Ordinanza del 30 ottobre 2018 – Giudice designato: dott. Raffaele Del Porto

In tema di sequestro conservativo, deve ritenersi sussistente il requisito del fumus boni iuris laddove l’amministratore “di diritto” di una società a responsabilità limitata (poi fallita) abbia ceduto, dopo la perdita del capitale sociale e la cessazione, di fatto, dell’attività d’impresa, un ramo d’azienda, con trasferimento all’acquirente della parte più significativa dell’attivo sociale, a fronte di un corrispettivo “irrisorio”, senza acquisire, al contempo, adeguate garanzie quanto all’effettivo pagamento dei debiti inerenti il ramo d’azienda ceduto. In tal caso il danno può essere quantificato in misura pari all’ammontare di tali debiti non pagati dall’acquirente ed ammessi al passivo del fallimento dell’alienante.

La mera partecipazione di un soggetto alla stipula di un atto, in ipotesi, alla cessione di un ramo d’azienda, non può, per il suo carattere isolato, costituire prova idonea di quella condotta reiterata che, per giurisprudenza costante, è necessaria per la configurabilità del ruolo di amministratore di fatto.

(Conforme a Cass. n. 4045/2016).

Ai fini della concessione del sequestro conservativo, il fumus della responsabilità dell’amministratore “di fatto” di società di capitali non può essere ricavato da generiche allegazioni della curatela relative a violazioni di carattere formale (quale, esemplarmente, l’omessa tenuta di contabilità adeguata), qualora non siano dedotte eventuali conseguenze lesive, legate alle prime da idoneo nesso causale.

Il requisito del periculum in mora può essere desunto anche da elementi oggettivi, rappresentati dall’elevata entità del credito vantato dal ricorrente in rapporto alla consistenza patrimoniale del debitore, nella specie neppure conoscibile sulla base di informazioni attendibili.

 Principi espressi in ipotesi di parziale riforma del provvedimento, concesso inaudita altera parte, che aveva autorizzato il sequestro conservativo nei confronti dell’amministratore “di diritto” e dell’amministratore “di fatto” di s.r.l. fallita, a fronte dell’accertamento della responsabilità risarcitoria di questi ultimi per il danno patito dalla società (poi fallita), causalmente collegato alla (specifica) condotta negligente consistente nell’aver ceduto un ramo d’azienda, con trasferimento all’acquirente della parte più significativa dell’attivo sociale, senza aver acquisito adeguate garanzie quanto all’effettivo pagamento dei debiti inerenti il ramo d’azienda ceduto.

Nella specie, il decreto concesso inaudita altera parte è stato riformato, nella parte in cui aveva autorizzato il sequestro conservativo ai danni dell’amministratore “di diritto”, limitatamente all’importo fino a concorrenza del quale tale misura cautelare è stata concessa, mentre è stato revocato nella parte in cui aveva autorizzato il sequestro conservativo ai danni dell’amministratore “di fatto”.

Ord. 30.10.2018

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza del 30 ottobre 2018 – Giudice designato: Dott. Davide Scaffidi

In tema di responsabilità dei componenti degli organi sociali per l’aggravamento del dissesto patrimoniale, costituiscono elementi rilevanti ai fini della qualificazione della natura dissipativa degli atti di disposizione: il titolo di erogazione a fondo perduto, l’atto abdicativo di rinuncia al credito, il titolo di cessione del credito in assenza di corrispettivo o di finanziamento infruttifero con scarsa probabilità di recupero del capitale e in assenza di richieste di restituzione. In ipotesi in cui tali atti siano disposti in favore di società asseritamente controllate o collegate, per esimersi da responsabilità, i componenti degli organi sociali devono dare prova dell’esistenza di specifici vantaggi compensativi in favore dei creditori sociali idonei a neutralizzare gli svantaggi immediati ad essi procurati.

Principi espressi in ipotesi di parziale accoglimento della domanda cautelare di sequestro conservativo promossa dal curatore di una s.r.l. ai danni degli amministratori e dei sindaci della società, poi fallita, a fronte dell’accertamento della responsabilità risarcitoria dei medesimi in conseguenza di atti di natura distrattiva.

Più precisamente, la curatela contestava ai resistenti le seguenti condotte:

i) aver omesso di adottare i provvedimenti di legge allorché la situazione contabile manifestava un patrimonio netto negativo o comunque aver omesso di rilevare la causa di scioglimento della società per impossibilità di conseguire l’oggetto sociale;

ii) aver erogato indebitamente, anche a seguito dell’emersione dell’impossibilità di conseguire l’oggetto sociale, finanziamenti a fondo perduto e prestiti con scarsa probabilità di recupero del capitale, senza peraltro che vi fosse stata alcuna richiesta di restituzione, nonché aver ceduto gratuitamente crediti in favore di altre società facenti parte del medesimo gruppo con disposizioni estranee all’oggetto sociale, operazioni disposte in una situazione di conflitto di interessi (stante la identica composizione soggettiva dell’organo gestorio o comunque la presenza tra essi di stretti rapporti di parentela);

iii) aver sostenuto costi il cui onere doveva essere sopportato da soggetti diversi dalla società fallita.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza del 9 ottobre 2018 – Giudice istruttore: dott. Lorenzo Lentini

In caso di ricorso in corso di causa per sequestro giudiziario della quota di una s.r.l. (nel caso concreto il 50% di essa), ceduta in violazione della clausola statutaria di prelazione, può ravvisarsi l’esistenza del requisito del fumus boni iuris laddove nel giudizio di merito pendente venga domandato l’accertamento della nullità o, in subordine, dell’inefficacia della cessione ed il trasferimento della quota a favore dell’istante ai sensi dell’art. 2932 c.c.

Alle clausole di prelazione previste negli statuti di società di capitali può essere attribuita efficacia reale sicché, in caso di violazione, le stesse sono opponibili anche al terzo acquirente, il quale ben può conoscerne l’esistenza mediante l’esame dello statuto (conf. Cass. n. 12797/2012). Pertanto al socio pretermesso può essere riconosciuto il diritto di riscatto onde assicurare la piena effettività della tutela giudiziaria; diversamente, qualora gli venisse accordato unicamente il rimedio risarcitorio, sarebbe posto nella medesima condizione in cui si sarebbe trovato in caso di violazione della prelazione c.d. convenzionale con effetti meramente obbligatori.

In caso di decesso del socio pretermesso, il diritto di prelazione può essere esercitato dai suoi eredi, ancorché lo statuto preveda la facoltà dei soci superstiti di continuare l’attività d’impresa con gli eredi o di liquidare a questi la quota del socio defunto.

Il periculum in mora è integrato dalla necessità di provvedere, nelle more del giudizio di cognizione, alla custodia dei beni di cui è controversa la proprietà, impedendo il compimento di atti di alienazione o comunque idonei a pregiudicare i diritti vantati dai ricorrenti.

In un contesto altamente conflittuale può essere opportuna la nomina di un custode giudiziale della partecipazione societaria contesa, allo scopo di assicurare una gestione della stessa idonea a preservarne il valore mediante un prudente esercizio dei diritti, amministrativi e patrimoniali, da essa scaturenti.

Principi espressi in accoglimento del ricorso, proposto in corso di causa, per sequestro giudiziario di una quota di s.r.l. (nel caso concreto il 50% di essa) ceduta in violazione di una clausola statutaria di prelazione. Gli eredi del socio pretermesso promuovevano un giudizio nei confronti della società partecipata e degli altri due soci superstiti, chiedendo l’accertamento della nullità o, in subordine, dell’inefficacia della cessione intercorsa fra questi ultimi, e domandando, ai sensi dell’art. 2932 c.c., il trasferimento a loro favore della metà della quota ceduta, atteso che anche l’acquirente era socio della medesima società e titolare del diritto di prelazione; in subordine rispetto a tale ultima domanda, chiedevano il risarcimento del danno.

Ord. 9.10.2018

(Massima a cura di Sara Pietra Rossi)




Ordinanza del 1° ottobre 2018 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

L’opposizione proposta dal socio di cooperativa ex art. 2533, 3° co., c.c. avverso la deliberazione consiliare di esclusione non richiede il possesso in capo all’opponente di una particolare quota di capitale, né appare applicabile in via analogica il requisito di legittimazione di cui all’art. 2377, 3° co., c.c., in ragione degli elementi di specialità che la norma da ultimo citata presenta.

Ove il socio di cooperativa di produzione e lavoro abbia avuto formale comunicazione della delibera di esclusione, oltre che del licenziamento, il termine di decadenza per l’impugnazione di cui all’art. 2533 c.c. opera anche in relazione alla denuncia dei vizi che attengano, non alla sussistenza dei presupposti sostanziali dell’esclusione, bensì alla formazione della volontà dell’organo societario legittimato ad adottare il provvedimento (conf. Cass. n. 3836/2016).

Nel caso in cui il presidente del c.d.a. versi in conflitto d’interessi, non sussiste alcun divieto di partecipazione alle riunioni del consiglio, posto che l’art. 2391 c.c. si limita a prevedere in capo a ciascun amministratore l’obbligo di comunicazione agli altri amministratori e al collegio sindacale degli interessi di cui è titolare in una determinata operazione della società.

Nell’ipotesi di omessa convocazione di taluno degli amministratori aventi diritto a partecipare alle riunioni consiliari, si determina impossibilità di costituzione dell’organo, con la conseguente sua inidoneità a riferire la propria volontà alla società, senza che rilevi che, anche a considerare voti contrari quelli dei soggetti non convocati, la maggioranza si sarebbe comunque conseguita (conf. Cass. n. 9314/1995).

La sospensione prevista dall’art. 2378, 3° co., c.c. risponde alla ratio di evitare che il diritto o l’interesse di chi agisce impugnando una deliberazione assembleare possa subire gravi pregiudizi nelle more del procedimento d’impugnazione della stessa. In tal senso assume rilevanza anche l’interesse a proteggere la società dal pericolo che la delibera impugnata venga prima eseguita e subito dopo annullata. Ne consegue che, ai fini della cautela provvisoria, non vi è distinzione tra esecuzione ed efficacia della stessa, dovendo l’atto risultare semplicemente suscettibile di produrre ulteriori effetti rispetto all’organizzazione sociale (conf. Trib. Milano 23.03.2016).

È lecito invocare la sospensione per tutte le delibere che, anche se non bisognevoli in senso proprio di “atti esecutivi”, o già iscritte presso il Registro delle Imprese con piena “efficacia” ed opponibilità nei confronti dei terzi, siano tuttavia suscettibili di esplicare i loro effetti pregiudizievoli per tutto il tempo in cui la situazione dalle stesse creata è destinata a perdurare. In altri termini, possono essere sospese tutte le delibere in relazione alle quali non possa dirsi concretata una “irreversibilità” degli effetti, cioè le delibere suscettibili di dispiegare “efficacia” in modo continuativo (conf. Trib. Bologna 24.01.2018).

L’art. 2378, co. 4, c.c. richiede al giudice del procedimento cautelare investito della sospensione dell’esecuzione della delibera la valutazione della sussistenza di un nesso causale fra l’esecuzione (ovvero la protrazione dell’efficacia) della deliberazione impugnata ed il pregiudizio temuto ed implica l’apprezzamento comparativo della gravità delle conseguenze derivanti, sia al socio impugnante sia alla società, dalla esecuzione e dalla successiva rimozione della deliberazione impugnata. Così, il provvedimento cautelare di sospensione dell’efficacia della delibera potrà essere concesso soltanto ove si ritenga prevalente, rispetto al corrispondente pregiudizio che potrebbe derivare alla società per l’arresto subito alla sua azione, il pregiudizio lamentato dal socio (conf. Trib. Roma 22.4.2018).

I principi sono stati espressi nel procedimento cautelare promosso, in corso di causa, con ricorso ex artt. 2378, co. 3, e 2388, co. 4, c.c. dal socio di società agricola cooperativa al fine di ottenere la sospensione in via cautelare dell’efficacia della deliberazione – impugnata con atto di citazione nel giudizio di merito – adottata dall’organo di amministrazione della società resistente avente ad oggetto l’esclusione del ricorrente dalla compagine sociale, nonché l’applicazione di penalità nei confronti del medesimo.

Sotto il profilo del fumus boni iuris, il ricorrente deduceva: (i) la nullità della deliberazione per eccessiva genericità e indeterminatezza della previsione statutaria in forza della quale era stata assunta; (ii) l’omesso invio al presidente della comunicazione di convocazione dell’organo di amministrazione, in violazione degli artt. 2381 e ss. c.c., nonché delle disposizioni dello statuto sociale in tema di funzionamento del suddetto organo; (iii) l’insussistenza dei presupposti di merito per l’adozione della deliberazione e l’infondatezza delle valutazioni; (iv) in ogni caso, la sproporzione delle sanzioni al medesimo inflitte rispetto alla violazione contestata, nonché la loro contraddittorietà, atteso che l’applicazione di penalità economiche presuppone la permanenza del vincolo sociale (reciso dal contestuale provvedimento di esclusione).

Sotto il profilo del periculum in mora, il ricorrente deduceva la difficoltà di reperire altro soggetto in ambito cooperativo in favore del quale eseguire i propri conferimenti e i conseguenti danni economici irreparabili derivanti dalla eventuale cessione dei medesimi al settore industriale.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza del 20 luglio 2018 – Presidente relatore: dott. Raffaele Del Porto

Nell’ambito del procedimento di reclamo, ex art. 669 terdecies c.p.c., avverso il provvedimento che ha autorizzato il sequestro conservativo nei confronti degli amministratori di una società fallita, ai quali siano stati addebitati, fra l’altro, la mancata tempestiva rilevazione della causa di scioglimento rappresentata dalla perdita integrale del capitale sociale e l’illegittima prosecuzione dell’attività d’impresa in un’ottica non meramente conservativa, è precluso l’espletamento di una consulenza tecnica diretta a ricostruire l’effettivo aggravio nel corso degli esercizi sociali del deficit causato da siffatti comportamenti, trattandosi di mezzo istruttorio che, per la sua complessità, risulta incompatibile con la natura sommaria di tale procedimento.

In tema di sequestro conservativo, il requisito del periculum in mora può essere desunto sia da elementi oggettivi, concernenti la capacità patrimoniale del debitore in rapporto all’entità del credito, sia da elementi soggettivi, rappresentati dal comportamento del debitore, il quale lasci fondatamente presumere l’intento di porre in essere, al fine di sottrarsi all’adempimento, atti dispositivi, idonei a provocare l’eventuale depauperamento del suo patrimonio.

(Conforme a Cass. nn. 6460/1996; 2139/1998; 2081/2002).

Principi espressi in ipotesi di parziale riforma, in sede di reclamo, del provvedimento, concesso ante causam, con il quale era stato autorizzato il sequestro conservativo in danno degli amministratori di una s.r.l. fallita, a fronte del fumus della loro responsabilità per atti di “mala gestio” posti in essere a danno della società gestita, consistenti nella mancata tempestiva rilevazione della causa di scioglimento rappresentata dalla perdita integrale del capitale sociale e nella prosecuzione illegittima dell’attività di impresa per finalità non conservative.

(Massima a cura di Francesco Maria Maffezzoni)

Ord. 20.7.2018




Ordinanza del 13 luglio 2018 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott. Lorenzo Lentini

In tema di sequestro conservativo, deve ritenersi sussistente il requisito del fumus boni iuris laddove l’amministratore unico di una società a responsabilità limitata, poi fallita, abbia omesso di accertare, sulla base delle risultanze del bilancio di esercizio, l’avvenuta verificazione della causa di scioglimento di cui all’art. 2484, co. 1, n. 4), c.c. e di assumere i provvedimenti di cui all’art. 2482-ter c.c.

Ai fini della concessione della misura cautelare del sequestro conservativo, il requisito del periculum in mora può essere integrato, in via anche alternativa, sia da elementi oggettivi, riguardanti la consistenza del patrimonio del debitore sotto il profilo qualitativo (ad esempio liquidità dei beni ivi inclusi) e quantitativo, in rapporto all’entità del credito fatto valere, sia da elementi soggettivi, connessi al comportamento del debitore, laddove quest’ultimo agisca con modalità tali da accrescere il ragionevole rischio di depauperamento del patrimonio ovvero da evidenziare la sua intenzione di sottrarsi all’adempimento.

In particolare, sotto il profilo del periculum c.d. soggettivo, assume rilievo la mancata tenuta delle scritture contabili, la quale costituisce una circostanza sintomatica di un atteggiamento di trascuratezza e disinteresse verso le sorti della società, dalla quale non è ragionevole desumere alcuna prognosi favorevole circa la spontanea salvaguardia della garanzia patrimoniale generica dovuta ai creditori (conf. Trib. Milano 28.05.2017).

Sotto il profilo del periculum c.d.  oggettivo, può assumere rilevanza l’esistenza di controversie in materia successoria idonee a compromettere l’integrità del patrimonio delle parti.

 Nell’ambito dei giudizi di responsabilità degli amministratori di società fallite ex art. 146 l. fall. il criterio di quantificazione del danno più adeguato è quello dei c.d. “netti patrimoniali”, il quale consente di apprezzare l’effettivo contributo del soggetto, anche sul piano causale, alla verificazione del pregiudizio concretamente ascrivibile alla condotta lamentata, che nel caso di specie è rappresentata dalla illegittima prosecuzione dell’attività sociale.

I principi sono stati espressi nei giudizi di reclamo promossi dall’amministratore unico e dagli amministratori “di fatto” di una società a responsabilità limitata, poi fallita, avverso l’ordinanza che aveva concesso il sequestro conservativo ai danni dei medesimi, pronunciata nell’ambito di un’azione di responsabilità ex art. 146 l. fall. 

Al riguardo, i reclamanti contestavano la sussistenza del fumus boni iuris e del periculum in mora, nonché il criterio di quantificazione del danno, concludendo per la revoca del provvedimento cautelare.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza del 19 giugno 2018 – Giudice designato: dott. Lorenzo Lentini

Il diritto del socio di cui all’art. 2476, 2° co., c.c. incontra come unico limite il rispetto del principio di buona fede e correttezza nel rapporto sociale, sicché difficoltà di tipo economico o organizzativo della società non possono essere di ostacolo al suo concreto esercizio (conforme a Trib. Roma 15.1.2015).

La tutela della riservatezza dei dati aziendali, in caso di esercizio da parte del socio del diritto di controllo di cui all’art. 2476, 2° co., c.c., funge da “compasso” per la concreta individuazione dei confini oggettivi di tale diritto,  specie  qualora emergano elementi sintomatici di una potenziale fattispecie di concorrenza sleale a danno della società. In tali situazioni, il giudice è tenuto ad adottare una soluzione interpretativa idonea a mitigare il rischio dell’eventuale adozione da parte del socio di comportamenti abusivi e potenzialmente lesivi dell’interesse sociale, che si traduce in una sensibile limitazione dell’ambito oggettivo del diritto di controllo (conforme a Trib. Milano, 8.5.2014). In quest’ottica la società può essere autorizzata a non rivelare i segreti commerciali ex artt. 98 e 99 c.p.i. e le informazioni idonee a conferirle un vantaggio competitivo nei confronti di imprese concorrenti, purché la stessa motivi in modo puntuale le ragioni della natura riservata dell’informazione omessa.

Principi espressi in ipotesi di accoglimento del ricorso promosso ex art. 669-duodecies c.p.c. con il quale era stata domandata la determinazione delle modalità di attuazione all’ordinanza, pronunciata ex artt. 700 c.p.c. e 2476 c.c., che aveva ordinato ad una s.r.l. di consentire ad un socio di minoranza la consultazione, anche per mezzo di un professionista di fiducia, di alcuni libri sociali e documenti relativi all’amministrazione sociale (più precisamente, libro soci, libro delle adunanze e delle deliberazioni dell’assemblea e del consiglio di amministrazione, nonché registri IVA, dichiarazioni fiscali, fatture emesse e fatture di acquisto del 2017, disponendo per questi ultimi che fossero “oscurati” i nominativi dei clienti e dei fornitori nonché l’oggetto dei beni in essi indicati, “qualora inerenti alla produzione”).

Nel caso di specie, il ricorrente lamentava il ritardo con il quale la società aveva messo a disposizione la documentazione oggetto di esibizione; la decisione della stessa di impedirle l’accesso alla sede sociale per la consultazione di detta documentazione, avendo ritenuto sufficiente la sua trasmissione via p.e.c., e l’adozione di misure restrittive reputate eccessive, posto che le numerose parti oscurate dei documenti esibiti non avrebbero consentito di esercitare le sue prerogative sociali.

Ord. 19.6.2018

(Massima a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza del 28 aprile 2018 – Presidente relatore: Dott. Stefano Rosa

Deve ritenersi sussistente la legittimazione della società a responsabilità limitata ad esperire azione di responsabilità nei confronti degli amministratori ex art. 2476 c.c., in quanto l’attribuzione della predetta azione a ciascun socio, ai sensi dell’art. 2476, co. 3, c.c., non vale ad escludere l’interesse sociale alla pretesa risarcitoria.

La legittimazione de quo è tanto più sicura nel caso della responsabilità degli ex amministratori, ipotesi in cui la ratio ordinamentale non è tanto quella di attribuire un potere diffuso (a tutti i soci) di azione per eludere il conflitto di interessi proprio dei soci di maggioranza-amministratori, ma di ricostruire con precisione il fondamento ed il contenuto della pretesa risarcitoria nei confronti della pregressa gestione amministrativa, compito certamente più agevole per la nuova amministrazione che per il singolo socio.

Ai fini della responsabilità di cui all’art. 2476 c.c., la direzione societaria di cui agli artt. 2497 e ss. c.c., in linea di principio, non può costituire base di pretese risarcitorie da parte della società che quel controllo-direzione abbia esercitato.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso da una s.r.l. nei confronti degli ex amministratori e componenti del consiglio di amministrazione ai fini dell’accertamento della responsabilità dei medesimi ex art. 2476 c.c.

La causa petendi era costituita dall’aver i convenuti asseritamente dato corso a violazione di legge per aver omesso, nell’esercizio della loro carica, di approvare e depositare bilanci societari per un periodo di tempo determinato, di convocare l’annuale assemblea dei soci, di amministrare con diligenza, buona fede e la correttezza richiesta nella gestione del patrimonio altrui, di aver impedito il controllo da parte dei soci mediante l’adozione di “idonei artifici” e di aver garantito “sovrafatturazioni” da parte delle aziende direttamente intestate agli ex consiglieri per importi tali da annullare il finanziamento e quindi il patrimonio netto della società attrice.

A conforto del petitumrisarcitorio l’attrice rilevava che si era palesato inesigibile il finanziamento a suo tempo dalla stessa erogato ad una s.r.l. controllata, discendente dalla dichiarazione di fallimento della debitrice, impegnata in un’iniziativa immobiliare asseritamente minata dalla determinazione contrattuale di “corrispettivi fuori mercato” e “sovraffatturazioni” a favore delle società appaltatrici e subappaltatrici appartenenti agli amministratori convenuti. 

Sul punto il Tribunale, accertata la carenza dei presupposti ai fini dell’applicazione dell’art. 2476 c.c., ha rigettato le domande formulate dalla società attrice.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 23 marzo 2018 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott. Stefano Franchioni

Ove alla stipula di un contratto preliminare segua ad opera delle stesse parti la conclusione del contratto definitivo, quest’ultimo costituisce l’unica fonte dei diritti e delle obbligazioni inerenti al particolare negozio voluto, in quanto il contratto preliminare, determinando soltanto l’obbligo reciproco della stipulazione del contratto definitivo, resta superato da questo, la cui disciplina, con riguardo alle modalità e condizioni, anche se diversa da quella pattuita con il preliminare, configura un nuovo accordo intervenuto tra le parti e si presume sia l’unica regolamentazione del rapporto da esse voluta. La presunzione di conformità del nuovo accordo alla volontà delle parti può, nel silenzio del contratto definitivo, essere vinta soltanto dalla prova di un accordo posto in essere dalle stesse parti contemporaneamente alla stipula del definitivo dal quale risulti che altri obblighi o prestazioni, contenuti nel preliminare, sopravvivono al contratto definitivo (conf., ex multis, Cass. n. 30735/2017). Conseguentemente, non può trovare applicazione la clausola compromissoria contenuta nel contratto preliminare, laddove la stessa non sia prevista anche nel definitivo ovvero in altro separato accordo contestualmente concluso. 

La prescrizione quinquennale di cui all’art. 2949, co. 1, c.c. opera con riguardo ai diritti che scaturiscono dal rapporto societario, e cioè dalle relazioni che si istituiscono fra i soggetti dell’organizzazione sociale in dipendenza diretta dal contratto di società o che derivano dallo svolgimento della vita sociale, mentre ne restano esclusi tutti gli altri diritti che trovano la loro ragion d’essere negli ordinari rapporti giuridici che una società (o il singolo socio) può contrarre al pari di ogni altro soggetto (conf., ex multis, Cass. n. 21903/2013). Pertanto, soggiacciono al termine di prescrizione ordinario i rapporti giuridici aventi titolo nel contratto di cessione di partecipazione azionaria stipulato tra il singolo socio e il soggetto acquirente della partecipazione ceduta.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso dal curatore fallimentare nei confronti dei soci di una s.p.a., con cui il medesimo chiedeva: (i) da un lato, la declaratoria di nullità per violazione dell’art. 2358 c.c. del contratto preliminare di cessione delle azioni stipulato tra di essi, quali promittenti venditori, e la società poi fallita, quale promissaria acquirente, nonché dei successivi contratti di vendita e, (ii) dall’altro, la condanna dei convenuti alla restituzione di quanto da ognuno di essi incassato a titolo di prezzo per la cessione.

I convenuti si costituivano in giudizio eccependo, preliminarmente, l’incompetenza/difetto di giurisdizione del tribunale adito in ragione della clausola compromissoria contenuta nel contratto preliminare (e non prevista nei definitivi), nonché il decorso della prescrizione quinquennale ex art. 2949 c.c. delle domande di nullità dei predetti contratti.

Sul punto il Tribunale, rilevato che le somme chieste in restituzione erano state corrisposte in forza dei singoli contratti di cessione (produttivi dell’effetto traslativo), e non del contratto preliminare, accertata l’infondatezza delle eccezioni di carenza di giurisdizione/incompetenza del tribunale adito e di prescrizione dell’azione di nullità, ha rigettato le domande preliminari formulate da parte convenuta, disponendo, con separata ordinanza, la prosecuzione del giudizio.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 22 marzo 2018 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott.ssa Alessia Busato

La condotta del socio-amministratore di una s.r.l. che consista nell’abusivo esercizio del diritto di voto in assemblea – come, ad esempio, nel caso di ostruzionismo all’approvazione del bilancio d’esercizio – non configura un’ipotesi di responsabilità ex art. 2476 c.c., neppure con riferimento al comma 7 dell’articolo medesimo, dal momento che non costituisce un contributo intenzionale al compimento di un diverso atto gestorio dannoso per la società e dovendosi ritenere presupposto imprescindibile, per l’applicazione della norma in esame, la concorrente responsabilità degli amministratori nella causazione del danno eziologicamente riconducibile all’atto deciso o autorizzato dal socio stesso

La responsabilità dell’amministratore non è invocabile in ordine all’opportunità o meno delle scelte gestionali e della loro eventuale incidenza negativa sul patrimonio societario, dal momento che la sua configurabilità esige piuttosto la ricorrenza di un fatto illecito, ossia di un comportamento che integri la violazione di obblighi specifici, inerenti alla carica, o generali.

Ricorre la situazione di conflitto di interessi del socio allorquando lo stesso sia portatore di un interesse extrasociale – antitetico e incompatibile rispetto a quello societario – che non possa essere perseguito dal socio se non mediante il corrispondente sacrificio dell’interesse societario. Nel perseguire l’interesse extrasociale, poi, il voto del socio in conflitto deve essere determinante per l’approvazione della deliberazione anche solo potenzialmente dannosa per la società.

Decisione resa con riferimento all’azione di responsabilità esercitata dal socio-persona giuridica di una s.r.l. nei confronti di un socio-amministratore che, in forza di previsioni statutarie, aveva de facto un diritto di veto sulle deliberazioni e assembleari e gestorie.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)