario dei redditi di impresa avrebbe comportato un danno alla società in termini di maggiori oneri fiscali sostenuti. Il tribunale ha rigettato integralmente la domanda, condannando gli attori alla rifusione delle spese di giudizio.

(massime a cura di Giovanni Gitti)




Tribunale di Brescia, sentenza del 28 novembre 2023, n. 3054 – azione di responsabilità promossa dalla curatela ex art. 146, co. 2, L. fall, prescrizione, onere probatorio, mala gestio

Il termine di prescrizione dell’azione di responsabilità dei creditori sociali esercitata dalla curatela fallimentare decorre dal momento della oggettiva percepibilità, da parte dei creditori, dell’insufficienza dell’attivo a soddisfare i debiti sociali. Al riguardo è onere degli amministratori (e dei sindaci) fornire la prova della data di inizio della decorrenza della prescrizione attraverso la deduzione di fatti sintomatici dell’incapienza patrimoniale che si siano (eventualmente) verificati precedentemente alla dichiarazione di fallimento (che costituisce, secondo l’id quod plerumque accidit,il momento storico in cui l’incapienza patrimoniale risulta, senza dubbio, conoscibile ai creditori ed è, pertanto, oggetto di una presunzione juris tantum).

Ai fini della esperibilità dell’azione di responsabilità dei creditori sociali, la conoscenza dello stato di “depatrimonializzazione” di una società decorre dal momento della pubblicazione nel Registro delle Imprese del bilancio dal quale risulti una completa erosione del capitale sociale.

La mancata consegna al curatore da parte del liquidatore della contabilità relativa ad alcuni esercizi non è di per sé sintomatica della mancanza, distruzione o irregolarità originaria della stessa.

Princìpi espressi nel giudizio promosso da una curatela fallimentare al fine di ottenere l’accertamento della responsabilità contrattuale ed extra-contrattuale di amministratori e sindaci per atti di mala gestio e/o di omesso controllo, nonché la relativa condanna in via tra loro solidale al risarcimento dei danni derivati alla società ed ai creditori sociali.

(Massima a cura di Giulio Bargnani)




Tribunale di Brescia, sentenza del 27 novembre 2023, n. 3018 – nullità delle deliberazioni assembleari, mala gestio, responsabilità degli amministratori, azione di responsabilità

L’azione di accertamento della nullità delle deliberazioni assembleari di una società “postula un interesse che, oltre a dover essere concreto ed attuale, si riferisca specificamente all’azione di nullità, non potendo identificarsi con l’interesse ad una diversa azione” (Cass. n. 16159/2017). Il principio di diritto enunciato vale, a maggior ragione, con riferimento all’azione volta a ottenere l’annullamento della delibera, tenuto conto della minore intensità del vizio.

“Il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione, le modalità nonché le circostanze di tali scelte, anche se presentino profili di rilevante alea economica”. Detto giudizio riguarda, invece, solo “la diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere, e quindi, l’eventuale omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità” (Cass. n. 3409/2013).

L’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore di una società di capitali – per consentire alla controparte un’adeguata difesa, nel rispetto del principio processuale del contraddittorio – deve sin dall’inizio sostanziarsi nell’indicazione dei comportamenti asseritamente contrari ai doveri imposti agli amministratori dalla legge o dallo statuto sociale (Cass. n. 23180/2006).

Princìpi espressi nell’ambito del giudizio promosso da alcuni soci di una società a responsabilità limitata per sentir dichiarare la nullità (o in subordine l’annullamento) della delibera assembleare con la quale l’assemblea della medesima società aveva respinto a maggioranza la richiesta di promuovere l’azione sociale di responsabilità nei confronti di alcuni amministratori cessati e dell’attuale amministratore unico, nonché per ottenere la condanna di questi ultimi, previo accertamento della loro responsabilità per atti di mala gestio, al risarcimento dei danni cagionati alla società.


(Massime a cura di Simona Becchetti)