Sentenza del 23 settembre 2019 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Alessia Busato

La responsabilità degli amministratori verso i creditori sociali, difettando la preesistenza di un vincolo obbligatorio per il quale possa configurarsi l’inadempimento, ha natura extracontrattuale e sorge se ed in quanto il comportamento degli amministratori cagioni una diminuzione del patrimonio sociale di entità tale da rendere lo stesso inidoneo per difetto ad assolvere la funzione di garanzia patrimoniale generica di cui all’art. 2740 c.c., puntualizzandosi la tutela riconosciuta ai creditori sociali sul diritto ad ottenere dagli amministratori, a titolo di risarcimento, l’equivalente della prestazione che, per loro colpa, la società non è più in grado di adempiere (conf. Cass. n. 10488/1998 e Cass. S.U. n. 1641/2017).

In base al combinato disposto degli artt. 146 l. fall. e 2394-bis c.c., la dichiarazione di fallimento della società ha quale effetto la legittimazione esclusiva della curatela ad esercitare, previa autorizzazione del giudice delegato, l’azione di responsabilità verso i creditori sociali.

La fattispecie di responsabilità ex art. 2394, 1° comma, c.c. presuppone l’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti, derivante dalla violazione degli obblighi inerenti alla sua conservazione da parte degli amministratori della società. Costituisce prova della sussistenza di detta fattispecie il mancato riscontro, da parte della curatela fallimentare, (nelle giacenze effettivamente disponibili) della giacenza di cassa risultante dalla contabilità della società alla data del fallimento, trattandosi di circostanza idonea ad aggravare il dissesto patrimoniale della società imputabile alla condotta negligente dell’organo gestorio.

Principi espressi in ipotesi di esercizio dell’azione di responsabilità ai sensi dell’art. 146 l. fall. e degli artt. 2394 e 2394-bis c.c. da parte della curatela di una s.r.l. fallita contro gli ex componenti dell’organo amministrativo.

In particolare, la curatela fallimentare lamentava che dall’esame della contabilità della società era emersa, alla data del fallimento, la registrazione di una giacenza di cassa, che non aveva mai trovato riscontro nelle giacenze effettivamente disponibili. Il fallimento quindi chiedeva di accertare la responsabilità degli ex amministratori per essere questi ultimi venuti meno agli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 12 agosto 2019 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Angelica Castellani

La disciplina del rapporto tra nudo proprietario e usufruttuario nelle società di persone deve essere ricercata nelle norme del contratto sociale e nei principi generali (ricavabili anche dalle disposizioni in materia di società capitali, laddove aventi carattere non eccezionale e, pertanto, suscettibili di applicazione analogica). In particolare, in tema recesso del socio nudo proprietario, deve escludersi, ai fini del legittimo esercizio di tale facoltà, il necessario concorso della volontà del titolare di usufrutto sulla quota oggetto di recesso. A sostegno di tale impostazione militano i seguenti argomenti:

a) l’opinione assolutamente prevalente in dottrina – formatasi in relazione all’art. 2352 c.c. ante e post riforma, estendibile, in considerazione della sua portata generale, alle società di persone – secondo cui il recesso non è qualificabile – se non parzialmente e per difetto – come mero diritto amministrativo, essendo maggiormente accostabile alle facoltà il cui esercizio incide direttamente sulla partecipazione societaria o sulla sua misura (come il diritto di opzione o come la stessa vicenda traslativa): la quasi totalità degli interpreti ha, conseguentemente, sostenuto che, in presenza di vincoli sulle partecipazioni, la titolarità del diritto di recesso rimanga di competenza esclusiva del socio, ancorché nudo proprietario o debitore pignoratizio;

b) la tesi avallata, ante riforma, dalla Corte di Cassazione, che ha ulteriormente escluso che il titolare del diritto parziario (in quel caso un creditore pignoratizio) possa esercitare il recesso in via surrogatoria ex art. 2900 c.c., affermando il seguente principio giuridico: “il creditore pignoratizio delle azioni – ancorché, ai sensi dell’art. 2352 cod. civ., a lui competa, in luogo del socio suo debitore, il diritto di voto (anche) nelle deliberazioni concernenti il cambiamento dell’oggetto o del tipo della società o il trasferimento della sede sociale all’estero – non è legittimato ad esercitare il diritto di recesso di cui all’art. 2437 cod. civ., configurandosi questo come un atto di disposizione in ordine alla partecipazione societaria, di esclusiva spettanza del socio, ed essendo d’altra parte la tutela del creditore pignoratizio affidata, in presenza di una diminuzione del valore delle azioni conseguente a quei deliberati mutamenti societari, all’istituto della vendita anticipata ex art. 2795 cod. civ.” (Cass. n. 10144/2002);

c) la considerazione secondo cui attribuire all’usufruttuario il diritto di recesso contrasterebbe con il principio di cui all’art. 981, co. 1, c.c., che impone al titolare del diritto reale parziario l’obbligo di rispettare la destinazione economica del bene, nonché con lo stesso art. 832 c.c., poiché si verrebbe a creare una limitazione al diritto esclusivo di disposizione del proprietario non prevista dalla legge;

d) argomento contrario a tale tesi non può, infine, essere ricavato dall’art. 1000 c.c., che, attenendo alla mera “riscossione” di capitali fruttiferi e riferendosi non già al “consenso” dell’usufruttuario, bensì al solo “concorso” dello stesso nelle operazioni esecutive di liquidazione, non può essere applicato estensivamente alla manifestazione di volontà inerente lo scioglimento del vincolo sociale.

Il credito relativo alla liquidazione della quota del socio uscente, avendo fin dall’origine ad oggetto una somma di denaro, ha natura pecuniaria e costituisce, quindi, un credito di valuta (conf. Cass. n. 11598/1995 e Cass. n. 5548/2004). Inoltre, l’impugnazione del socio recedente della delibera societaria che giustifica l’esercizio del diritto di recesso (nel caso di specie, della delibera di trasformazione della società da s.a.s. a s.r.l.) determina il venir meno dei requisiti di certezza ed esigibilità del credito, sicché deve escludersi che la società, che ometta il richiesto pagamento della quota di liquidazione, abbia assunto un comportamento inadempiente che giustifichi l’applicazione degli interessi moratori secondo il regime “sanzionatorio” previsto dall’art. 1284, co. 4, c.c.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso dal socio accomandante di una s.a.s., titolare della piena proprietà del 10% del capitale sociale e della nuda proprietà del 35% del predetto capitale sociale, quota quest’ultima gravata da usufrutto, nei confronti della società, al fine di far accertare il proprio intervenuto recesso dalla stessa e ottenere la condanna della convenuta alla liquidazione in proprio favore della quota di cui all’epoca del recesso risultava titolare.

A fondamento della domanda l’attore ha esposto che i soci avevano deliberato, senza la sua partecipazione e senza che lo stesso fosse stato avvisato dello svolgimento della riunione, la trasformazione della s.a.s. in s.r.l. con contestuale aumento del capitale sociale.

(Massime a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 24 giugno 2019 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott.ssa Alessia Busato

Nell’ambito di una società a responsabilità limitata, deve ritenersi che gli amministratori nominati a tempo indeterminato possano essere revocati in ogni tempo e ciò in applicazione analogica della disciplina generale di cui all’art. 1725 cod. civ. in tema di revoca del mandato oneroso, salvo il diritto dell’amministratore revocato in assenza di giusta causa ad un congruo preavviso, la cui omissione determina solo ragioni risarcitorie in capo all’amministratore.

L’abuso o eccesso di potere può costituire motivo di invalidità della delibera assembleare, quando vi sia la prova che il voto determinante del socio di maggioranza è stato espresso allo scopo di ledere interessi degli altri soci, oppure risulta in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell’esecuzione del contratto.

In tema di delibere di nomina (o revoca) dei componenti dell’organo amministrativo, ciascun socio è libero di nominare amministratori di propria fiducia e gradimento, senza che ciò comporti, di regola, il perseguimento di un interesse “personale antitetico a quello sociale” mentre gli amministratori nominati dall’assemblea della società debbono, a loro volta, adempiere il loro mandato nel rispetto di precisi obblighi e responsabilità (stabiliti nell’interesse della società amministrata).

Principi espressi nel decidere una controversia avente ad oggetto la rimozione – asseritamente senza giusta causa – di un amministratore della società con delega alla redazione delle scritture contabili dalle quali non emergeva un credito della società medesima nei confronti di altra società unipersonale del predetto amministratore delegato. Parte attrice chiedeva la rimozione della delibera assunta, a suo dire, con abuso di potere della maggioranza e che aveva ad oggetto non soltanto la rimozione dell’amministratore “infedele” ma anche la nomina di un amministratore unico il quale sarebbe stato nominato solo formalmente, come avrebbe dovuto emergere dalla durata ed il compenso dell’incarico previsti, così da lasciare la gestione di fatto della società ad altro soggetto.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)




Sentenza del 24 giugno 2019 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Relatore: dott.ssa Alessia Busato

In assenza di limitazioni convenzionali, il soggetto che sia stato amministratore ovvero dipendente di una società può ben intraprendere un’attività lavorativa nel medesimo settore nel quale operava quale amministratore ovvero dipendente, così da non veder azzerata la professionalità acquisita e senza che ciò costituisca violazione del divieto di concorrenza.

Non può ritenersi contrario a correttezza il fatto che il soggetto già amministratore ovvero dipendente intrattenga rapporti commerciali con un cliente della società nel quale operava quale amministratore ovvero dipendente, qualora non vi sia la prova che tali rapporti siano conseguenza di un diverso comportamento scorretto (derivante ad esempio dall’acquisizione di notizie riservate, da attività denigratoria o altro).

L’acquisizione di un numero irrisorio di clienti parametrato al totale di quelli della società asseritamente svantaggiata non può qualificarsi quale sviamento della clientela, specialmente in assenza di qualsivoglia comportamento idoneo a svantaggiare l’impresa altrui.

Principi espressi in una vertenza in materia di atti di concorrenza sleale ex art. 2598 co. 3 c.c. nella quale, secondo parte attrice, i convenuti avrebbero perpetrato a danno della stessa una serie di atti incompatibili con la precedente carica di amministratore della società attrice e con la successiva qualità di amministratore unico e socio di altra società concorrente. Il difetto di allegazione probatoria e l’assenza di un qualunque danno causalmente imputabile ai convenuti, hanno indotto la corte a decidere nel senso di rigettare tutte le domande attoree.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)




Sentenza del 10 giugno 2019 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott.ssa Alessia Busato

Nel caso di valutazione peritale del patrimonio sociale, finalizzato alla determinazione del prezzo unitario azionario prodromico alla cessione di partecipazioni, la parte pienamente informata in merito a tutte le circostanze di rilievo che possono incidere sulla valutazione della consistenza patrimoniale della società non può lamentare alcuna condotta decettiva dell’alienante parimenti informato.

Nel caso in cui parte di un contratto di cessione di partecipazioni azionarie sia un membro dell’organo gestorio della società, questi non può lamentare un comportamento decettivo perpetrato da altra parte contrattuale che sia anch’essa membro dell’organo gestorio. Infatti, gli obblighi informativi posti dall’ordinamento in capo ai componenti l’organo gestorio di una società di capitali lasciano intendere che questi debbano essere pienamente informati circa la consistenza patrimoniale della società il cui bilancio concorrono a redigere.

Decisione resa con riferimento alla cessione di partecipazioni azionarie al prezzo, concordato tra le parti del negozio di cessione, pari al rapporto tra titoli in circolazione e patrimonio sociale. La valutazione fatta del patrimonio sociale, tuttavia, ha tenuto in considerazione un credito già allora inesigibile in concreto per essere la società debitrice in stato di insolvenza. Tuttavia, gli acquirenti erano membri del consiglio d’amministrazione della società le cui azioni hanno rappresentato oggetto di cessione e, pertanto, devono reputarsi pienamente informati quanto alle circostanze di rilievo che possono incidere sulla valutazione della consistenza patrimoniale della società.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)




Sentenza del 7 giugno 2019 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott. Lorenzo Lentini

Ai fini del riconoscimento della responsabilità degli amministratori di società di capitali, poi fallita, per l’aggravamento del dissesto patrimoniale in conseguenza dell’omessa adozione dei provvedimenti di cui all’art. 2482-ter c.c., l’operazione sociale “nuova”, ossia incompatibile con un’opera di “mero completamento”, che abbia portata quantitativamente e qualitativamente rilevante, deve considerarsi estranea alla prospettiva liquidatoria, in quanto non funzionale alla liquidazione del patrimonio sociale, sicché l’eventuale pregiudizio che possa derivarne in capo alla società e ai creditori sociali deve ritenersi causalmente e soggettivamente imputabile agli amministratori.

Ai fini dell’accertamento della responsabilità degli amministratori per condotte distrattive, deve ritenersi rilevante l’operazione che sia connotata da significativi indici di anomalia, quali, esemplarmente, la complessità dell’operazione sul piano soggettivo, la modalità di pagamento (nel caso di specie, tramite “partite di giro contabili”, senza movimentazioni finanziarie) e il momento di conclusione dell’operazione, successivo al deposito della domanda di ammissione al concordato preventivo. D’altra parte, una fattispecie distrattiva non sanzionabile penalmente può nondimeno rilevare sotto il profilo delle conseguenze civili nell’ambito delle quali la negligenza e l’imprudenza costituiscono atteggiamenti soggettivi sufficienti a radicare la responsabilità dell’amministratore.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso dalla curatela fallimentare di una società a responsabilità limitata nei confronti degli amministratori in conseguenza: (i) della mancata adozione delle misure previste dalla legge agli artt. 2482-bis e 2482-ter c.c. in ipotesi di perdita del capitale sociale; (ii) della prosecuzione dell’attività aziendale nonostante la perdita del capitale sociale; (iii) di condotte distrattive, quali la distrazione di cespiti aziendali presenti nell’inventario e non rinvenuti e la cessione di un credito Iva a favore del socio di maggioranza senza contropartita alcuna; (iv) dell’errata tenuta delle scritture contabili.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 7 giugno 2019 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott. Lorenzo Lentini

Nel giudizio promosso dal socio in opposizione alla delibera di esclusione della società, quest’ultima assume veste sostanziale di parte istante per la risoluzione del rapporto ed è, per l’effetto, tenuta a provare il fatto specifico in base al quale risulti adottata quella deliberazione, senza poter invocare in giudizio, a sostegno della legittimità della medesima, fatti distinti e diversi, ancorché potenzialmente idonei a giustificare l’interruzione del rapporto societario (conf. Trib. Milano 15.03.2017).

La deliberazione di esclusione del socio di società cooperativa deve rispondere ai canoni dell’autonomia e della completezza, nel senso che dal suo contenuto devono emergere i fatti specifici oggetto dell’addebito. La delibera di esclusione di un socio di società cooperativa, per le gravi conseguenze che ne derivano e che investono la stessa qualità di socio, richiede chiarezza e, in particolare, la precisa enunciazione dei fatti addebitabili a fondamento dell’esclusione. Pertanto, il provvedimento deve essere univoco ed autonomo, senza che sia necessario un collegamento con elementi desumibili in altro modo (conf. Trib. Roma 26.01.2018; conf. Cass. n. 4402/2017 e n. 22097/2013).

In ipotesi di opposizione del socio di società cooperativa avverso la deliberazione di esclusione, trattandosi di delibera che incide sui diritti individuali del socio medesimo, il rimedio applicabile è l’annullamento.

I principi sono stati espressi nel giudizio di opposizione promosso, ai sensi dell’art. 2533 c.c., dal socio di società cooperativa avverso la deliberazione di esclusione adottata dal consiglio di amministrazione della società medesima.

Al riguardo, il socio escluso deduceva la nullità delle comunicazioni pervenutegli in quanto generiche e prive di qualsivoglia riferimento agli addebiti oggetto di contestazione.

Inoltre, l’attore lamentava l’invalidità della deliberazione in quanto il provvedimento di esclusione sarebbe stato adottato sulla base di motivazioni infondate.

Sul punto il Tribunale, in accoglimento dell’opposizione, ha annullato la deliberazione consiliare nella parte in cui disponeva l’esclusione del socio.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 5 giugno 2019 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Alessia Busato

Ai fini del riconoscimento degli onorari professionali del Collegio Sindacale, per quanto attiene la quantificazione dei compensi in assenza di riconoscimento per la mancata loro iscrizione nel libro giornale, occorre fare riferimento all’art. 37 D.M. 2 settembre 2010 n. 169.

Gli onorari professionali del Collegio Sindacale, nel caso di maggiore o minore durata dell’esercizio sociale o di nomina in corso d’esercizio, sono determinati in funzione del tempo di permanenza nella carica.

Principi espressi in ipotesi di accoglimento della richiesta di liquidazione dei compensi professionali per l’attività di revisione contabile svolta dal Collegio Sindacale. 

In particolare, il Tribunale, accertata l’avvenuta nomina del collegio nella assemblea ordinaria della S.r.l., ha affermato che per la quantificazione dei compensi professionali, in assenza di un riconoscimento per la mancata loro iscrizione nel libro giornale, occorre fare riferimento ai parametri stabiliti dall’art. 37 D.M. 2 settembre 2010 n. 169, che prevede che al professionista, che svolge la funzione di sindaco, spettano onorari specifici per le attività di cui agli artt. 2403 e 2404 c.c. nonché per la redazione della relazione di bilancio dell’esercizio precedente e per il rilascio di valutazioni, pareri e relazioni.

(Massima a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza del 3 giugno 2019 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott.ssa Alessia Busato

Deve intendersi revocata implicitamente una deliberazione impugnata da un socio per esser stata assunta in conflitto di interessi ovvero con abuso della maggioranza allorquando la società provveda ad assumere una successiva deliberazione che, in ragione del suo contenuto, sia incompatibile con la precedente.

Decisione resa con riferimento ad una delibera assembleare che approvava la stipulazione di un nuovo contratto di locazione avente ad oggetto un immobile di pregio di proprietà della società: questo sarebbe stato condotto da altra società nella quale i soci espressione della concreta maggioranza assembleare avevano interessi in conflitto con la società proprietaria dell’immobile. Successivamente, l’assemblea dei soci della società titolare dell’immobile dato in locazione assumeva una nuova deliberazione assembleare determinando nuovi – e più vantaggiosi – criteri per la stipula del contratto di locazione.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)




Sentenza del 22 maggio 2019 – Presidente: dott.ssa Alessia Busato – Giudice relatore: dott. Davide Scaffidi

L’inadempimento degli obblighi gestionali posti in capo agli amministratori di una società di capitali può avere ad oggetto lo svolgimento dell’attività gestionale o di parte di essa, ossia ben può riferirsi ad una serie coordinata di atti legati tra loro da una funzione unitaria. Pertanto, anche la violazione del dovere di tenere la contabilità, in determinate circostanze, non può essere considerata avulsa da altri comportamenti illeciti, i quali per l’appunto hanno materialmente prodotto l’evento dannoso; in questa prospettiva, la violazione inerente la contabilità sociale assume una connotazione strumentale rispetto ad atti illeciti pregiudizievoli nel senso che la scorretta o mancata redazione contabile risulta funzionale ad occultare gli atti dannosi di mala gestio.

Sotto il profilo dell’onere probatorio, non si può pretendere dalla parte che si lamenta del danno subito per inadempimento degli obblighi gestionali di rappresentare compiutamente in giudizio avvenimenti gestionali di cui non ha – né può avere avuto – conoscenza a causa di un’attività di occultamento riconducibile agli amministratori. Diversamente ragionando, si finirebbe per attribuire indebitamente un valore esimente alla circostanza della mancata predisposizione di scritture contabili, imputabile a quegli amministratori che con la loro condotta omissiva hanno di fatto ostacolato una più agevole ricostruzione del nesso eziologico tra comportamento commissivo illecito e pregiudizio effettivamente subito arrecato a società e creditori sociali.

Gli obblighi di provvedere alla regolare tenuta delle scritture contabili e di attivarsi, in caso di riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale, per l’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 2482-bis c.c. incombe su ciascuno dei membri dell’organo gestorio, se plurisoggettivo, i quali sono tenuti ad adempiere indipendentemente dall’eventuale assetto di deleghe adottato all’interno della società. La loro responsabilità deve poi parametrarsi, in via equitativa, sulla base della durata dell’incarico, tenuto conto della composizione dell’organo amministrativo nel tempo e assumendo che il pregiudizio si sia prodotto in misura costante nell’intero arco temporale.

Emerge dal bilancio una serie di dati e valori incongruenti tra loro ma anche – e soprattutto – incongruenti quanto al rapporto tra le voci riportate e l’attività d’impresa svolta dalla società. Pertanto, la Corte è stata chiamata – su impulso della curatela – a stabilire se vi fossero le condizioni per dichiarare responsabili per mala gestio i vari membri dell’organo gestorio della società fallita succedutisi nel tempo e, così, mantenere l’efficacia del sequestro cautelare e conservativo disposto nei loro confronti.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)