Sentenza del 30 aprile 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Davide Scaffidi

Le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori di una società di capitali previste dagli artt. 2393 c.c. e 2394 c.c. (o, per la s.r.l., artt. 2476, co. 3, e 2476, co. 6, c.c.), pur essendo tra loro distinte, in caso di fallimento dell’ente, confluiscono nell’unica azione di responsabilità, esercitabile, previa autorizzazione del giudice delegato, esclusivamente da parte del curatore.

In punto di prescrizione, la disciplina applicabile a detta azione si atteggia in modo differente a seconda dei presupposti operativi evocati: pur essendo comunque quinquennale il termine prescrizionale dell’azione di responsabilità ex art. 146 l. fall., il dies a quo è differente a seconda che il curatore abbia agito con la legittimazione processuale ex art. 146 l. fall. nell’esercizio: a) dell’azione sociale di responsabilità, oppure b) dell’azione di responsabilità esperibile da parte dei creditori.

In tal senso, il termine di prescrizione decorrerà quindi:

a) per l’azione sociale, dal momento in cui, per effetto dell’inadempimento degli obblighi degli amministratori e dei sindaci, si verifichi il danno alla società; il dies a quo, pertanto, può essere posteriore non solo a quello in cui si sia verificato l’inadempimento, ma anche a quello in cui amministratori e sindaci siano cessati dalla carica (ferma la sospensione del termine, quanto agli amministratori, durante lo svolgimento dell’incarico ex art. 2941, n. 7 c.c.);

b) per l’azione dei creditori sociali, dal momento – che può essere anteriore o coincidente con la dichiarazione del fallimento – in cui gli stessi siano stati in grado “di venire a conoscenza dello stato di grave e definitivo squilibrio patrimoniale della società” (conf. Cass. n. 9619/2009, n. 20476/2008, n. 941/2005). In ragione dell’onerosità della suddetta prova a carico del curatore, avente ad oggetto l’oggettiva percepibilità dell’insufficienza dell’attivo a soddisfare i crediti sociali, sussiste una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies a quodi decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, spettando all’amministratore convenuto nel giudizio (che eccepisca la prescrizione dell’azione di responsabilità) dare la prova contraria della diversa data anteriore di insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale (conf. Cass. n. 13378/2014). La relativa prova, se è vero che può desumersi anche dal bilancio di esercizio (conf. Cass. n. 20476/2008), deve pur sempre avere ad oggetto “fatti sintomatici di assoluta evidenza (indicati da Cass. n. 8516/2009 nella chiusura della sede sociale, nell’assenza di cespiti suscettibili di esecuzione forzata, ecc.), nell’ambito di una valutazione che è riservata al giudice di merito e insindacabile in sede di legittimità, se non per vizi motivazionali che la rendano del tutto illogica o lacunosa” (conf. Cass. n. 24715/2015).

In tema di azione di responsabilità ex art. 146 l. fall., deve affermarsi la responsabilità degli amministratori laddove la curatela fallimentare-attrice abbia dato prova: a) della condotta illecita addebitata agli amministratori-convenuti consistente nell’omesso tempestivo rilievo della perdita del capitale sociale, nell’omessa adozione dei rimedi di cui all’art. 2482-ter c.c. e nell’indebita prosecuzione dell’attività d’impresa, atteso che la perdita del capitale sociale doveva essere prontamente rilevata; b) delle conseguenze lesive di detta condotta consistenti nelle maggiori perdite accumulate per effetto della indebita prosecuzione dell’attività; nonché c) del nesso eziologico sussistente tra l’indebita prosecuzione dell’attività e le conseguenze patrimoniali negative subite dalla società e dai creditori sociali.

In tema di azione di responsabilità esercitata dal curatore fallimentare, ai fini della liquidazione del danno è necessario evidenziare che il pregiudizio arrecato alla società e ai creditori sociali deve essere calcolato, in conformità all’art. 2486 co. 3 c.c., come di recente modificato, attraverso il criterio dei cc.dd. “netti patrimoniali”, ossia nella differenza tra il patrimonio netto alla data di cessazione della carica gestoria o a quella di apertura della procedura concorsuale, da un lato, ed il patrimonio netto alla data in cui si è verificata la causa di scioglimento, dall’altro, una volta detratti i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità.

La disciplina più favorevole dettata dall’art. 2392 c.c. per la responsabilità degli amministratori privi di specifiche deleghe (o funzioni) non può trovare applicazione nei casi in cui sia contestata agli amministratori la violazione di doveri relativi alla corretta formazione del bilancio e agli adempimenti conseguenti, nonché l’indebita prosecuzione dell’attività in assenza dei presupposti di legge, in danno della società e dei creditori sociali. Tale disciplina, essenzialmente diretta a limitare la responsabilità degli amministratori cc.dd. non operativi (cioè privi di delege) in relazione al compimento di atti gestori dannosi, non può difatti mandare esente da responsabilità l’amministratore che, sebbene estraneo alle specifiche attività gestorie, non può non partecipare, con piena consapevolezza e conseguenti responsabilità, all’adempimento fondamentale rappresentato dalla redazione del bilancio di esercizio.

Principi espressi nel giudizio promosso dal curatore fallimentare di una società a responsabilità limitata ex art. 146 l. fall. nei confronti dei componenti del consiglio di amministrazione della società, poi fallita, a fronte del compimento di atti di mala gestio, consistenti nell’aver redatto i bilanci in modo non corretto o non veritiero, nell’aver occultato dolosamente l’erosione del capitale sociale, nell’aver omesso di adottare i provvedimenti di cui all’art. 2447 c.c. e nell’aver indebitamente proseguito l’attività di impresa, aggravando il deficit patrimoniale.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 20 novembre 2019 – Presidente relatore: Dott. Raffaele Del Porto

La vendita del bene immobile di proprietà della società amministrata senza incasso (della gran parte) del relativo prezzo (e con rinuncia all’ipoteca legale) integra una condotta contrastante con i più elementari obblighi di diligenza dell’amministratore o del liquidatore, idonea a cagionare un altrettanto palese danno al patrimonio sociale, soprattutto in caso di conclamata insussistenza di risorse finanziarie (o di altra natura) in capo alla società acquirente. 

Integra un atto di mala gestio del liquidatore l’erogazione a proprio favore di pagamenti per compensi dallo stesso deliberati in misura eccessiva in qualità di socio unico della società fallita, trattandosi di una condotta che si pone in contrasto con la situazione di crisi, o più verosimilmente di insolvenza, in cui versava la società, che avrebbe ragionevolmente imposto una più moderata quantificazione del compenso spettante al socio unico per l’attività di liquidazione auto-affidatasi.

Il pagamento “preferenziale” eseguito dall’amministratore o dal liquidatore in favore di un creditore della società poi fallita, anche se non presenta gli estremi dell’illecito penale, è in ogni caso idoneo a cagionare un danno al patrimonio della società di cui il curatore può domandare il ristoro, costituendo violazione degli obblighi di conservazione del patrimonio sociale in funzione di garanzia dei creditori. In tali casi il danno non è rappresentato dall’intera somma pagata al creditore, ma dalla differenza fra detta somma e l’importo che, in difetto di pagamento, sarebbe a questo spettato in sede di riparto fallimentare.

Principi espressi dal Tribunale in accoglimento dell’azione di responsabilità proposta dalla curatela nei confronti dell’amministratore unico e poi liquidatore di una s.r.l., per la condanna dello stesso al risarcimento dei danni cagionati al patrimonio della società fallita per effetto di condotte contrarie ai doveri propri delle cariche ricoperte, come la vendita di un immobile sociale senza incasso di gran parte del relativo prezzo, prelievi ingiustificati dai conti correnti della società, pagamenti a sé stesso per compensi del di liquidatore in misura eccessiva e ulteriori pagamenti preferenziali effettuati a favore di alcuni creditori sociali.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza del 22 marzo 2019 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Davide Scaffidi

La cessione da parte dell’amministratore di s.r.l. di beni di titolarità della società gestita (nella fattispecie brevetti) a un prezzo vile, di molto inferiore al loro valore, e l’omesso pagamento di tributi integrano gli estremi di illeciti gestori che costituiscono violazione del dovere di conservazione del patrimonio sociale che incombe sull’amministratore e sono fonte di danni per la società.

L’amministratore che abbia concorso a determinare, anche a causa della sua mala gestio, una situazione di crisi economico-finanziaria tale da incidere, in via riflessa, sulla mancanza di liquidità della società, non può invocare validamente detta situazione in funzione di esimente dal momento che non integra un’ipotesi di forza maggiore né un fatto indipendente dalla volontà dell’amministratore o dalla sua sfera di controllo nella gestione societaria. 

Non costituisce atto illecito il fatto che l’amministratore abbia avviato per conto della società un rapporto di lavoro con il proprio figlio, dal momento che la questione attiene a una scelta di opportunità imprenditoriale, come tale non sindacabile. Né è sindacabile la congruità della retribuzione riconosciuta dalla società al lavoratore rispetto alle mansioni svolte, essendo la questione rimessa in via esclusiva all’esercizio dell’autonomia privata e non sussistendo un parametro oggettivo alla luce del quale effettuare un valido raffronto, talché́ risulterebbe comunque impossibile predicare se sia eccessiva la retribuzione accordata a un lavoratore o insufficiente invece quella riconosciuta ad altro lavoratore con mansioni eventualmente equipollenti e trattamento economico deteriore. 

In tema di azione revocatoria del fondo patrimoniale, il termine di prescrizione quinquennale decorre non dalla data della stipula dell’atto dispositivo, ma da quella della sua trascrizione nei pubblici registri (conf. Cass. 24/03/2016, n. 5889).

Principi espressi dal Tribunale che, in accoglimento dell’azione, proposta nei confronti di un ex amministratore di s.r.l., ha condannato lo stesso, ex art. 2476 c.c., al risarcimento dei danni cagionati da atti di mala gestio, tra i quali la vendita di beni sociali (nella specie brevetti) a prezzo vile e l’omesso versamento dei tributi dovuti.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza del 23 aprile 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice estensore: Dott. Lorenzo Lentini

Intervenuto il fallimento di una delle società partecipanti ad una fusione, legittimato ad esperire l’azione risarcitoria da fusione invalida ex art. 2504-quater, comma 2, c.c. è il curatore fallimentare e non il singolo creditore sociale che lamenta l’incapienza del patrimonio post-fusione in quanto i proventi di una simile azione andrebbero ad indistinto vantaggio della platea di tutti i creditori e non solo di quello altrimenti attore.

Principio espresso nel contesto di un’azione risarcitoria ex art. 2504-quater, comma 2, c.c. esperita da singoli creditori di una società illegittimamente incorporata (perché depositato l’atto di fusione in pendenza di opposizione ex art. 2503 c.c.) in altra società con patrimonio incapiente.

(Massima a cura di Giovanni Maria Fumarola)




Sentenza del 21 aprile 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Davide Scaffidi

La disciplina applicabile per l’aumento di capitale deliberato da una società cooperativa a responsabilità limitata deve essere ricavata dagli artt. 2481 ss. c.c., norme da coordinare necessariamente con i principi generali della mutualità e dunque, in primo luogo, con il carattere della variabilità del capitale sociale di cui all’art. 2524 c.c. (di per sé confliggente con la necessità di modificare l’atto costitutivo a seguito di aumento). In particolare, l’art. 2524, co. 3, c.c. prescrive, ai fini dell’aumento di capitale, la necessaria adozione di una delibera nelle forme previste dagli artt. 2438 ss. c.c. (artt. 2481 ss. c.c. laddove trovi applicazione la disciplina delle s.r.l.) e quindi di una delibera dell’assemblea dei soci, salva l’ipotesi di delega statutaria agli amministratori, soggetta alle forme e agli adempimenti pubblicitari specificamente previsti per legge.

I principi sono stati espressi nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo promosso dalla società cooperativa a responsabilità limitata Alfa, in qualità di socio sovventore, nei confronti della società cooperativa a responsabilità limitata Beta.

In particolare, Beta aveva richiesto ed ottenuto il decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo avente ad oggetto il pagamento da parte di Alfa della somma a titolo di versamento dell’importo residuo dovuto per l’aumento di capitale sociale di Beta, aumento di capitale che, tuttavia, all’esito del giudizio di opposizione, era risultato non essere mai stato validamente deliberato.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 3 aprile 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

In tema di responsabilità degli amministratori nei confronti della società, l’attribuzione della qualifica di amministratore di fatto richiede un accertamento particolarmente rigoroso, in cui viene in rilievo la sistematica ingerenza di un soggetto, privo della carica formale, in decisioni di competenza dell’organo amministrativo, configurandosi quale amministratore di fatto la persona che benché priva della corrispondente investitura formale, risulta inserita nella gestione della società stessa, impartendo direttive e condizionandone le scelte operative, ove tale ingerenza, lungi dall’esaurirsi nel compimento di atti eterogenei ed occasionali, riveli avere caratteri di sistematicità e completezza (conf., ex multis, Cass. n. 4045/2016).

In particolare, è qualificabile come amministratore di fatto il soggetto che, in assenza di una qualsivoglia investitura da parte dell’assemblea (sia pur irregolare o implicita), si sia ingerito nella gestione di una società in maniera sistematica e completa. La valutazione della sistematicità e della completezza deve essere fatta tenendo in considerazione le attività svolte dal soggetto nell’ambito dei rapporti interni (con i soci e/o gli amministratori) ed esterni (coi clienti e i collaboratori) alla società (conf. Trib. Torino, 05.03.2018). Alla luce di quanto sopra, l’onere di allegazione nella fattispecie deve investire puntualmente le circostanze dalle quali detta qualifica può essere desunta, con particolare riferimento al requisito della sistematicità dell’ingerenza esterna.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso da una società a responsabilità limitata, posta in liquidazione, nei confronti dell’ex presidente del consiglio di amministrazione e successivamente, in tesi, amministratore di fatto, ai fini dell’accertamento della responsabilità di quest’ultimo, anche in via extracontrattuale, per i danni patiti dalla società in seguito al compimento di atti sociali in conflitto d’interesse.

Al riguardo, la società contestava all’ex presidente del consiglio di amministrazione l’attuazione di “un disegno unitario” volto a spogliare la società attrice dell’azienda, mediante la stipula di un contratto di affitto di azienda, a fronte di un canone irrisorio, in favore di altra società amministrata dallo stesso convenuto. Il predetto contratto, in particolare, veniva stipulato dalla società attrice in data posteriore alla cessazione del convenuto dalla carica di presidente del consiglio di amministrazione e, dunque, in un’epoca in cui il convenuto avrebbe ricoperto la carica di amministratore di fatto.

Il convenuto si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto delle domande attoree e, in subordine, l’accertamento della responsabilità solidale dei soci della società attrice, nonché dell’amministratore succeduto nella carica.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 3 aprile 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Davide Scaffidi

L’accertamento della violazione degli obblighi incombenti sugli amministratori costituisce presupposto necessario, ma non sufficiente per ravvisare in capo all’amministratore stesso una responsabilità di tipo risarcitorio: ed in vero, affinché si configuri la responsabilità in esame è necessaria la prova del danno, ossia del deterioramento effettivo e materiale della situazione patrimoniale della società, nonché la prova della riconducibilità diretta, sotto il profilo causale, del danno lamentato alla condotta omissiva o commissiva oggetto di contestazione (conf. Cass. n. 5876/2011; Cass. n. 7606/2011).

Inoltre, la specifica allegazione del nesso eziologico, oltre a fungere da parametro per l’accertamento della sussistenza della responsabilità risarcitoria dell’amministratore, è altresì funzionale, sotto il profilo oggettivo, a circoscrivere il risarcimento del danno soltanto a quegli effetti patrimoniali negativi che sono conseguenza diretta dell’inadempimento posto in essere dall’amministratore stesso. Dal punto di vista dell’onere probatorio, in tema di risarcimento del danno, poi, spetta a chi agisce l’onere di provare l’esistenza del danno stesso, il suo ammontare nonché il fatto che esso sia stato causato dal comportamento illecito di un determinato soggetto, ossia il nesso eziologico che lega il danno al comportamento.

Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore a norma dell’art. 146 l. fall., la mancata (o irregolare) tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare (conf. Cass. SS.UU. n. 9100/2015).

Principi espressi nel giudizio promosso dal curatore fallimentare di una società a responsabilità limitata ex artt. 146 l. fall., 2394-bis c.c., 2392 e/o 2393 e/o 2394 c.c., 2476 c.c. nei confronti dell’amministratore e socio della società, poi fallita, nonché ex art. 2476, comma 7, c.c. nei confronti delle socie. A fondamento delle sue pretese risarcitorie, l’attrice ha dedotto, oltre alla mancata tenuta delle scritture contabili, il compimento di atti distrattivi da parte dell’amministratore, perpetrati sulla base di scelte avallate dalle stesse socie.

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Sentenza del 18 marzo 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Davide Scaffidi

In tema di responsabilità degli amministratori di società a responsabilità limitata, l’art. 146 l. fall. attribuisce al curatore del fallimento di s.r.l. la legittimazione esclusiva ad esercitare, previa autorizzazione del giudice delegato, l’azione di responsabilità sociale e dei creditori sociali (conf. Cass. n. 17121/2010 e Cass. n. 23452/2019).

Spetta ai creditori sociali e dunque alla curatela, in ragione della specifica legittimazione, il diritto di ottenere dagli amministratori, a titolo di risarcimento, l’equivalente della prestazione che, per loro colpa, la società non è più in grado di adempiere (conf. Cass. SS.UU. n. 1641/2017). 

Le scritture contabili (che fanno prova, ai sensi dell’art. 2709 c.c., contro la società) assumono, quanto alle operazioni in esse registrate, analoga valenza probatoria nei confronti degli amministratori che le hanno formate; non altrettanto può dirsi nei confronti dei soci, che sono soggetti terzi. 

Tali principi sono stati espressi in accoglimento di un’azione, proposta dalla curatela fallimentare, volta all’accertamento e alla condanna al risarcimento del danno degli amministratori e dei soci di una s.r.l. per aver gli stessi depauperato il patrimonio della società, attraverso un uso improprio delle risorse finanziarie della stessa (concessione di finanziamenti), in relazione al peculiare contesto della incapienza del patrimonio della società poi fallita.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza 18 marzo 2020 – Presidente: Dott. Raffaele del Porto – Giudice relatore: Dott.ssa Alessia Busato

La rivalutazione discrezionale e volontaria di immobilizzazioni materiali al di fuori delle condizioni stabilite da leggi speciali non è consentita e determina la violazione dei principi di rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale, finanziaria ed economica della società.

Principio espresso nel contesto di un’azione di annullamento della delibera di approvazione del bilancio.

(Massima a cura di Giovanni Gitti)




Sentenza 17 marzo 2020 – Presidente relatore: Dott. Raffaele Del Porto

In tema di offerta pubblica di acquisto (c.d. o.p.a.), la responsabilità degli amministratori della società emittente per le inesattezze o carenze del comunicato ex art. 103 T.U.F. può essere affermata solo quando risultino omesse o falsamente rappresentate informazioni rilevanti in ordine ai dati realmente utili per l’apprezzamento dell’offerta o quando la valutazione operata dall’organo gestorio si fondi su presupposti macroscopicamente errati o risulti in palese contrasto con le informazioni correttamente acquisite. Ne consegue che laddove risulti la sostanziale adeguatezza delle informazioni relative ai dati utili per l’apprezzamento dell’offerta e la correttezza della valutazione dell’o.p.a. da parte degli amministratori, non potrà trovare accoglimento l’azione di responsabilità promossa individualmente dai soci ex art. 2395 c.c.

Principio espresso nel giudizio promosso dai soci di una s.p.a. ex art. 2395 c.c. contro i componenti del consiglio di amministrazione, al fine di ottenerne la condanna solidale al risarcimento dei danni direttamente subiti dai soci-attori, in conseguenza dell’asserita inadeguatezza del contenuto del comunicato ex art. 103, co. 3, Testo Unico della Finanza.

(Massima a cura di Marika Lombardi)