Sentenza del 17 marzo 2020 – Presidente relatore: Dott. Raffaele Del Porto

Nell’ambito
di una offerta pubblica di acquisto (OPA), il comunicato di cui all’art. 103,
c. 3, T.U.F., ai sensi del quale gli amministratori della società emittente
devono comunicare ogni dato utile per l’apprezzamento dell’offerta e la propria
valutazione sulla medesima, contiene, quanto alla seconda parte del comunicato,
una mera valutazione e non un giudizio (in senso stretto, avente ad oggetto
fatti oggettivamente accertabili), dunque una determinazione di valore avente
carattere necessariamente soggettivo, avendo ad oggetto situazioni suscettibili
– per loro natura – di vario apprezzamento.

La
responsabilità̀ degli amministratori della società emittente per inesattezze o
carenze del comunicato ex art. 103 T.U.F. potrà essere affermata solo
quando risultino omesse (o false) informazioni rilevanti in ordine ai dati
realmente utili per l’apprezzamento dell’offerta ovvero quando la valutazione
operata dall’organo gestorio si fondi su presupposti macroscopicamente errati o
risulti in palese contrasto con le informazioni correttamente acquisite ovvero
ancora in ulteriori casi patologici quali quelli di abuso di potere, conflitto
di interessi e altri della medesima natura.

Dato
che l’adesione degli attori all’OPA non avrebbe comportato il necessario
perfezionamento della vendita delle rispettive azioni, potendo l’efficacia
dell’OPA venir meno per effetto del mancato avveramento di una delle due
condizioni (o di entrambe le condizioni) alle quali l’offerta era assoggettata,
il danno lamentato dagli attori si caratterizzerebbe come danno da perdita di
una mera chance.

Il
creditore che voglia ottenere, oltre il rimborso delle spese sostenute, anche i
danni derivanti dalla perdita di chance
– che, come concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un
determinato bene, non è una mera aspettativa di fatto ma un’entità
patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di
autonoma valutazione – ha l’onere di provare, pur se solo in modo presuntivo o
secondo un calcolo di probabilità, la realizzazione in concreto di alcuni dei
presupposti per il raggiungimento del risultato sperato e impedito dalla
condotta illecita della quale il danno risarcibile dev’essere conseguenza
immediata e diretta (Cass. n. 1752/2005).

L’aver
mantenuto la proprietà (di gran parte) delle azioni per circa due anni a
seguito dell’insuccesso dell’OPA e sino al definitivo azzeramento del valore
del titolo induce a valutare come plausibile l’ipotesi della volontà di
conservare le proprie partecipazioni nella prospettiva di un effettivo rilancio
della società. Da tale valutazione deriverebbe un difetto di idonea prova della
sussistenza di un effettivo nesso causale fra il
– preteso – illecito oggetto di contestazione e le conseguenze lesive
lamentate.

Principi
espressi in occasione del rigetto della domanda ex art. 2395 c.c. presentata da
alcuni soci della società nei confronti degli amministratori della stessa al
momento dei fatti contestati.

In
particolare, gli attori lamentavano di aver subito un danno in ragione del
contenuto asseritamene inadeguato – per carenza ed inesattezza delle
informazioni fornite – del comunicato ex art. 103, c. 3, d.lgs. n. 58/1998
diffuso dal consiglio di amministrazione in occasione dell’offerta pubblica di
acquisto (OPA) totalitaria sulle azioni della società, nel quale era stato
espresso parere negativo che aveva indotto gli stessi a non aderire all’OPA
determinandone l’insuccesso.

Le vicende successive della società hanno portato ad un azzeramento del valore del titolo azionario avendo la stessa presentato domanda di concordato preventivo di tipo liquidatorio.

(Massime a cura di Giorgio Peli)




Sentenza del 27 gennaio 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Alessia Busato

La mancata conclusione dell’accordo di cessione delle quote di s.r.l. rende privi di causa i trasferimenti patrimoniali eventualmente occorsi, sicché anche quando le trattative non si siano concluse per fatto di colui che ha effettuato i trasferimenti, le somme versate costituiscono un indebito, potendo semmai rilevare la condotta di quest’ultimo ai sensi dell’art. 1337 c.c.

Principio espresso nel contesto di un’azione di annullamento del contratto ai sensi dell’art. 1439 c.c. e di risarcimento dei danni.

(Massima a cura di Giovanni Gitti)




Ordinanza del 24 gennaio 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

Ai fini della concessione del sequestro conservativo nei confronti degli ex amministratori della società fallita, il requisito del periculum in mora può essere integrato, in via alternativa, da elementi oggettivi, riguardanti la consistenza del patrimonio del debitore sotto il profilo qualitativo (ad esempio liquidità dei beni ivi inclusi) o quantitativo, in rapporto all’entità del credito fatto valere, ovvero da elementi soggettivi, connessi al comportamento del debitore, laddove quest’ultimo agisca con modalità tali da accrescere il ragionevole rischio di depauperamento del patrimonio ovvero da evidenziare la sua intenzione di sottrarsi all’adempimento.

In particolare, in ipotesi in cui il patrimonio del resistente risulti incapiente rispetto all’ingente credito fatto valere dal ricorrente, il requisito del periculum in mora deve ritenersi sussistente, quanto meno sotto il profilo oggettivo.

I principi sono stati espressi nel giudizio di reclamo promosso dal fallimento di una società per azioni avverso l’ordinanza, emessa in contraddittorio tra le parti, che aveva parzialmente modificato il provvedimento di sequestro conservativo concesso, con decreto inaudita altera parte, nei confronti degli ex amministratori della società, poi fallita. In particolare, l’ordinanza veniva reclamata nella parte in cui revocava la misura cautelare concessa nei confronti dell’ex consigliere delegato alla luce del difetto del requisito del periculum in mora.

Più in dettaglio, sotto il profilo del fumus boni iuris, non contestato dal reclamante, l’ordinanza attribuiva rilevanza alla prosecuzione dell’attività sociale a dispetto dell’avvenuta perdita del capitale, occultata mediante l’iscrizione a bilancio di ingenti importi per imposte anticipate in violazione dei principi contabili che disciplinano la materia.

Mentre, con riferimento al periculum in mora, l’ordinanza reclamata aveva disposto la revoca del predetto sequestro nei confronti del reclamato, in considerazione del fatto che il medesimo “è tuttora proprietario di beni immobili e non risulta aver posto in essere alcun atto volto alla dissipazione del patrimonio nel lungo lasso di tempo intercorso tra la dichiarazione di fallimento e il deposito del ricorso introduttivo di questo giudizio”. 

Il fallimento, al riguardo, evidenziava la sussistenza del pericolo da infruttuosità, derivante dalla incapienza patrimoniale del reclamato rispetto all’ingente danno cagionato.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Decreto del 21 gennaio 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Angelica Castellani

Ai fini dell’applicazione del disposto di cui all’art 2409 c.c., non è incompatibile con la presenza di un organo amministrativo collegiale la denuncia di gravi irregolarità mossa nei confronti di una parte soltanto dei componenti di detto organo, posto che la presenza di un consiglio di amministrazione non implica che le decisioni assunte a maggioranza dei suoi membri siano soggettivamente riferibili, quali gravi irregolarità, sempre e comunque a tutti i suoi componenti.

I requisiti richiesti ai fini dell’accoglimento del ricorso ex art 2409 c.c. sono l’attualità delle irregolarità censurate e il potenziale danno per la società. Tale procedimento, infatti, ha natura e finalità latu sensu cautelari, in quanto diretto all’emanazione di provvedimenti, disposti nell’interesse della società ad una corretta amministrazione, che si esauriscono in misure cautelari e provvisorie (conf. Cass. n. 30052/2011 e Cass. n. 6615/2005).

Sotto il primo profilo, le condotte oggetto di denuncia devono essere attuali, non essendo consentita l’adozione di provvedimenti da parte del tribunale laddove i comportamenti censurati abbiano esaurito i loro effetti, posto che il procedimento ex art. 2409 c.c. mira al riassetto amministrativo e non ha finalità immediatamente sanzionatorie (conf. App. Milano, 27.2.1992; App. Cagliari, 13.2.2004.

Sotto il secondo profilo anzidetto, le gravi irregolarità che possono essere denunciate ex art 2409 c.c. devono caratterizzarsi per potenzialità lesiva nei riguardi della società o di una sua controllata ed essere idonee a porre in pericolo il patrimonio sociale o a procurare grave turbamento all’attività sociale. Pertanto, deve ritenersi esclusa l’applicazione del controllo giudiziario a tutte quelle irregolarità informative o puramente formali che, nonostante possano essere gravi, non sono normalmente idonee a produrre effetti negativi immediati e diretti sul patrimonio o sull’attività sociale.

Principi espressi in ipotesi di rigetto di ricorso ex art 2409 c.c. promosso da alcuni soci della società nei confronti di alcuni membri del consiglio di amministrazione asseritamente responsabili di gravi irregolarità nella gestione della società.

(Massime a cura di Giorgio Peli)




Ordinanza del 14 gennaio 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

Da una previsione negoziale di intrasferibilità delle quote (c.d. lock up) inserita nello statuto di s.r.l. non può derivarsi l’inidoneità della quota a essere oggetto di un provvedimento di sequestro giudiziario, poiché l’inopponibilità alla società del negozio di trasferimento di una quota in violazione della clausola di lock up non incide sulla validità del negozio e, quindi, sull’astratta possibilità di emettere una pronuncia costitutiva ex art. 2932 c.c.

Principio espresso nel contesto di un reclamo avverso un’ordinanza cautelare di primo grado disponente il sequestro giudiziario di una quota di s.r.l. per inadempimento dell’obbligo di trasferimento della quota espressamente sancito in un accordo di ridefinizione degli assetti proprietari e di governance della società.

(Massima a cura di Giovanni Gitti)




Sentenza del 7 gennaio 2020 – Giudice designato: Dott. Raffaele Del Porto

In tema di condominio, l’art. 1130, n. 4, c.c., che attribuisce all’amministratore il potere di compiere atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio, deve interpretarsi estensivamente nel senso che, oltre agli atti conservativi necessari ad evitare pregiudizi a questa o a quella parte comune, l’amministratore ha il potere – dovere di compiere analoghi atti per la salvaguardia dei diritti concernenti l’edificio condominiale unitariamente considerato; pertanto, rientra nel novero degli atti conservativi di cui all’art. 1130, n. 4, c.c. l’azione di cui all’art. 1669 c.c. intesa a rimuovere i gravi difetti di costruzione, nel caso in cui questi riguardino l’intero edificio condominiale e i singoli appartamenti, vertendosi in una ipotesi di causa comune di danno che abilita alternativamente l’amministratore del condominio e i singoli condomini ad agire per il risarcimento, senza che possa farsi distinzione tra parti comuni e singoli appartamenti o parte di essi soltanto (conf., ex multis, Cass. n. 2436/2018 e Cass. n. 22656/2010).

Con riferimento all’azione ex art. 1669 c.c. va affermata la legittimazione passiva in favore: a) dell’appaltatore, soggetto espressamente contemplato dall’art. 1669 c.c.; b) del progettista e del direttore dei lavori (conf. Cass. n. 17874/2013, secondo cui “l’ipotesi di responsabilità regolata dall’art. 1669 cod. civ. in tema di rovina e difetti di immobili ha natura extracontrattuale e conseguentemente nella stessa possono incorrere, a titolo di concorso con l’appaltatore che abbia costruito un fabbricato minato da gravi difetti di costruzione, tutti quei soggetti che, prestando a vario titolo la loro opera nella realizzazione dell’opera, abbiano contribuito, per colpa professionale (segnatamente il progettista e/o il direttore dei lavori), alla determinazione dell’evento dannoso, costituito dall’insorgenza dei vizi in questione”); e c) del c.d. “venditore costruttore”, ossia “il venditore che, sotto la propria direzione e controllo, abbia fatto eseguire sull’immobile successivamente alienato opere di ristrutturazione edilizia ovvero interventi manutentivi o modificativi di lunga durata, che rovinino o presentino gravi difetti” e che pertanto “ne risponde nei confronti dell’acquirente ai sensi dell’art. 1669 c.c.” (conf. Cass. n. 18891/2017 e Cass. n. 9370/2013, secondo cui “l’azione di responsabilità per rovina e difetti di cose immobili, prevista dall’art. 1669 cod. civ., può essere esercitata anche dall’acquirente nei confronti del venditore che risulti fornito della competenza tecnica per dare direttamente, o tramite il proprio direttore dei lavori, indicazioni specifiche all’appaltatore esecutore dell’opera, gravando sul medesimo venditore l’onere di provare di non aver avuto alcun potere di direttiva o di controllo sull’impresa appaltatrice, così da superare la presunzione di addebitabilità dell’evento dannoso ad una propria condotta colposa, anche eventualmente omissiva”).

I principi che regolano la responsabilità dell’appaltatore ex art. 1667 c.c. per le difformità ed i vizi dell’opera sono applicabili anche nell’ipotesi di responsabilità per la rovina ed i gravi difetti dell’edificio, prevista dall’art. 1669 c.c. e, pertanto, il riconoscimento di tali difetti e l’impegno del costruttore di provvedere alla loro eliminazione – che non richiedono forme determinate e possono, quindi, risultare anche da fatti concludenti desumibili dalle stesse riparazioni eseguite sull’opera realizzata – concretano elementi idonei ad ingenerare un nuovo rapporto di garanzia che, pur restando circoscritto ai difetti che si manifestino in dieci anni dall’originario compimento dell’opera, si sostituisce a quello originario e che, conseguentemente, da un lato impedisce il decorso della prescrizione dell’azione di responsabilità, stabilita in un anno dalla denuncia, in base all’ultimo comma del ricordato art. 1669 c.c. e, dall’altro lato lascia impregiudicata, qualora il difetto – nonostante le riparazioni apportate – riemerga prima che siano decorsi i dieci anni a cui, in applicazione di detta norma, deve restare commisurata la responsabilità del costruttore, la possibilità di fare valere ulteriormente la garanzia ivi prevista (conf. Cass. n. 4936/1981 e Cass. n. 20853/2009, secondo cui “in tema di appalto, l’esecuzione da parte dell’appaltatore di riparazioni a seguito di denuncia dei vizi dell’opera da parte del committente deve intendersi come riconoscimento dei vizi stessi e, pertanto, il termine decennale di prescrizione di cui all’art. 1669 cod. civ. comincia a decorrere “ex novo” dal momento in cui il committente consegua un apprezzabile grado di conoscenza oggettiva della gravità dei difetti. Ne consegue che, nel caso in cui la sufficiente conoscenza dei difetti sia raggiunta solo dopo l’esecuzione delle riparazioni ed in conseguenza dell’inefficacia di queste, il termine prescrizionale deve farsi decorrere da questo successivo momento e non dall’esecuzione delle riparazioni”).

In tema di appalto, i gravi difetti di costruzione che danno luogo alla garanzia prevista dall’art. 1669 c.c. non si identificano necessariamente con vizi influenti sulla staticità dell’edificio ma possono consistere in qualsiasi alterazione che, pur riguardando soltanto una parte condominiale, incida sulla struttura e funzionalità globale dell’edificio, menomandone il godimento in misura apprezzabile, come nell’ipotesi di infiltrazioni d’acqua e umidità 

nelle murature (conf. Cass. 27315/2017, Cass. n. 84/2013 e 20644/2013 secondo cui “in tema di appalto, l’operatività della garanzia di cui all’art. 1669 cod. civ. si estende anche ai gravi difetti della costruzione che non riguardino il bene principale (come gli appartamenti costruiti), bensì i viali di accesso pedonali al condominio, dovendo essa ricomprendere ogni deficienza o alterazione che vada ad intaccare in modo significativo sia la funzionalità che la normale utilizzazione dell’opera, senza che abbia rilievo in senso contrario l’esiguità della spesa occorrente per il relativo ripristino”).

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso dal condominio che con atto di citazione ha convenuto in giudizio il costruttore, la società venditrice e il progettista e direttore lavori, per ottenerne la condanna in solido al risarcimento di tutti i danni derivanti da vizi o difformità dell’immobile condominiale, consistenti essenzialmente in: distacchi dei rivestimenti lapidei utilizzati nei camminamenti e cortili pedonali; ammaloramento della copertura dell’ingresso pedonale comune; distacchi diffusi degli intonaci dei muretti interni e della recinzione perimetrale; presenza di infiltrazioni diffuse nei controsoffitti dei porticati comuni.

(Massime a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza del 20 dicembre 2019 – Giudice designato: Dott. Lorenzo Lentini

In tema di società a responsabilità limitata, deve ritenersi esclusa la possibilità di proporre ante causam la richiesta cautelare di cui all’art. 2476, comma 3, c.c. (conf., ex multis, Trib. Brescia 26.07.2010).

Le motivazioni di detto orientamento sono note e fondate, in primo luogo, sul tenore letterale della norma, ove è previsto che il socio possa “altresì chiedere, in caso di gravi irregolarità nella gestione della società, che sia adottato provvedimento cautelare di revoca degli amministratori” (connettendo l’iniziativa cautelare di revoca all’esercizio dell’azione di responsabilità), nonché sull’intenzione del legislatore, ricavabile dalla relazione ministeriale illustrativa della riforma di cui al d.lgs. 6/2003, ove si legge (par. 11) che “….da questa soluzione consegue coerentemente il potere di ciascun socio di promuovere l’azione sociale di responsabilità e di chiedere con essa la provvisoria revoca giudiziale dell’amministratore in caso di gravi irregolarità”. 

Detta interpretazione trova conforto anche in indicazioni di carattere sistematico, quali la presenza nell’ordinamento del diritto societario post riforma di ulteriori ipotesi di provvedimenti cautelari ammissibili esclusivamente in corso di causa: si pensi, ad esempio, al rimedio previsto dall’art. 2378, comma 3, c.c. con riferimento alla sospensione dell’esecuzione della deliberazione assembleare oggetto di impugnazione. 

Infine non può essere trascurata la constatazione generale che la portata di un provvedimento cautelare di revoca degli amministratori, che incide significativamente nella vita di una società di capitali, richiede in capo al giudice un livello adeguato di conoscenza delle ragioni a fondamento dell’azione di responsabilità, ragioni che, di regola, soltanto l’esame dell’atto introduttivo del giudizio di merito (anche se affidato alla cognizione arbitrale) può consentire di conoscere. 

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso con ricorso ex art. 700 c.p.c. dal socio di minoranza di una società a responsabilità limitata contro i componenti dell’organo amministrativo, con cui chiedeva al Tribunale di disporsi in via cautelare la revoca degli amministratori ai sensi dell’art. 2476, comma 3, c.c.

A sostegno della domanda il ricorrente esponeva la sussistenza di gravi irregolarità gestorie e, in particolare, la violazione dell’art. 2359-quinquies c.c., commessa nell’ambito di una operazione di conferimento di ramo d’azienda a favore della controllante, deliberata dall’assemblea della società.

In punto di periculum in mora, il ricorrente lamentava la persistente reiterazione da parte dell’organo di amministrazione di condotte volte al “drenaggio di risorse a favore della controllante”, condotte che il provvedimento cautelare richiesto sarebbe stato idoneo ad impedire “nelle more delle promuovende azioni di merito” aventi a oggetto, tra l’altro, l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori medesimi.

Gli amministratori resistenti, costituitisi, eccepivano preliminarmente l’inammissibilità della revoca ante causam degli amministratori di società a responsabilità limitata e l’inammissibilità del ricorso per difetto di residualità e strumentalità, nonché per l’omessa allegazione degli elementi costitutivi della prospettata azione di merito, sotto il profilo della ricostruzione del danno.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 20 dicembre 2019 – Presidente: Dott.ssa Alessia Busato – Giudice relatore: Dott.ssa Angelica Castellani

Sotto
il profilo oggettivo, integra gli elementi costitutivi del reato di bancarotta
fraudolenta per distrazione ex art. 216 l.fall. il prelievo da parte
dell’amministratore di somme dalle casse sociali privo di adeguata
giustificazione e/o per finalità estranee allo scopo sociale. Tale
comportamento si pone in contrasto con gli interessi della società fallita e
dell’intera massa dei creditori, consistendo nell’appropriazione di parte delle
risorse sociali, distolte dalla loro naturale destinazione a garanzia dei
creditori (conf. Cass. pen. n. 30105/2018; Cass. n. 49509/2017; Cass. n.
50836/2016).

Ai
fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione ex
art. 216 l.fall. si deve escludere la necessità di un nesso causale tra i fatti
di distrazione e il successivo fallimento, ritenendosi sufficiente che l’agente
abbia cagionato il depauperamento dell’impresa, destinandone le risorse ad
impieghi estranei alla sua attività. Pertanto, una volta intervenuta la
dichiarazione di fallimento, i fatti di distrazione assumono rilievo anche se
siano stati commessi quando ancora l’impresa non versava in condizioni di
insolvenza.

Ai
fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione ex
art 216 l.fall. né la previsione dell’insolvenza come effetto necessario,
possibile o probabile, dell’atto dispositivo, né la percezione della sua
preesistenza nel momento del compimento dell’atto sono condizioni essenziali ai
fini dell’antigiuridicità penale della condotta.

La
natura di reato di pericolo del delitto di bancarotta fraudolenta per
distrazione ex art 216 l.fall. rende irrilevante che al momento della
consumazione l’agente non avesse consapevolezza dello stato d’insolvenza
dell’impresa per non essersi lo stesso ancora manifestato. L’offesa penalmente
rilevante è conseguente anche alla mera esposizione dell’interesse protetto
alla probabilità di lesione, onde la penale responsabilità sussiste non
soltanto in presenza di un danno attuale ai creditori, ma anche nella
situazione di messa in pericolo dei loro interessi (Cass. pen. n. 44933/2011).

L’elemento
psicologico richiesto ai fini della sussistenza del delitto di bancarotta
fraudolenta per distrazione ex art 216 l.fall. è il dolo generico
rappresentato dalla consapevolezza di dare al patrimonio sociale una
destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte.
Pertanto, la rappresentazione e la volontà dell’agente devono inerire la deminutio
patrimonii
, dovendo l’imprenditore considerarsi sempre tenuto ad evitare
l’assunzione di condotte tali da esporre a possibile pregiudizio i propri
creditori, nel senso di astenersi da comportamenti che comportino una
diminuzione patrimoniale senza trovare giustificazione nella fisiologica
gestione dell’impresa (conf. Cass. n. 9710/2019).

La
qualifica soggettiva di mero socio non esclude la configurabilità della
bancarotta per distrazione ex art. 216 l.fall. in concorso con
l’amministratore, laddove emerga la prova che la condotta depauperativa (
nel caso di specie, appropriazione di somme di denaro dal conto corrente della
società e impiego delle stesse per finalità estranee allo scopo sociale )

sia stata realizzata con la consapevolezza e l’avallo dell’amministratore
predetto.

In
tal caso il dolo del concorrente “extraneus” è configurabile
ogniqualvolta egli apporta un contributo causale volontario al depauperamento
del patrimonio sociale, non essendo richiesta la consapevolezza dello stato di
dissesto della società (Cass. pen. n. 54291/2017; Cass. pen. n. 38731/2017;
Cass. pen. n. 12414/2016).

Il
più lungo termine di prescrizione previsto per l’illecito penale trova
applicazione ex art 2947, 3° co., c.c. anche alla responsabilità di
natura contrattuale ex art. 2476, 1° co.,  c.c., oltre a quella di natura
extracontrattuale (conf. Cass. n. 16314/2017).

Principi
espressi nell’ambito di una azione ex art. 146 l.fall. promossa dal curatore
nei confronti dei soci e degli amministratori della società fallita al fine di
ottenere, previo accertamento
incidenter tantum
della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione
ex
art. 216 l.fall., la condanna al risarcimento danni cagionati alla società
medesima e ai creditori sociali.

(Massime
a cura di Giorgio Peli)




Sentenza dell’8 ottobre 2019 – Presidente relatore: Dott. Raffaele Del Porto

La competenza in tema di azione revocatoria ordinaria si determina in relazione al credito cautelato con tale azione (conf. Cass. n. 5402/2004).

Costituisce una condotta che rivela un’inescusabile negligenza del liquidatore e determina un chiaro danno per i creditori sociali, ai quali sono stati sottratti i beni (o il loro ricavato) destinati alla loro soddisfazione, l’alienazione della gran parte dei beni strumentali della società in liquidazione e la contestuale, immediata e inspiegabile rinuncia, da parte del liquidatore, del credito nei confronti della società acquirente.

In tema di azione revocatoria, sono soggetti a revoca, ai sensi dell’art. 2901 c.c., i contratti definitivi stipulati in esecuzione di un contratto preliminare, ove sia provato il carattere fraudolento del negozio con il quale il debitore abbia assunto l’obbligo poi adempiuto, e tale prova può essere data nel giudizio introdotto con la domanda revocatoria del contratto definitivo, indipendentemente da un’apposita domanda volta a far dichiarare l’inefficacia del contratto preliminare.

Il contratto preliminare di vendita di un immobile non produce effetti traslativi e, conseguentemente, non è configurabile quale atto di disposizione del patrimonio, assoggettabile all’azione revocatoria ordinaria, che può, invece, avere ad oggetto l’eventuale contratto definitivo di compravendita successivamente stipulato; pertanto, la sussistenza del presupposto dell’“eventus damni” per il creditore va accertata con riferimento alla stipula del contratto definitivo, mentre l’elemento soggettivo richiesto dall’art. 2901 c.c. in capo all’acquirente va valutato con riguardo al momento della conclusione del contratto preliminare, momento in cui si consuma la libera scelta delle parti (conf. Cass. n. 15215/2018).

Principi espressi in accoglimento parziale dell’azione volta ad ottenere la condanna del liquidatore di s.r.l nonché la declaratoria di revoca dell’atto di alienazione dei beni da parte del liquidatore alla moglie, in attuazione degli accordi contenuti nel verbale di separazione.

L’attore lamentava di aver maturato un credito nei confronti della società e che, dopo aver ottenuto decreto ingiuntivo, le parti avevano concordato lo stralcio del credito garantito da cambiali con scadenza mensile, titoli che a loro volta non erano più stati soddisfatti. 

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza del 24 settembre 2019 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Alessia Busato

Nel giudizio proposto dalla curatela fallimentare per la condanna al pagamento di un debito di un terzo nei confronti del fallito, l’eccepibilità in compensazione di un credito dello stesso terzo verso il fallito non è condizionata alla preventiva verificazione di tale credito, purché sia stata fatta valere come eccezione riconvenzionale; solo l’eventuale eccedenza del credito del terzo verso il fallito non può essere oggetto di sentenza di condanna nei confronti del fallimento, ma deve essere oggetto di autonomo procedimento di insinuazione al passivo (Cass. n. 287/2009; Cass. n. 15552/2011; Cass. n. 64/2012; Cass. n. 14418/2013; Cass. n. 30298/2017).

La qualità di lavoratore subordinato non è compatibile con quella di amministratore unico di società di capitali datrice di lavoro (e, deve ritenersi, di liquidatore unico legale rappresentante) non essendo configurabile il vincolo di subordinazione ove manchi la soggezione del prestatore ad un potere sovraordinato di controllo e disciplina, escluso dalla immedesimazione in un unico soggetto della veste di esecutore della volontà sociale e di quella di unico organo competente ad esprimerla (conf. Cass. 5352/1998, Cass. n. 1726/1999; Cass. n. 909/2005).

Il pagamento del liquidatore eseguito in favore di un terzo per prestazioni professionali in assenza di incarico scritto, in assenza di accordo sul compenso ed in assenza di rilievo della prestazione professionale eseguita (dal terzo), costituisce comportamento, almeno superficialmente, idoneo a determinare la responsabilità del liquidatore per l’ammanco conseguente il pagamento.

Principi espressi in ipotesi di azione esercitata dalla curatela di una s.p.a. fallita contro il liquidatore unico al fine di ottenere il risarcimento del danno conseguente alla indebita riscossione, diretta o indiretta, di somme nei confronti della società.

 (Massima a cura di Marika Lombardi)