Ordinanza del 22 febbraio 2019 – Giudice designato: Dott. Lorenzo Lentini

In assenza di puntuali disposizioni relative alle modalità di convocazione dei soci di s.n.c. nei patti sociali e nella disciplina codicistica, non può trovare accoglimento la domanda di sospensione e/o di annullamento della delibera di scioglimento anticipato di una s.n.c. per impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale e di nomina del liquidatore, né la domanda di revoca di detta nomina, formulate da un socio lamentando un insufficiente preavviso e contestando la scelta del luogo di convocazione, posto fuori dal Comune della sede legale della società.

L’abuso o eccesso di potere può costituire motivo di invalidità di una delibera assembleare quando vi sia la prova che il voto determinante del socio di maggioranza è stato espresso allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, oppure risulta in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell’esecuzione del contratto (conf. Cass. n. 1361/2011).

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso con ricorso ex art. 700 c.p.c. dal socio di minoranza di una società in nome collettivo nei confronti della società medesima e del socio di maggioranza, con cui il primo chiedeva di sospendere l’efficacia e/o di annullare la delibera di scioglimento anticipato della società per impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale e di nomina del liquidatore, nonché di revocare detta nomina e, comunque, di disporre ogni altro provvedimento d’urgenza idoneo ad eliminare il pregiudizio subito. In particolare, il socio lamentava l’invalidità dell’atto sulla base di doglianze in punto di insufficiente preavviso e di scelta del luogo di convocazione.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Decreto del 21 dicembre 2018 – Presidente relatore: dott. Raffaele Del Porto

A seguito dell’abrogazione dell’art. 33 d.lgs. 5/2003, che prevedeva la trattazione nella forma del procedimento in camera di consiglio, fra le altre, dell’istanza di cui all’art. 2487, 4° comma, c.c., si deve ritenere che la revoca per giusta causa del liquidatore debba essere richiesta tramite l’attivazione di un procedimento contenzioso, ove sia possibile rispettare il contraddittorio pieno sulla giusta causa di revoca, anche in ragione del fatto che la norma da ultimo citata detta una disciplina unitaria per la revoca dei liquidatori, senza distinguere fra quelli di nomina volontaria e quelli di nomina giudiziale.

L’indagine richiesta ai fini della verifica della sussistenza della giusta causa di revoca è assai articolata e impone solitamente accertamenti istruttori di natura alquanto complessa, per i quali la sede naturale è quella del giudizio ordinario di cognizione. La proposizione dell’istanza di revoca del liquidatore nella sede del giudizio ordinario di cognizione non determina alcun pregiudizio al diritto di difesa della parte istante, potendo la stessa ricorrere allo strumento del provvedimento cautelare anticipatorio (anche ante causam) per ottenere la pronuncia di revoca del liquidatore in via urgente (con conseguente nomina di un nuovo liquidatore ai sensi dell’art. 2487, commi 1° o 2°, c.c.).

(Conforme Tribunale di Milano 16.4.2015 e 10.5.2016).

Principi espressi in ipotesi di dichiarazione di inammissibilità di un ricorso, proposto nella forma camerale, con il quale il socio di una s.r.l. chiedeva la revoca per giusta causa del liquidatore della società, nominato ai sensi dell’art. 2487, 2° comma, c.c.

Decr. 21.12.2018

(Massima a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Ordinanza del 12 dicembre 2018 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

La tutela cautelare anticipatoria di mero accertamento può ritenersi ammissibile in ipotesi marginali, in cui la stessa risulti indispensabile e indifferibile al fine di eliminare situazioni di incertezza di portata tale da integrare una situazione di gravità potenzialmente determinativa di danni irreversibili;  tale forma di tutela d’urgenza va invece esclusa quando con essa si vuole ottenere lo stesso risultato di certezza sull’assetto dei rapporti giuridici che può essere realizzato esclusivamente mediante un  provvedimento di merito, preferibilmente passato in giudicato. (Conforme a Trib. Brescia, 25.11.2016).

In caso di sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p. di azioni di società costituite anteriormente in usufrutto, la legittimazione all’esercizio del diritto di voto spetta all’usufruttuario, non al custode, posto che il sequestro non può assicurare al beneficiario diritti maggiori di quelli derivanti dal bene sequestrato.

Peraltro in ipotesi di sequestro preventivo emesso nell’ambito di indagini in tema di reati tributari, finalizzato alla confisca “per equivalente” del profitto del reato (profitto consistente nel risparmio economico ottenuto dall’ente grazie all’imposta evasa), non sussistono esigenze pubblicistiche tali da motivare l’attribuzione del diritto di voto al custode, poiché ai fini della confisca per equivalente non è richiesto alcun nesso pertinenziale tra il reato e il bene da confiscare, risultando sufficiente che il denaro sequestrato equivalga all’importo corrispondente al profitto del reato. L’insussistenza di tale vincolo pertinenziale non consente di ravvisare alcun elemento di “pericolosità” del bene, tale da imporre una limitazione della sua circolazione e dei diritti dallo stesso derivanti. Una simile circostanza si risolve nella contrapposizione tra interessi di natura (lato sensu) patrimoniale riconducibili a diversi soggetti: da una parte, l’interesse dello Stato a confiscare somme di denaro e beni riconducibili a un amministratore di società coinvolto in un procedimento penale, a prescindere da qualunque nesso tra tali beni e i fatti di cui al procedimento stesso; dall’altra, l’interesse del ricorrente a godere pienamente delle azioni della società legittimamente detenute in usufrutto.

Principi espressi nel giudizio promosso con ricorso ex art. 700 c.p.c. con il quale il socio accomandatario di una s.a.p.a., usufruttuario di un numero di azioni pari al 90% del capitale della società, chiedeva di accertare la sua legittimazione, ex art. 2352, 1° comma, c.c., all’esercizio del diritto di voto relativo  a parte delle azioni costituite in usufrutto a suo favore ed  oggetto di sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p.

Sotto il profilo del periculum in mora, il ricorrente evidenziava che tale situazione aveva determinato l’impossibilità di deliberare per tre riunioni consecutive in attesa di un chiarimento in ordine al contrasto sulla titolarità del diritto di voto.

Rilevato che non vi era una situazione di “stallo”, poiché i soci avevano deciso prudenzialmente di rinviare i lavori in attesa di un chiarimento giudiziale, e che la decisione sulla legittimazione al voto compete alla società in persona del soggetto che presiede l’assemblea, nella specie coincidente con il ricorrente, sicché il rischio dell’esercizio del diritto di voto da parte del custode appare ipotetico, il Tribunale ha dichiarato il ricorso inammissibile non sussistendo una situazione di gravità tale da richiedere un provvedimento di accertamento cautelare.

Il Tribunale,  esaminando il fumus del ricorso per decidere sulla liquidazione delle spese del giudizio, ha rilevato che il diritto di voto spettava fin dalla costituzione dell’usufrutto all’usufruttuario, motivo per il quale non vi poteva essere conflitto tra custode e usufruttuario, conflitto ritenuto puramente apparente non potendosi attribuire al beneficiario del sequestro preventivo diritti maggiori rispetto a quelli derivanti dal bene sequestrato e non sussistendo neppure un’esigenza pubblicistica idonea a giustificare l’attribuzione del diritto di voto al custode.

Ord. 12.12.2018

(Massima a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza del 30 novembre 2018 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott. Lorenzo Lentini

Il rimedio della nullità in ambito societario, con particolare riferimento alle impugnative di deliberazioni assembleari aventi un oggetto asseritamente illecito, è volto alla tutela di interessi generali, sicché esso non può trovare applicazione laddove il socio lamenti, in concreto, la violazione di norme poste a tutela dell’interesse del singolo azionista non sussumibili in alcuno dei motivi di nullità tassativamente previsti (conf. Cass. n. 1624/2015 e Cass. n. 26842/2008).

In caso di domanda di annullamento di deliberazioni assembleari da parte del socio di società per azioni quotata, ai fini della dimostrazione della relativa legittimazione, non risulta sufficiente la produzione, da parte di quest’ultimo, di un estratto conto corrente bancario, dovendo il medesimo produrre la necessaria attestazione dell’intermediario abilitato exart. 83-quinquies d.lgs. n. 58/1998.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso dal socio di società per azioni ai fini della dichiarazione di nullità delle deliberazioni adottate dell’assemblea speciale degli azionisti di risparmio e dall’assemblea straordinaria degli azionisti ordinari con cui la società aveva disposto la conversione in misura non paritaria di azioni di risparmio in azioni ordinarie.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza del 27 novembre 2018 – Presidente: dott. Raffaele del Porto – Giudice relatore: dott.ssa Angelica Castellani

Nell’ipotesi in cui sia domandato il sequestro giudiziario della quota di una s.r.l. (nel caso concreto il 50% di essa) nel corso di una causa volta all’accertamento della nullità o dell’inefficacia della sua cessione, in quanto avvenuta in violazione della clausola statutaria di prelazione, con conseguente domanda di trasferimento della quota stessa ex art. 2932 c.c., non può ritenersi esistente il requisito del fumus boni iuris. La violazione da parte del socio di una s.r.l. della clausola statutaria che contempli il diritto di prelazione degli altri soci per le ipotesi di cessione, totale o parziale, della quota non comporta la nullità del trasferimento avvenuto in violazione di tale patto e nemmeno il diritto del socio pretermesso di riscattare presso il cessionario la quota oggetto di trasferimento. Tale violazione genera, infatti, l’inefficacia della cessione, dalla quale non discende il diritto di riscatto, essendo quest’ultimo un rimedio eccezionale, non suscettibile di applicazione oltre i casi espressamente previsti dalla legge e non estendibile alla prelazione societaria avente natura convenzionale e non legale (conf. Cass. n. 24559/2015 e n. 12370/2014). In tal caso, gli unici rimedi ammissibili sono la tutela risarcitoria, che può essere accordata al socio pretermesso secondo le regole generali in materia di inadempimento delle obbligazioni, e la facoltà della società partecipata di negare all’acquirente l’iscrizione nel libro soci, posto che l’osservanza del meccanismo della prelazione costituisce condizione per l’efficace acquisto della qualità di socio.

Principi espressi in accoglimento del reclamo avverso l’ordinanza cautelare che in corso di causa aveva concesso il sequestro giudiziario della metà di una quota di s.r.l. oggetto di controversia a seguito di cessione avvenuta in violazione del diritto di prelazione previsto dallo statuto sociale.

Ord. 27.11.2018

(Massima a cura di Sara Pietra Rossi)




Ordinanza del 30 ottobre 2018 – Giudice designato: dott. Raffaele Del Porto

In tema di sequestro conservativo, deve ritenersi sussistente il requisito del fumus boni iuris laddove l’amministratore “di diritto” di una società a responsabilità limitata (poi fallita) abbia ceduto, dopo la perdita del capitale sociale e la cessazione, di fatto, dell’attività d’impresa, un ramo d’azienda, con trasferimento all’acquirente della parte più significativa dell’attivo sociale, a fronte di un corrispettivo “irrisorio”, senza acquisire, al contempo, adeguate garanzie quanto all’effettivo pagamento dei debiti inerenti il ramo d’azienda ceduto. In tal caso il danno può essere quantificato in misura pari all’ammontare di tali debiti non pagati dall’acquirente ed ammessi al passivo del fallimento dell’alienante.

La mera partecipazione di un soggetto alla stipula di un atto, in ipotesi, alla cessione di un ramo d’azienda, non può, per il suo carattere isolato, costituire prova idonea di quella condotta reiterata che, per giurisprudenza costante, è necessaria per la configurabilità del ruolo di amministratore di fatto.

(Conforme a Cass. n. 4045/2016).

Ai fini della concessione del sequestro conservativo, il fumus della responsabilità dell’amministratore “di fatto” di società di capitali non può essere ricavato da generiche allegazioni della curatela relative a violazioni di carattere formale (quale, esemplarmente, l’omessa tenuta di contabilità adeguata), qualora non siano dedotte eventuali conseguenze lesive, legate alle prime da idoneo nesso causale.

Il requisito del periculum in mora può essere desunto anche da elementi oggettivi, rappresentati dall’elevata entità del credito vantato dal ricorrente in rapporto alla consistenza patrimoniale del debitore, nella specie neppure conoscibile sulla base di informazioni attendibili.

 Principi espressi in ipotesi di parziale riforma del provvedimento, concesso inaudita altera parte, che aveva autorizzato il sequestro conservativo nei confronti dell’amministratore “di diritto” e dell’amministratore “di fatto” di s.r.l. fallita, a fronte dell’accertamento della responsabilità risarcitoria di questi ultimi per il danno patito dalla società (poi fallita), causalmente collegato alla (specifica) condotta negligente consistente nell’aver ceduto un ramo d’azienda, con trasferimento all’acquirente della parte più significativa dell’attivo sociale, senza aver acquisito adeguate garanzie quanto all’effettivo pagamento dei debiti inerenti il ramo d’azienda ceduto.

Nella specie, il decreto concesso inaudita altera parte è stato riformato, nella parte in cui aveva autorizzato il sequestro conservativo ai danni dell’amministratore “di diritto”, limitatamente all’importo fino a concorrenza del quale tale misura cautelare è stata concessa, mentre è stato revocato nella parte in cui aveva autorizzato il sequestro conservativo ai danni dell’amministratore “di fatto”.

Ord. 30.10.2018

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza del 30 ottobre 2018 – Giudice designato: Dott. Davide Scaffidi

In tema di responsabilità dei componenti degli organi sociali per l’aggravamento del dissesto patrimoniale, costituiscono elementi rilevanti ai fini della qualificazione della natura dissipativa degli atti di disposizione: il titolo di erogazione a fondo perduto, l’atto abdicativo di rinuncia al credito, il titolo di cessione del credito in assenza di corrispettivo o di finanziamento infruttifero con scarsa probabilità di recupero del capitale e in assenza di richieste di restituzione. In ipotesi in cui tali atti siano disposti in favore di società asseritamente controllate o collegate, per esimersi da responsabilità, i componenti degli organi sociali devono dare prova dell’esistenza di specifici vantaggi compensativi in favore dei creditori sociali idonei a neutralizzare gli svantaggi immediati ad essi procurati.

Principi espressi in ipotesi di parziale accoglimento della domanda cautelare di sequestro conservativo promossa dal curatore di una s.r.l. ai danni degli amministratori e dei sindaci della società, poi fallita, a fronte dell’accertamento della responsabilità risarcitoria dei medesimi in conseguenza di atti di natura distrattiva.

Più precisamente, la curatela contestava ai resistenti le seguenti condotte:

i) aver omesso di adottare i provvedimenti di legge allorché la situazione contabile manifestava un patrimonio netto negativo o comunque aver omesso di rilevare la causa di scioglimento della società per impossibilità di conseguire l’oggetto sociale;

ii) aver erogato indebitamente, anche a seguito dell’emersione dell’impossibilità di conseguire l’oggetto sociale, finanziamenti a fondo perduto e prestiti con scarsa probabilità di recupero del capitale, senza peraltro che vi fosse stata alcuna richiesta di restituzione, nonché aver ceduto gratuitamente crediti in favore di altre società facenti parte del medesimo gruppo con disposizioni estranee all’oggetto sociale, operazioni disposte in una situazione di conflitto di interessi (stante la identica composizione soggettiva dell’organo gestorio o comunque la presenza tra essi di stretti rapporti di parentela);

iii) aver sostenuto costi il cui onere doveva essere sopportato da soggetti diversi dalla società fallita.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza del 9 ottobre 2018 – Giudice istruttore: dott. Lorenzo Lentini

In caso di ricorso in corso di causa per sequestro giudiziario della quota di una s.r.l. (nel caso concreto il 50% di essa), ceduta in violazione della clausola statutaria di prelazione, può ravvisarsi l’esistenza del requisito del fumus boni iuris laddove nel giudizio di merito pendente venga domandato l’accertamento della nullità o, in subordine, dell’inefficacia della cessione ed il trasferimento della quota a favore dell’istante ai sensi dell’art. 2932 c.c.

Alle clausole di prelazione previste negli statuti di società di capitali può essere attribuita efficacia reale sicché, in caso di violazione, le stesse sono opponibili anche al terzo acquirente, il quale ben può conoscerne l’esistenza mediante l’esame dello statuto (conf. Cass. n. 12797/2012). Pertanto al socio pretermesso può essere riconosciuto il diritto di riscatto onde assicurare la piena effettività della tutela giudiziaria; diversamente, qualora gli venisse accordato unicamente il rimedio risarcitorio, sarebbe posto nella medesima condizione in cui si sarebbe trovato in caso di violazione della prelazione c.d. convenzionale con effetti meramente obbligatori.

In caso di decesso del socio pretermesso, il diritto di prelazione può essere esercitato dai suoi eredi, ancorché lo statuto preveda la facoltà dei soci superstiti di continuare l’attività d’impresa con gli eredi o di liquidare a questi la quota del socio defunto.

Il periculum in mora è integrato dalla necessità di provvedere, nelle more del giudizio di cognizione, alla custodia dei beni di cui è controversa la proprietà, impedendo il compimento di atti di alienazione o comunque idonei a pregiudicare i diritti vantati dai ricorrenti.

In un contesto altamente conflittuale può essere opportuna la nomina di un custode giudiziale della partecipazione societaria contesa, allo scopo di assicurare una gestione della stessa idonea a preservarne il valore mediante un prudente esercizio dei diritti, amministrativi e patrimoniali, da essa scaturenti.

Principi espressi in accoglimento del ricorso, proposto in corso di causa, per sequestro giudiziario di una quota di s.r.l. (nel caso concreto il 50% di essa) ceduta in violazione di una clausola statutaria di prelazione. Gli eredi del socio pretermesso promuovevano un giudizio nei confronti della società partecipata e degli altri due soci superstiti, chiedendo l’accertamento della nullità o, in subordine, dell’inefficacia della cessione intercorsa fra questi ultimi, e domandando, ai sensi dell’art. 2932 c.c., il trasferimento a loro favore della metà della quota ceduta, atteso che anche l’acquirente era socio della medesima società e titolare del diritto di prelazione; in subordine rispetto a tale ultima domanda, chiedevano il risarcimento del danno.

Ord. 9.10.2018

(Massima a cura di Sara Pietra Rossi)




Ordinanza del 1° ottobre 2018 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

L’opposizione proposta dal socio di cooperativa ex art. 2533, 3° co., c.c. avverso la deliberazione consiliare di esclusione non richiede il possesso in capo all’opponente di una particolare quota di capitale, né appare applicabile in via analogica il requisito di legittimazione di cui all’art. 2377, 3° co., c.c., in ragione degli elementi di specialità che la norma da ultimo citata presenta.

Ove il socio di cooperativa di produzione e lavoro abbia avuto formale comunicazione della delibera di esclusione, oltre che del licenziamento, il termine di decadenza per l’impugnazione di cui all’art. 2533 c.c. opera anche in relazione alla denuncia dei vizi che attengano, non alla sussistenza dei presupposti sostanziali dell’esclusione, bensì alla formazione della volontà dell’organo societario legittimato ad adottare il provvedimento (conf. Cass. n. 3836/2016).

Nel caso in cui il presidente del c.d.a. versi in conflitto d’interessi, non sussiste alcun divieto di partecipazione alle riunioni del consiglio, posto che l’art. 2391 c.c. si limita a prevedere in capo a ciascun amministratore l’obbligo di comunicazione agli altri amministratori e al collegio sindacale degli interessi di cui è titolare in una determinata operazione della società.

Nell’ipotesi di omessa convocazione di taluno degli amministratori aventi diritto a partecipare alle riunioni consiliari, si determina impossibilità di costituzione dell’organo, con la conseguente sua inidoneità a riferire la propria volontà alla società, senza che rilevi che, anche a considerare voti contrari quelli dei soggetti non convocati, la maggioranza si sarebbe comunque conseguita (conf. Cass. n. 9314/1995).

La sospensione prevista dall’art. 2378, 3° co., c.c. risponde alla ratio di evitare che il diritto o l’interesse di chi agisce impugnando una deliberazione assembleare possa subire gravi pregiudizi nelle more del procedimento d’impugnazione della stessa. In tal senso assume rilevanza anche l’interesse a proteggere la società dal pericolo che la delibera impugnata venga prima eseguita e subito dopo annullata. Ne consegue che, ai fini della cautela provvisoria, non vi è distinzione tra esecuzione ed efficacia della stessa, dovendo l’atto risultare semplicemente suscettibile di produrre ulteriori effetti rispetto all’organizzazione sociale (conf. Trib. Milano 23.03.2016).

È lecito invocare la sospensione per tutte le delibere che, anche se non bisognevoli in senso proprio di “atti esecutivi”, o già iscritte presso il Registro delle Imprese con piena “efficacia” ed opponibilità nei confronti dei terzi, siano tuttavia suscettibili di esplicare i loro effetti pregiudizievoli per tutto il tempo in cui la situazione dalle stesse creata è destinata a perdurare. In altri termini, possono essere sospese tutte le delibere in relazione alle quali non possa dirsi concretata una “irreversibilità” degli effetti, cioè le delibere suscettibili di dispiegare “efficacia” in modo continuativo (conf. Trib. Bologna 24.01.2018).

L’art. 2378, co. 4, c.c. richiede al giudice del procedimento cautelare investito della sospensione dell’esecuzione della delibera la valutazione della sussistenza di un nesso causale fra l’esecuzione (ovvero la protrazione dell’efficacia) della deliberazione impugnata ed il pregiudizio temuto ed implica l’apprezzamento comparativo della gravità delle conseguenze derivanti, sia al socio impugnante sia alla società, dalla esecuzione e dalla successiva rimozione della deliberazione impugnata. Così, il provvedimento cautelare di sospensione dell’efficacia della delibera potrà essere concesso soltanto ove si ritenga prevalente, rispetto al corrispondente pregiudizio che potrebbe derivare alla società per l’arresto subito alla sua azione, il pregiudizio lamentato dal socio (conf. Trib. Roma 22.4.2018).

I principi sono stati espressi nel procedimento cautelare promosso, in corso di causa, con ricorso ex artt. 2378, co. 3, e 2388, co. 4, c.c. dal socio di società agricola cooperativa al fine di ottenere la sospensione in via cautelare dell’efficacia della deliberazione – impugnata con atto di citazione nel giudizio di merito – adottata dall’organo di amministrazione della società resistente avente ad oggetto l’esclusione del ricorrente dalla compagine sociale, nonché l’applicazione di penalità nei confronti del medesimo.

Sotto il profilo del fumus boni iuris, il ricorrente deduceva: (i) la nullità della deliberazione per eccessiva genericità e indeterminatezza della previsione statutaria in forza della quale era stata assunta; (ii) l’omesso invio al presidente della comunicazione di convocazione dell’organo di amministrazione, in violazione degli artt. 2381 e ss. c.c., nonché delle disposizioni dello statuto sociale in tema di funzionamento del suddetto organo; (iii) l’insussistenza dei presupposti di merito per l’adozione della deliberazione e l’infondatezza delle valutazioni; (iv) in ogni caso, la sproporzione delle sanzioni al medesimo inflitte rispetto alla violazione contestata, nonché la loro contraddittorietà, atteso che l’applicazione di penalità economiche presuppone la permanenza del vincolo sociale (reciso dal contestuale provvedimento di esclusione).

Sotto il profilo del periculum in mora, il ricorrente deduceva la difficoltà di reperire altro soggetto in ambito cooperativo in favore del quale eseguire i propri conferimenti e i conseguenti danni economici irreparabili derivanti dalla eventuale cessione dei medesimi al settore industriale.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza del 20 luglio 2018 – Presidente relatore: dott. Raffaele Del Porto

Nell’ambito del procedimento di reclamo, ex art. 669 terdecies c.p.c., avverso il provvedimento che ha autorizzato il sequestro conservativo nei confronti degli amministratori di una società fallita, ai quali siano stati addebitati, fra l’altro, la mancata tempestiva rilevazione della causa di scioglimento rappresentata dalla perdita integrale del capitale sociale e l’illegittima prosecuzione dell’attività d’impresa in un’ottica non meramente conservativa, è precluso l’espletamento di una consulenza tecnica diretta a ricostruire l’effettivo aggravio nel corso degli esercizi sociali del deficit causato da siffatti comportamenti, trattandosi di mezzo istruttorio che, per la sua complessità, risulta incompatibile con la natura sommaria di tale procedimento.

In tema di sequestro conservativo, il requisito del periculum in mora può essere desunto sia da elementi oggettivi, concernenti la capacità patrimoniale del debitore in rapporto all’entità del credito, sia da elementi soggettivi, rappresentati dal comportamento del debitore, il quale lasci fondatamente presumere l’intento di porre in essere, al fine di sottrarsi all’adempimento, atti dispositivi, idonei a provocare l’eventuale depauperamento del suo patrimonio.

(Conforme a Cass. nn. 6460/1996; 2139/1998; 2081/2002).

Principi espressi in ipotesi di parziale riforma, in sede di reclamo, del provvedimento, concesso ante causam, con il quale era stato autorizzato il sequestro conservativo in danno degli amministratori di una s.r.l. fallita, a fronte del fumus della loro responsabilità per atti di “mala gestio” posti in essere a danno della società gestita, consistenti nella mancata tempestiva rilevazione della causa di scioglimento rappresentata dalla perdita integrale del capitale sociale e nella prosecuzione illegittima dell’attività di impresa per finalità non conservative.

(Massima a cura di Francesco Maria Maffezzoni)

Ord. 20.7.2018