Ordinanza del 13 luglio 2018 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott. Lorenzo Lentini

In tema di sequestro conservativo, deve ritenersi sussistente il requisito del fumus boni iuris laddove l’amministratore unico di una società a responsabilità limitata, poi fallita, abbia omesso di accertare, sulla base delle risultanze del bilancio di esercizio, l’avvenuta verificazione della causa di scioglimento di cui all’art. 2484, co. 1, n. 4), c.c. e di assumere i provvedimenti di cui all’art. 2482-ter c.c.

Ai fini della concessione della misura cautelare del sequestro conservativo, il requisito del periculum in mora può essere integrato, in via anche alternativa, sia da elementi oggettivi, riguardanti la consistenza del patrimonio del debitore sotto il profilo qualitativo (ad esempio liquidità dei beni ivi inclusi) e quantitativo, in rapporto all’entità del credito fatto valere, sia da elementi soggettivi, connessi al comportamento del debitore, laddove quest’ultimo agisca con modalità tali da accrescere il ragionevole rischio di depauperamento del patrimonio ovvero da evidenziare la sua intenzione di sottrarsi all’adempimento.

In particolare, sotto il profilo del periculum c.d. soggettivo, assume rilievo la mancata tenuta delle scritture contabili, la quale costituisce una circostanza sintomatica di un atteggiamento di trascuratezza e disinteresse verso le sorti della società, dalla quale non è ragionevole desumere alcuna prognosi favorevole circa la spontanea salvaguardia della garanzia patrimoniale generica dovuta ai creditori (conf. Trib. Milano 28.05.2017).

Sotto il profilo del periculum c.d.  oggettivo, può assumere rilevanza l’esistenza di controversie in materia successoria idonee a compromettere l’integrità del patrimonio delle parti.

 Nell’ambito dei giudizi di responsabilità degli amministratori di società fallite ex art. 146 l. fall. il criterio di quantificazione del danno più adeguato è quello dei c.d. “netti patrimoniali”, il quale consente di apprezzare l’effettivo contributo del soggetto, anche sul piano causale, alla verificazione del pregiudizio concretamente ascrivibile alla condotta lamentata, che nel caso di specie è rappresentata dalla illegittima prosecuzione dell’attività sociale.

I principi sono stati espressi nei giudizi di reclamo promossi dall’amministratore unico e dagli amministratori “di fatto” di una società a responsabilità limitata, poi fallita, avverso l’ordinanza che aveva concesso il sequestro conservativo ai danni dei medesimi, pronunciata nell’ambito di un’azione di responsabilità ex art. 146 l. fall. 

Al riguardo, i reclamanti contestavano la sussistenza del fumus boni iuris e del periculum in mora, nonché il criterio di quantificazione del danno, concludendo per la revoca del provvedimento cautelare.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza del 19 giugno 2018 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

Il diritto del socio di cui all’art. 2476, 2° co., c.c. incontra come unico limite il rispetto del principio di buona fede e correttezza nel rapporto sociale, sicché difficoltà di tipo economico o organizzativo della società non possono essere di ostacolo al suo concreto esercizio (conforme a Trib. Roma 15.1.2015).

La tutela della riservatezza dei dati aziendali, in caso di esercizio da parte del socio del diritto di controllo di cui all’art. 2476, 2° co., c.c., funge da “compasso” per la concreta individuazione dei confini oggettivi di tale diritto,  specie  qualora emergano elementi sintomatici di una potenziale fattispecie di concorrenza sleale a danno della società. In tali situazioni, il giudice è tenuto ad adottare una soluzione interpretativa idonea a mitigare il rischio dell’eventuale adozione da parte del socio di comportamenti abusivi e potenzialmente lesivi dell’interesse sociale, che si traduce in una sensibile limitazione dell’ambito oggettivo del diritto di controllo (conforme a Trib. Milano, 8.5.2014). In quest’ottica la società può essere autorizzata a non rivelare i segreti commerciali ex artt. 98 e 99 c.p.i. e le informazioni idonee a conferirle un vantaggio competitivo nei confronti di imprese concorrenti, purché la stessa motivi in modo puntuale le ragioni della natura riservata dell’informazione omessa.

Principi espressi in ipotesi di accoglimento del ricorso promosso ex art. 669-duodecies c.p.c. con il quale era stata domandata la determinazione delle modalità di attuazione all’ordinanza, pronunciata ex artt. 700 c.p.c. e 2476 c.c., che aveva ordinato ad una s.r.l. di consentire ad un socio di minoranza la consultazione, anche per mezzo di un professionista di fiducia, di alcuni libri sociali e documenti relativi all’amministrazione sociale (più precisamente, libro soci, libro delle adunanze e delle deliberazioni dell’assemblea e del consiglio di amministrazione, nonché registri IVA, dichiarazioni fiscali, fatture emesse e fatture di acquisto del 2017, disponendo per questi ultimi che fossero “oscurati” i nominativi dei clienti e dei fornitori nonché l’oggetto dei beni in essi indicati, “qualora inerenti alla produzione”).

Nel caso di specie, il ricorrente lamentava il ritardo con il quale la società aveva messo a disposizione la documentazione oggetto di esibizione; la decisione della stessa di impedirle l’accesso alla sede sociale per la consultazione di detta documentazione, avendo ritenuto sufficiente la sua trasmissione via p.e.c., e l’adozione di misure restrittive reputate eccessive, posto che le numerose parti oscurate dei documenti esibiti non avrebbero consentito di esercitare le sue prerogative sociali.

Ord. 19.6.2018

(Massima a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza del 28 aprile 2018 – Presidente relatore: Dott. Stefano Rosa

Deve ritenersi sussistente la legittimazione della società a responsabilità limitata ad esperire azione di responsabilità nei confronti degli amministratori ex art. 2476 c.c., in quanto l’attribuzione della predetta azione a ciascun socio, ai sensi dell’art. 2476, co. 3, c.c., non vale ad escludere l’interesse sociale alla pretesa risarcitoria.

La legittimazione de quo è tanto più sicura nel caso della responsabilità degli ex amministratori, ipotesi in cui la ratio ordinamentale non è tanto quella di attribuire un potere diffuso (a tutti i soci) di azione per eludere il conflitto di interessi proprio dei soci di maggioranza-amministratori, ma di ricostruire con precisione il fondamento ed il contenuto della pretesa risarcitoria nei confronti della pregressa gestione amministrativa, compito certamente più agevole per la nuova amministrazione che per il singolo socio.

Ai fini della responsabilità di cui all’art. 2476 c.c., la direzione societaria di cui agli artt. 2497 e ss. c.c., in linea di principio, non può costituire base di pretese risarcitorie da parte della società che quel controllo-direzione abbia esercitato.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso da una s.r.l. nei confronti degli ex amministratori e componenti del consiglio di amministrazione ai fini dell’accertamento della responsabilità dei medesimi ex art. 2476 c.c.

La causa petendi era costituita dall’aver i convenuti asseritamente dato corso a violazione di legge per aver omesso, nell’esercizio della loro carica, di approvare e depositare bilanci societari per un periodo di tempo determinato, di convocare l’annuale assemblea dei soci, di amministrare con diligenza, buona fede e la correttezza richiesta nella gestione del patrimonio altrui, di aver impedito il controllo da parte dei soci mediante l’adozione di “idonei artifici” e di aver garantito “sovrafatturazioni” da parte delle aziende direttamente intestate agli ex consiglieri per importi tali da annullare il finanziamento e quindi il patrimonio netto della società attrice.

A conforto del petitumrisarcitorio l’attrice rilevava che si era palesato inesigibile il finanziamento a suo tempo dalla stessa erogato ad una s.r.l. controllata, discendente dalla dichiarazione di fallimento della debitrice, impegnata in un’iniziativa immobiliare asseritamente minata dalla determinazione contrattuale di “corrispettivi fuori mercato” e “sovraffatturazioni” a favore delle società appaltatrici e subappaltatrici appartenenti agli amministratori convenuti. 

Sul punto il Tribunale, accertata la carenza dei presupposti ai fini dell’applicazione dell’art. 2476 c.c., ha rigettato le domande formulate dalla società attrice.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 23 marzo 2018 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott. Stefano Franchioni

Ove alla stipula di un contratto preliminare segua ad opera delle stesse parti la conclusione del contratto definitivo, quest’ultimo costituisce l’unica fonte dei diritti e delle obbligazioni inerenti al particolare negozio voluto, in quanto il contratto preliminare, determinando soltanto l’obbligo reciproco della stipulazione del contratto definitivo, resta superato da questo, la cui disciplina, con riguardo alle modalità e condizioni, anche se diversa da quella pattuita con il preliminare, configura un nuovo accordo intervenuto tra le parti e si presume sia l’unica regolamentazione del rapporto da esse voluta. La presunzione di conformità del nuovo accordo alla volontà delle parti può, nel silenzio del contratto definitivo, essere vinta soltanto dalla prova di un accordo posto in essere dalle stesse parti contemporaneamente alla stipula del definitivo dal quale risulti che altri obblighi o prestazioni, contenuti nel preliminare, sopravvivono al contratto definitivo (conf., ex multis, Cass. n. 30735/2017). Conseguentemente, non può trovare applicazione la clausola compromissoria contenuta nel contratto preliminare, laddove la stessa non sia prevista anche nel definitivo ovvero in altro separato accordo contestualmente concluso. 

La prescrizione quinquennale di cui all’art. 2949, co. 1, c.c. opera con riguardo ai diritti che scaturiscono dal rapporto societario, e cioè dalle relazioni che si istituiscono fra i soggetti dell’organizzazione sociale in dipendenza diretta dal contratto di società o che derivano dallo svolgimento della vita sociale, mentre ne restano esclusi tutti gli altri diritti che trovano la loro ragion d’essere negli ordinari rapporti giuridici che una società (o il singolo socio) può contrarre al pari di ogni altro soggetto (conf., ex multis, Cass. n. 21903/2013). Pertanto, soggiacciono al termine di prescrizione ordinario i rapporti giuridici aventi titolo nel contratto di cessione di partecipazione azionaria stipulato tra il singolo socio e il soggetto acquirente della partecipazione ceduta.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso dal curatore fallimentare nei confronti dei soci di una s.p.a., con cui il medesimo chiedeva: (i) da un lato, la declaratoria di nullità per violazione dell’art. 2358 c.c. del contratto preliminare di cessione delle azioni stipulato tra di essi, quali promittenti venditori, e la società poi fallita, quale promissaria acquirente, nonché dei successivi contratti di vendita e, (ii) dall’altro, la condanna dei convenuti alla restituzione di quanto da ognuno di essi incassato a titolo di prezzo per la cessione.

I convenuti si costituivano in giudizio eccependo, preliminarmente, l’incompetenza/difetto di giurisdizione del tribunale adito in ragione della clausola compromissoria contenuta nel contratto preliminare (e non prevista nei definitivi), nonché il decorso della prescrizione quinquennale ex art. 2949 c.c. delle domande di nullità dei predetti contratti.

Sul punto il Tribunale, rilevato che le somme chieste in restituzione erano state corrisposte in forza dei singoli contratti di cessione (produttivi dell’effetto traslativo), e non del contratto preliminare, accertata l’infondatezza delle eccezioni di carenza di giurisdizione/incompetenza del tribunale adito e di prescrizione dell’azione di nullità, ha rigettato le domande preliminari formulate da parte convenuta, disponendo, con separata ordinanza, la prosecuzione del giudizio.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 22 marzo 2018 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott.ssa Alessia Busato

La condotta del socio-amministratore di una s.r.l. che consista nell’abusivo esercizio del diritto di voto in assemblea – come, ad esempio, nel caso di ostruzionismo all’approvazione del bilancio d’esercizio – non configura un’ipotesi di responsabilità ex art. 2476 c.c., neppure con riferimento al comma 7 dell’articolo medesimo, dal momento che non costituisce un contributo intenzionale al compimento di un diverso atto gestorio dannoso per la società e dovendosi ritenere presupposto imprescindibile, per l’applicazione della norma in esame, la concorrente responsabilità degli amministratori nella causazione del danno eziologicamente riconducibile all’atto deciso o autorizzato dal socio stesso

La responsabilità dell’amministratore non è invocabile in ordine all’opportunità o meno delle scelte gestionali e della loro eventuale incidenza negativa sul patrimonio societario, dal momento che la sua configurabilità esige piuttosto la ricorrenza di un fatto illecito, ossia di un comportamento che integri la violazione di obblighi specifici, inerenti alla carica, o generali.

Ricorre la situazione di conflitto di interessi del socio allorquando lo stesso sia portatore di un interesse extrasociale – antitetico e incompatibile rispetto a quello societario – che non possa essere perseguito dal socio se non mediante il corrispondente sacrificio dell’interesse societario. Nel perseguire l’interesse extrasociale, poi, il voto del socio in conflitto deve essere determinante per l’approvazione della deliberazione anche solo potenzialmente dannosa per la società.

Decisione resa con riferimento all’azione di responsabilità esercitata dal socio-persona giuridica di una s.r.l. nei confronti di un socio-amministratore che, in forza di previsioni statutarie, aveva de facto un diritto di veto sulle deliberazioni e assembleari e gestorie.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)




Sentenza del 22 marzo 2018 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott. Davide Scaffidi

Gli unici limiti entro cui
l’ordinamento riconosce al socio di una s.r.l. la legittimazione a promuovere
un’azione di responsabilità nei confronti di un altro socio sono quelli
previsti dall’art. 2476 settimo comma c.c., secondo cui i soci della s.r.l.
sono solidalmente responsabili con gli amministratori qualora abbiano
intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la
società, i soci, i terzi, in tal modo ingerendo nell’amministrazione della
società.

La mancata approvazione dei
bilanci da parte del socio, quand’anche illegittima, non integra il diverso
presupposto previsto dall’ art 2476 c.c. dal momento che, pur essendo
suscettibile di arrecare un pregiudizio in via di fatto alla società, in realtà
non costituisce un contributo intenzionale al compimento di un diverso atto
gestorio dannoso per la società, dovendosi ritenere presupposto imprescindibile
ai fini della configurazione della responsabilità solidale del socio ex art.
2476 settimo comma c.c., la concorrente responsabilità degli amministratori
nella causazione del danno eziologicamente riconducibile all’atto deciso o
autorizzato dal socio stesso.

L’ordinamento predispone
quali meccanismi di tutela contro la violazione degli obblighi di correttezza e
di collaborazione del socio nell’ambito della partecipazione alla vita
assembleare del socio, l’esclusione dello stesso dalla compagine sociale, o, in
ipotesi estrema, lo scioglimento della società per impossibilità di
funzionamento dell’assemblea.

Ricorre una situazione di
conflitto di interessi del socio quando lo stesso sia portatore di un interesse
extrasociale – antitetico e incompatibile rispetto a quello societario – che
non possa essere perseguito dal socio se non mediante il corrispondente
sacrificio dell’interesse societario.

La responsabilità dell’amministratore non è invocabile in ordine
all’opportunità o meno delle scelte gestionali e della loro eventuale incidenza
negativa sul patrimonio societario, dal momento che la sua configurabilità
esige piuttosto la ricorrenza di un fatto illecito, ossia di un comportamento
che integri la violazione di obblighi specifici, inerenti alla carica, o
generali.

La omessa o ritardata sottoscrizione del verbale del consiglio di
amministrazione da parte di uno degli amministratori non determina alcuna
invalidità della delibera dell’organo gestorio, ma, al più, una mera
irregolarità del relativo processo verbale.

Principi
espressi in ipotesi di rigetto di un’azione, proposta
nei confronti di un amministratore e socio di
società, per ottenere l’accertamento e la condanna al risarcimento, ex art.
2476 c.c., dei danni asseritamente cagionati da plurime condotte negligenti ed
ostative, in relazione, in particolare, ad un esercizio del diritto di voto
abusivo, per conflitto di interessi, nella “forma” del diritto di veto
consentito dall’assetto statutario.

Nel dettaglio la curia bresciana ha affermato che l’esercizio
di veto da parte del socio nella delibera di approvazione dei bilanci, pur
essendo suscettibile di arrecare un pregiudizio in via di fatto alla società,
non configura la fattispecie
disciplinata dall’art 2476 settimo comma c.c, in quanto difetta
della concorrente responsabilità degli amministratori nella causazione del
danno eziologicamente riconducibile all’atto deciso o autorizzato dal socio
stesso.

I giudici, inoltre, hanno ritenuto
che la  proposta, peraltro non approvata,
di azzerare i compensi degli amministratori non integra una situazione
conflitto di interessi, quando tale scelta è dettata dalla sola opportunità di
scongiurare l’avvio di procedimenti di verifica fiscale  nei confronti della società.

Sul punto, è stato sottolineato che, in tema di conflitto di interessi socio/amministratore e di compensi dell’amministratore, deve essere specificatamente allegata l’effettiva consistenza dell’interesse extrasociale perseguito dal socio nonchè di quello societario compromesso, non potendosi limitatare ad un generico risparmio di spesa causato dalla forte contrazione delle vendite  o da difficoltà di tipo fiscale.

(Massima
a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza del 19 marzo 2018, n. 840 – Giudice designato: dott. Stefano Rosa

In tema di successione nei contratti aziendali, è onere di chi invochi gli effetti “automatici” dell’art. 2558 c.c. comprovarne i presupposti e cioè che sia effettivamente intervenuta una cessione di azienda o di un ramo di azienda, secondo la definizione dell’art. 2555 c.c. A tal fine, alla pluralità di beni (ceduti) deve accompagnarsi il requisito dell’organizzazione attuale e non solo futura (conf. Cass. n. 21481/2009), sicché non può essere decisiva la astratta e statica idoneità del complesso di beni ad essere (divenire) azienda.

In particolare, ai fini dell’accertamento del subentroex legedel cessionario (del ramo) di azienda nel contratto di leasingfinanziario immobiliare, deve essere provata l’appartenenza del rapporto contrattuale ad una azienda di effettiva operatività (attuale, pregressa o potenziale) in capo al titolare (cedente), essendo presupposto dell’art. 2558 c.c. non il mero godimento del bene in leasing, ma il suo inserimento nella dinamica di impresa; né potrebbe, infatti, il contraente ceduto subire gli effetti propri della predetta norma esclusivamente sulla base della mera declamazione (ad opera delle parti dell’atto di cessione) dell’esistenza di un ramo aziendale e dell’appartenenza del bene oggetto del contratto di locazione a tale ramo, ovvero sulla base della mera intenzione del cessionario di utilizzare in modo produttivo gli immobili (e rapporti contrattuali di godimento) conferiti.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso dalla società Alfa s.r.l. (cessionaria del ramo di azienda) nei confronti della società Beta s.p.a. (società di leasing) al fine di ottenere: (i) l’accertamento del proprio subentro ex lege nel contratto di leasingimmobiliare originariamente sottoscritto da Gamma s.r.l. (cedente, poi fallita); (ii) la condanna della società di leasingalla restituzione, in proprio favore, dell’imposta indebitamente riscossa o, in alternativa, il risarcimento del danno provocato dall’errore nella riscossione; (iii) il ricomputo del debito residuo e dei canoni di locazione inesattamente determinati; (iv) la restituzione dell’interesse versato con riferimento ad una rata del canone di locazione, ritenuto usurario.

Le istanze dell’attrice, in particolare, fondavano sull’asserito trasferimento, in suo favore, del contratto di locazione finanziaria immobiliare (originariamente sottoscritto da Gamma, cedente) per effetto di cessione del ramo di azienda da parte di Gamma s.r.l. (poi fallita): trasferimento contestato dalla convenuta Beta (società di leasing), che si era sempre rifiutata di volturare il contratto nonostante la percezione dei canoni da parte dell’attrice Alfa s.r.l.

Le ulteriori domande presupponevano la previa declaratoria giudiziale del subentro di Alfa nel rapporto di leasing immobiliare originariamente costituito tra Beta e Gamma.

Il Tribunale, accertata l’insussistenza dei presupposti necessari ai fini dell’applicazione dell’art. 2558 c.c., ha rigettato le domande proposte dall’attrice.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Decreto del 12 gennaio 2018 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott.ssa Angelina Augusta Baldissera

Nell’ambito di un accordo di ristrutturazione dei debiti di cui alla l. 3/2012, mutuando i principi elaborati in materia di concordato preventivo, al quale sembra avvicinarsi detta procedura, è da ritenersi inammissibile una proposta che escluda in radice un soddisfacimento, sia pure minimo, dei creditori chirografari, posto che l’art. 8, 1° co., l. 3/2012 dispone che la proposta di accordo debba prevedere “la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti”.

Principio espresso in sede di rigetto del reclamo proposto, ai sensi dell’art. 10, ult. co., l. 3/2012, avverso il decreto che aveva dichiarato l’inammissibilità di una proposta di accordo di ristrutturazione dei debiti in quanto non prevedeva alcun pagamento per i creditori chirografari.

Decr. 12.1.2018

(Massima a cura di Sara Pietra Rossi)




Sentenza del 10 gennaio 2018 – Presidente: Dott. Donato Pianta – Consigliere estensore: Dott. Giuseppe Magnoli

Al fine di ritenere sussistente la responsabilità degli
amministratori e dei sindaci di una società fallita ex art. 146 L.
Fall., è necessario che l’attore offra elementi decisivi per dimostrare che
esistevano elementi tali da dover indurre a considerare le proiezioni future
come false e totalmente infondate, dal momento chela valutazione della
condotta degli amministratori deve essere effettuata ex ante e non ex
post
. Il fatto che siano state maturate delle perdite non è di per sé
indice di responsabilità, soprattutto laddove queste siano sempre state
evidenziate nei bilanci e gli organi sociali abbiano provveduto a coprirle.

La richiesta di rinvio a giudizio, che si risolve nella mera
indicazione dei capi d’accusa, così come le sentenze di patteggiamento a carico
degli amministratori non forniscono di per sé elementi probatori sufficienti a
dimostrare la responsabilità ex art. 146 L. Fall.

Principi
espressi all’esito del processo di appello promosso dalla curatela di un
fallimento avverso la sentenza di primo grado che aveva negato la
responsabilità degli amministratori e sindaci della fallita ai sensi dell’art.
146 L. Fall.

(Massime
a cura di Lorena Fanelli)




Sentenza del 9 dicembre 2017, n. 3593 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott. Raffaele Del Porto

L’azione di responsabilità, esercitata dal curatore ai sensi dell’art. 146, secondo comma, l. fall., cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2392-2393 c.c. e dall’art. 2394 c.c. a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, tant’è che il curatore può, anche separatamente, formulare domande risarcitorie tanto con riferimento ai presupposti dell’azione sociale, che ha natura contrattuale, quanto con riguardo a quelli della responsabilità verso i creditori, che ha natura extracontrattuale.

Tali azioni non perdono la loro originaria identità giuridica, rimanendo tra loro distinte sia nei presupposti di fatto che nella disciplina applicabile, differenti essendo la distribuzione dell’onere della prova, i criteri di determinazione dei danni risarcibili ed il regime di decorrenza del termine di prescrizione.

L’azione di responsabilità dei creditori sociali nei confronti degli amministratori di società ex art. 2394 c.c., pur quando promossa dal curatore fallimentare a norma dell’art. 146 l. fall., è soggetta a prescrizione quinquennale che decorre dal momento dell’oggettiva percepibilità, da parte dei creditori, dell’insufficienza dell’attivo a soddisfare i debiti (e non anche dall’effettiva conoscenza di tale situazione), che, a sua volta, dipendendo dall’insufficienza della garanzia patrimoniale generica (art. 2740 c.c.), non corrisponde allo stato d’insolvenza di cui all’art. 5 della l. fall., derivante, in primis, dall’impossibilità di ottenere ulteriore credito.

In ragione della onerosità della prova gravante sul curatore, sussiste una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies a quo di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, ricadendo sull’amministratore la prova contraria della diversa data anteriore di insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale.

(Conforme a Cass. n. 24715/2015).

La natura delle operazioni censurate, la loro reiterazione nel tempo, la puntuale segnalazione operata dall’organo di controllo, in uno con le modeste dimensioni dell’attività della società poi fallita, valgono ad affermare la responsabilità risarcitoria dell’amministratore (sia pure entro i limiti legati alla vigenza della sua carica), il quale non può andare esente da colpa nell’ipotesi di completa omissione di ogni pur minimo controllo.

Le medesime considerazioni valgono poi quanto alla responsabilità dei componenti del collegio sindacale che abbiano omesso di adottare tempestivamente le iniziative opportune, pur a fronte dei rilievi operati dal precedente organo di controllo e contenuti nell’ultimo verbale redatto da quel collegio prima delle sue dimissioni; documento che deve ritenersi sicuramente consultato dai nuovi sindaci all’atto del loro insediamento.

Deve essere respinta la domanda di manleva formulata dal professionista (componente dell’organo di controllo) nei confronti della società “broker”, dovendo la medesima essere rivolta all’ente assicuratore e non al soggetto che abbia procacciato la conclusione del contratto di assicurazione.

La restituzione del finanziamento soci (credito chirografario e anzi verosimilmente postergato), avvenuta nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, quando la società aveva da tempo perduto il capitale sociale, costituisce illecito commesso dall’amministratore (sottraendo apprezzabili risorse finanziarie della società ai creditori di grado poziore, destinati a rimanere insoddisfatti anche nel successivo fallimento) che deve quindi rispondere del relativo danno.

Il ricorso, di norma necessario, all’opera di professionisti per la tenuta della contabilità e la predisposizione dei bilanci non può rendere esente da responsabilità l’amministratore che abbia comunque concorso alla formazione dei bilanci falsi (restando, in ogni caso, del tutto inverosimile che i professionisti possano aver agito in assoluta autonomia, senza attenersi alle direttive, anche di massima, dell’organo gestorio).

Nel difetto di elementi che consentano una più precisa quantificazione del danno, l’incremento dei debiti rimasti insoddisfatti, maturati in un periodo caratterizzato da una rilevantissima perdita economica, costituisce idoneo parametro per la liquidazione equitativa di un danno che si caratterizza, in ogni caso, per l’elevata difficoltà di una puntuale indicazione.

Principi espressi in ipotesi di esercizio dell’azione di responsabilità promossa dalla curatela di una s.r.l. fallita contro i componenti dell’organo amministrativo e di controllo.

Sent. 9.12.2017, n. 3593

(Massima a cura di Marika Lombardi)