Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 13 ottobre 2020, n. 1062 – società per azioni, consiglio di sorveglianza, decadenza dalla carica, clausola simul stabunt simul cadent

Categoria: Società – Società per azioni

L’utilizzo improprio o abusivo, e quindi contrario a buona fede e correttezza, della clausola simul stabunt simul cadent ricorre solamente quando lo strumento della revoca di alcuni consiglieri sia stato utilizzato all’esclusivo fine di ottenere il risultato, realmente perseguito, di rimuovere ulteriori consiglieri “sgraditi” per scopi diversi da quelli per i quali è riconosciuto il diritto a rinunciare alla carica o per non riconoscere loro il dovuto risarcimento dei danni per revoca in difetto di giusta causa e, pertanto, eludendo l’obbligo di corresponsione degli emolumenti residui (ed in generale di risarcimento del danno) che spetterebbe loro se fossero cessati dalla carica, non per effetto della predetta clausola statutaria, ma per revoca ex art. 2383, comma terzo, c.c.

La presenza di una clausola simul stabunt simul cadent trova la sua giustificazione, tra le altre cose, nella necessità di garantire gli equilibri all’interno del consiglio di amministrazione (e di gestione) di una società e di evitare che l’equilibrio iniziale possa essere compromesso per effetto della cooptazione prevista dal primo comma dell’art. 2386 c.c. ed opera automaticamente al venir meno del numero di amministratori in essa indicato. La predetta clausola, ove applicata senza finalità abusive, non equivale ad una revoca dell’incarico e non fa sorgere alcun diritto a favore dell’amministratore decaduto il quale, accettando l’iniziale conferimento dell’incarico, aderisce implicitamente alle clausole dello statuto sociale che regolano le condizioni di indicazione e permanenza degli organi sociale e i relativi poteri. Tale adesione implica anche l’accettazione dell’eventualità di cessazione anticipata dalla carica senza risarcimento del danno in caso di applicazione della clausola simul stabunt simul cadent.

I consiglieri che sono decaduti dalla carica in conseguenza di un’applicazione abusiva della clausola simul stabunt simul cadent hanno l’onere di provare che l’atto di revoca dei consiglieri destinatari della stessa fosse volto a colpire anche gli altri consiglieri non diretti destinatari dall’atto di revoca. Tale prova può essere offerta anche attraverso la dimostrazione dell’esistenza di un accordo tra i soci volto ad estromettere anche i consiglieri non diretti destinatari della revoca dal consiglio di sorveglianza, attraverso il meccanismo della decadenza conseguente all’applicazione della menzionata clausola (al contrario, la circostanza che la società avesse deciso di revocare n. 6 consiglieri e, pertanto, un numero superiore a quello necessario per far decadere l’intero consiglio è stato ritenuto dalla Corte d’Appello un elemento per sostenere, in mancanza di prove contrarie, l’applicazione secondo buona fede della clausola).

L’operativa della clausola simul stabunt simul cadent prescinde del tutto dai motivi per cui i consiglieri vengano a mancare, sicché dalla sua applicazione in sé non può derivare alcun diritto risarcitorio. In difetto di prova dell’uso abusivo o strumentale della predetta clausola, dunque, nessuna pretesa risarcitoria ai sensi dell’articolo 2409-duodecies, quinto comma, c.c., può essere riconosciuta a quei consiglieri che sono decaduti dalla carica per effetto dell’applicazione della stessa.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso da due componenti del consiglio di sorveglianza di una società per azioni, i quali hanno agito nei confronti della società al fine di (i) accertare e far dichiarare l’insussistenza della giusta causa di revoca dalla loro carica di consiglieri intervenuta per – secondo la ricostruzione degli appellanti – un utilizzo improprio (o di abuso) della clausola statutaria simul stabunt simul cadent evidenziando in particolare che il Tribunale non aveva preso posizione in ordine all’utilizzo della clausola senza il rispetto del canone di buona fede e correttezza e ha errato nel ritenere che l’utilizzo improprio o abusivo sia finalizzato all’esclusivo scopo di ottenere la rimozione di ulteriori consiglieri sgraditi e (ii) ottenere la condanna della società convenuta al risarcimento del danno subito..

Il Tribunale di primo grado rigettava le domande proposte escludendo che nel caso in esame ricorresse un’ipotesi di uso improprio o di abuso della menzionata clausola.

Avverso la pronuncia del Tribunale, i consiglieri proponevano appello chiedendo la riforma della sentenza medesima e insistendo per l’accoglimento delle domande proposte in primo grado.

La Corte d’Appello ha rigettato le domande proposte dai consiglieri confermando integralmente la sentenza di primo grado e ha condannato gli appellanti alla rifusione delle spese di lite.

(Massime a cura di Valentina Castelli)




Sentenza del 9 ottobre 2020 – Presidente: Dott. Raffaele del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Alessia Busato

La clausola di prelazione statutaria c.d. propria – e cioè che preveda il pagamento da parte del socio che eserciti la prelazione in misura pari a quella a cui il terzo si è offerto di acquistare la partecipazione – e che abbia quale generico presupposto la «cessione» della partecipazione non trova applicazione allorché la partecipazione sia permutata (e quindi trasferita in proprietà contro trasferimento, sempre in proprietà, di immobili), e ciò per assenza di un corrispettivo fungibile che il socio prelazionario dovrebbe pagare.

Principio espresso nell’ambito di un procedimento avente ad oggetto la domanda di provvedimento costitutivo di trasferimento della titolarità di una quota di società a responsabilità limitata, data in permuta dal convenuto in spregio ad una clausola di prelazione statutaria.

(Massima a cura di Giovanni Maria Fumarola)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 21 settembre 2020 – s.n.c., revoca liquidatore per giusta causa, reclamo




Ordinanza del 17 settembre 2020 – Giudice designato: Dott. Lorenzo Lentini

Vanno tenute distinte le fasi, rispettivamente, della convocazione della adunanza assembleare e della deliberazione. Infatti, eventuali profili critici relativi alla fase della deliberazione non possono esonerare la società dal rispetto delle regole procedimentali previste per la convocazione dell’organo di amministrazione, essendo queste ultime propedeutiche alla corretta formazione della volontà assembleare.

La violazione delle regole procedimentali previste dalla legge per la formazione della volontà dell’organo assembleare nelle s.r.l. comporta la invalidità della deliberazione, stante la mancata convocazione e partecipazione del socio interessato dalla delibera. Trattasi di vizio astrattamente idoneo a determinare quanto meno l’annullabilità della deliberazione, ove si consideri pregiudicato il solo interesse del socio escluso, se non addirittura la più grave conseguenza della nullità, ove il suddetto vizio sia riconducibile alla fattispecie dell’assenza assoluta di informazione.

La valutazione della sussistenza di un nesso causale fra l’esecuzione (ovvero la protrazione dell’efficacia) della deliberazione impugnata ed il pregiudizio temuto deve essere operata dal giudice del procedimento cautelare. Detto giudizio implica l’apprezzamento comparativo della gravità delle conseguenze derivanti, sia al socio impugnante sia alla società, dalla esecuzione e dalla successiva rimozione della deliberazione impugnata. Il provvedimento cautelare di sospensione dell’efficacia della delibera potrà essere concesso soltanto ove si ritenga prevalente, rispetto al corrispondente pregiudizio che potrebbe derivare alla società per l’arresto subito alla sua azione, il pregiudizio lamentato dal socio.

Decisione resa con riferimento ad una delibera di esclusione del socio di un consorzio per sopravvenuta mancanza dei requisiti soggettivi, senza che il socio escluso sia stato convocato all’adunanza assembleare che avrebbe poi deliberato in merito alla esclusione: ciò, in apparente ossequio alla pattuizione statutaria in forza della quale si escludeva il diritto di intervento in assemblea del socio della cui esclusione si sarebbe trattato.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)




Sentenza dell’11 settembre 2020 – Presidente relatore: Dott. Raffaele Del Porto

Il mancato deposito dei bilanci relativi agli esercizi pregressi nonché quello di apertura della liquidazione, non consentendo di ricostruire in alcun modo le cause del depauperamento del patrimonio sociale, costituisce circostanza sufficiente a considerare integrata una condotta illecita del socio unico, amministratore unico e poi liquidatore della società, essendo ignota la sorte delle rilevanti attività risultanti dall’ultimo bilancio approvato.

Principi espressi in ipotesi di accoglimento di un’azione volta nei confronti del socio unico ex amministratore e liquidatore per ottenere il risarcimento del danno patito per la definitiva perdita del credito. In particolare, la società attrice aveva provveduto inizialmente a chiedere in via bonaria alla società debitrice il pagamento della somma dovuta, avendo poi appreso che la società era stata posta in liquidazione volontaria e successivamente cancellata dal Registro delle Imprese, ha richiesto il pagamento del danno al liquidatore della società, in assenza di giustificazioni dello stesso in ordine alla cancellazione della società nonostante risultasse dall’ultimo bilancio approvato un rilevante attivo patrimoniale e un consistente patrimonio netto positivo.

(Massima a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza del 11 settembre 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice Relatore: Dott. Lorenzo Lentini

Ai
fini della valutazione della competenza del tribunale correttamente adito
secondo i criteri di competenza di cui al d.lgs. 168/2003, in difetto di
espressa previsione legislativa, la chiamata in garanzia di un soggetto avente
personalità giuridica di diritto straniero non può determinare l’incompetenza
sopravvenuta, né con
riferimento alla causa di garanzia, ove la chiamata del terzo sia stata
autorizzata dal giudice al fine di realizzare il simultaneus processus, né tantomeno in relazione alla
causa principale, rispetto alla quale la società straniera non è neppure parte
(conf. Trib.
Bologna, 7 marzo 2018, Trib. Brescia, ord. 16.2.2019).

La
responsabilità dell’organo di amministrazione nell’ambito di una operazione di
acquisizione societaria che si è rilevata successivamente economicamente
sfavorevole non può essere ravvisata per il solo fatto che esso non ha
abbandonato l’operazione, ma deve essere valutata alla luce delle modalità con
le quali sono stati gestiti i rischi emersi dalle analisi di due diligence, dovendosi ricordare che l’attività di impresa presenta rischi intrinseci
che non possono essere del tutto azzerati e certi settori, come quelli ad
elevata vocazione tecnologica (caratteristica che connotava l’attività della
società in esame
) risultano naturalmente più rischiosi di altri. (Nel
caso di specie, il collegio ha valutato favorevolmente la scelta dell’organo di
amministrazione di strutturare diversamente l’operazione a fronte dei profili
di attenzione segnalati nel report della
due diligence optando per una
soluzione che fornisse ulteriori elementi informativi idonei a supportare la
congruità del valore economico dell’operazione concordata tra le parti
).

In presenza di
situazioni di conflitto di interessi in capo ad alcuni amministratori tali da
far ritenere il principio della business judgment rule non pienamente
applicabile all’operazione, l’adozione di una serie di misure “rafforzate”,
procedurali e di governance, possono essere idonee a sterilizzare i
rischi associati alla stessa. ( Nel caso di specie, il collegio ha ritenuto
che l’adozione di misure rafforzate quali: l’affidamento ad un professionista
indipendente del compito di accertare la congruità del prezzo dell’Operazione
dal punto di vista dell’acquirente, la costituzione di un comitato ristretto
composto da consiglieri disinteressati, il coinvolgimento del collegio
sindacale e il mancato voto in consiglio da parte degli amministratori
portatori di interessi in conflitto, siano state idonee a sterilizzare i rischi
connessi alla presenza situazioni di conflitto di interesse che riguardavano
l’operazione in questione).

La mancata
attivazione della clausola contrattuale di indennizzo da parte degli
amministratori previsto nel contratto di acquisizione della quota di
partecipazione rappresenta una perdita di chance, impendendo alla società la
chance di ottenere ristoro del pregiudizio subito, in via amichevole o a
seguito di contenzioso. In questa ipotesi, le valutazioni in punto di nesso
eziologico impongono di ritenere sussistente il danno – in conseguenza
dell’omissione – solo qualora l’applicazione di criteri probabilistici porti ad
accertare che, in mancanza dell’omissione stessa, il risultato vittorioso
sperato sarebbe stato ottenuto (conf. Cass. n.22026/04, Cass. n. 10966/04, Cass. n. 21894/04, Cass. n. 6967/06,
Cass. n. 9917/2010). La prova della sussistenza del nesso eziologico e del
danno è a carico del soggetto danneggiato, sul quale in riferimento alla
consistenza della chance incombe l’onere di provare la sussistenza di elementi oggettivi e certi dai quali desumere, in
termini di certezza o di elevata probabilità e non di mera potenzialità, l’esistenza
di un pregiudizio economicamente valutabile (conf. Cass. n. 15385/2011).

Principi
espressi in ipotesi di rigetto dell’azione di responsabilità sociale promossa
dalla società, poi dichiarata fallita in corso causa, nei confronti degli amministratori
in carica all’epoca dei fatti, i quali avrebbero concluso, asseritamente in
violazione dei doveri propri di amministratori, una operazione di acquisizione
di partecipazioni di una società, la quale è risultata economicamente
pregiudizievole per la società acquirente avendo registrato la società
acquisita un notevole decremento del proprio fatturato sin dall’anno successivo
all’operazione.

Nel
caso di specie, l’attore lamenta che:

  1. gli amministratori avrebbero concluso
    tale operazione con una società riconducibile ad uno degli amministratori del
    proprio consiglio di amministrazione, pertanto in presenza di un evidente
    conflitto di interessi, ad un prezzo di molto superiore rispetto al reale
    valore della società;
  2. la mancata attivazione degli obblighi
    di indennizzo previsti nel contratto di cessione della quota di partecipazione
    a fronte della incorrettezza delle dichiarazioni e garanzie rilasciate dalla
    società venditrice.

(Massime a cura di Giorgio Peli)




Tribunale di Brescia, ordinanza dell’11 agosto 2020 – s.n.c., revoca liquidatore per giusta causa




Sentenza del 7 agosto 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Davide Scaffidi

Le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori di una società di capitali previste dagli artt. 2393 c.c. e 2394 c.c. (o, per la s.r.l., artt. 2476, co. 3, e 2476, co. 6, c.c.), pur essendo tra loro distinte, in caso di fallimento dell’ente, confluiscono nell’unica azione di responsabilità, esercitabile, previa autorizzazione del giudice delegato, esclusivamente da parte del curatore.

In punto di prescrizione, la disciplina applicabile a detta azione si atteggia in modo differente a seconda dei presupposti operativi evocati: pur essendo comunque quinquennale il termine prescrizionale dell’azione di responsabilità ex art. 146 l. fall., il dies a quo è differente a seconda che il curatore abbia agito con la legittimazione processuale ex art. 146 l. fall. nell’esercizio: a) dell’azione sociale di responsabilità, oppure b) dell’azione di responsabilità esperibile da parte dei creditori.

In tal senso, il termine di prescrizione decorrerà quindi:

a) per l’azione sociale, dal momento in cui, per effetto dell’inadempimento degli obblighi degli amministratori e dei sindaci, si verifichi il danno alla società; il dies a quo, pertanto, può essere posteriore non solo a quello in cui si sia verificato l’inadempimento, ma anche a quello in cui amministratori e sindaci siano cessati dalla carica (ferma la sospensione del termine, quanto agli amministratori, durante lo svolgimento dell’incarico ex art. 2941, n. 7, c.c.);

b) per l’azione dei creditori sociali, dal momento – che può essere anteriore o coincidente con la dichiarazione del fallimento – in cui gli stessi siano stati in grado “di venire a conoscenza dello stato di grave e definitivo squilibrio patrimoniale della società” (conf. Cass. n. 9619/2009, n. 20476/2008, n. 941/2005). In ragione dell’onerosità della suddetta prova a carico del curatore, avente ad oggetto l’oggettiva percepibilità dell’insufficienza dell’attivo a soddisfare i crediti sociali, sussiste una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies a quodi decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, spettando all’amministratore convenuto nel giudizio (che eccepisca la prescrizione dell’azione di responsabilità) dare la prova contraria della diversa data anteriore di insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale (conf. Cass. n. 13378/2014). La relativa prova, se è vero che può desumersi anche dal bilancio di esercizio (conf. Cass. n. 20476/2008), deve pur sempre avere ad oggetto “fatti sintomatici di assoluta evidenza (indicati da Cass. n. 8516/2009 nella chiusura della sede sociale, nell’assenza di cespiti suscettibili di esecuzione forzata, ecc.), nell’ambito di una valutazione che è riservata al giudice di merito e insindacabile in sede di legittimità, se non per vizi motivazionali che la rendano del tutto illogica o lacunosa” (conf. Cass. n. 24715/2015).

Sussiste la responsabilità dell’amministratore unico laddove, all’esito della perizia, risulti dimostrato che il medesimo abbia redatto i bilanci in modo errato, di fatto occultando l’intervenuta erosione del capitale sociale, ed abbia omesso di adottare i provvedimenti di cui all’art. 2482-ter c.c., proseguendo indebitamente l’attività d’impresa, aggravando così il dissesto.

In tal caso, sussiste altresì la responsabilità solidale del collegio sindacale, inadempiente rispetto agli obblighi di vigilanza ex art. 2407, co. 2, c.c., avendo lo stesso omesso di rilevare le predette violazioni gestorie e non avendo reagito adeguatamente di fronte agli illeciti amministrativi posti in essere dall’amministratore unico, essendosi limitato soltanto a prospettare, in modo incompleto, la sussistenza di alcune criticità nella gestione della società poi fallita.

In tema di azione di responsabilità esercitata dal curatore fallimentare, ai fini della liquidazione del danno è necessario evidenziare che il pregiudizio arrecato alla società ed ai creditori sociali deve essere calcolato, in conformità all’art. 2486, co. 3, c.c., come di recente modificato, attraverso il criterio dei cc.dd. “netti patrimoniali”, ossia nella differenza tra il patrimonio netto alla data di cessazione della carica gestoria o a quella di apertura della procedura concorsuale, da un lato, ed il patrimonio netto alla data in cui si è verificata la causa di scioglimento, dall’altro, una volta detratti i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità.

In tema di responsabilità dei sindaci nei confronti della società, non può trovare accoglimento la domanda di manleva formulata dal sindaco nei confronti dell’assicurazione laddove la richiesta di risarcimento formulata dal sindaco sia pervenuta all’assicurazione soltanto quando la polizza aveva cessato la sua validità ed efficacia e la maggiorazione del premio prevista dal regolamento negoziale per l’estensione postuma illimitata della garanzia – riconducibile al modello “on claims made basis” – non sia mai stata corrisposta.

Principi espressi nel giudizio promosso dal curatore fallimentare di una società a responsabilità limitata ex artt. 2393 c.c., 2407 c.c. e 146 l. fall. contro l’ex amministratore unico e gli ex componenti del collegio sindacale della società, poi fallita, a fronte del compimento di atti di mala gestio da parte dell’amministratore unico, nonché l’omessa adeguata vigilanza da parte dei componenti dell’organo collegiale.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 4 agosto 2020 – Presidente relatore: Dott. Raffaele Del Porto

È fondata l’eccezione di incompetenza del Tribunale a conoscere della domanda di risarcimento danni per gli atti di mala gestio, asseritamente compiuti dall’amministratore di una società, quando l’azione, diretta a verificare la correttezza dell’operato dell’organo gestorio della società, coinvolge “diritti disponibili relativi al rapporto sociale”, che risultano ricompresi nella clausola compromissoria prevista statutariamente in forza della quale sono devolute alla cognizione di un arbitro le eventuali controversie insorte fra i soci o fra i soci e la società, anche se promosse da amministratori e sindaci o revisore, ovvero nei loro confronti, anche non soci e che abbiano per oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale.

Ai fini dell’accoglimento di un’azione di illecito concorrenziale, volta all’accertamento della fattispecie di sviamento di clientela e al conseguente risarcimento del danno, l’attore deve fornire la prova di specifiche condotte di natura illecita in contrasto con le regole di corretta concorrenza e dell’effettiva incidenza causale di dette condotte rispetto al danno patito.

In tema di illecito concorrenziale, il mero dato del sensibile calo del fatturato realizzato dall’attore nei confronti del cliente costituisce un elemento indiziario, privo peraltro dei necessari caratteri di precisione e gravità, che non consente di ritenere provata un’effettiva attività illecita produttiva di un danno.

In tema di illecito concorrenziale, si esclude la sussistenza di alcun danno patito dall’attore con riferimento a particolari clienti, quando il fatturato realizzato nei confronti di detti clienti sia andato progressivamente aumentando raggiungendo il suo picco proprio prima della proposizione dell’azione.

Principi espressi in relazione all’azione proposta da una società tesa ad ottenere il risarcimento di tutti i danni cagionati, per atti di mala gestio, dall’ex amministratore e quale corresponsabile di illecito concorrenziale commesso nella (nuova) qualità di direttore del settore vendita della società concorrente.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Ordinanza del 16 giugno 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto

La sostanziale identità del bene oggetto del trasferimento costituisce elemento indispensabile di collegamento tra contratto preliminare e contratto definitivo, sicché, qualora l’oggetto del primo sia costituito dalla totalità delle quote di una s.r.l. e venga deliberato un aumento di capitale, il radicale mutamento dell’assetto societario preclude l’ottenimento di una pronuncia costitutiva ai sensi dell’art. 2932 c.c.

Principio espresso nel contesto di un ricorso avverso un’ordinanza cautelare che aveva disposto il sequestro conservativo delle quote di una s.r.l.

(Massima a cura di Giovanni Gitti)