Tribunale di Brescia, decreto di rigetto del 23 marzo 2025, n. 724 – procedimento cautelare, società in nome collettivo, accesso del socio non amministratore alla documentazione societaria, estromissione dalla gestione, attualità del periculum in mora

Il ricorso cautelare proposto prima dell’inizio della causa di merito deve contenere l’esatta indicazione di quest’ultima o, almeno, consentirne l’individuazione in modo certo, pena l’impossibilità di riscontrare l’effettiva esistenza del necessario rapporto di strumentalità con l’azione di merito, di valutare la natura anticipatoria del giudizio e di verificare la competenza del giudice adito in sede cautelare.

Nell’ambito di un procedimento cautelare promosso ai fini dell’accesso alla consultazione della documentazione sociale, la produzione in giudizio, ad opera di parte resistente, di tutta la documentazione in possesso della società esclude l’attualità dell’esigenza cautelare.

Il diritto del socio ad accedere alla documentazione sociale deve essere limitato alla documentazione esistente al momento della domanda, senza che possa costringersi la società alla redazione di documentazione diversa e ulteriore rispetto a quella di cui dispongono gli organi sociali, o che l’oggetto della domanda possa estendersi indefinitamente in conseguenza della mera durata del procedimento.

L’intervento giudiziale volto alla reintegrazione del socio ingiustamente estromesso nella comune gestione risulta irrimediabilmente precluso dalla mancata produzione in giudizio di atto costitutivo e statuto, la quale non consente di verificare in concreto le modalità di esercizio dell’amministrazione, fissate ex art. 2295 c.c. dai patti sociali, impedendo al tribunale di dettare le relative regole di partecipazione.

Qualora il socio amministratore compia atti contrastanti con i doveri inerenti al rapporto gestorio, il mancato ricorso in via cautelare agli specifici rimedi volti a far valere il diritto a una corretta gestione può comportare il difetto del requisito di strumentalità dell’istanza cautelare rispetto alla pronuncia di merito.

Princìpi espressi in esito ad un procedimento cautelare avviato dal socio-amministratore, asseritamente estromesso dalla gestione, ai fini di ottenere l’accesso alla documentazione societaria.

(Massime a cura di Ilaria Porro)




Tribunale di Brescia, sentenza del 21 marzo 2025, n. 1158 – società a responsabilità limitata, contratto di mandato, inadempimento, responsabilità contrattuale della società, responsabilità extracontrattuale degli amministratori per atti dolosi e colposi

La dazione di una somma di denaro dal mandante alla società mandataria, sotto forma di bonifico su conto corrente bancario, determina la confusione del denaro, bene per sua natura fungibile, nel patrimonio di quest’ultima, con la piena facoltà degli amministratori di utilizzarlo a fini aziendali.

L’autonoma condotta colposa o dolosa dell’amministratore prevista ex art. 2476, co. 7, c.c. deve necessariamente costituire un quid pluris rispetto alle condotte tenute dalla società stessa, venendo altrimenti meno quella autonomia patrimoniale che è connotato tipico della società di capitali.

La somma accordata a titolo di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale costituisce un debito di valore, il cui importo dovrà essere oggetto di rivalutazione monetaria. Sulle somme rivalutate decorreranno gli interessi legali ex art. 1284, co. 1, c.c. dalla data del fatto alla data della domanda giudiziale e gli interessi legali ex art. 1284, co. 4, c.c. dalla data della domanda giudiziale al saldo.

Princìpi espressi in esito ad un procedimento civile avviato da creditori sociali per vedere dichiarare l’inadempimento della società convenuta alle obbligazioni pattuite tramite il contratto di mandato stipulato, nonché la responsabilità dell’amministratore unico ex art. 2476, co. 7, c.c. e ottenere la conseguente condanna al risarcimento del danno subito. Il Tribunale, pur accertando l’inadempimento della società alle obbligazioni pattuite, rigetta la domanda di risarcimento rivolta verso l’amministratore unico, osservando che il suo inadempimento si identifica con il colpevole inadempimento della società mandataria, non potendo integrare autonoma condotta colposa o dolosa.

(Massime a cura di Ilaria Porro)




Tribunale di Brescia, decreto di accoglimento del 10 marzo 2025, n. 87 – volontaria giurisdizione, società per azioni, convocazione giudiziale dell’assemblea, mutamento organo gestorio, abuso di maggioranza, sospensione necessaria del giudizio

L’esercizio dei poteri sostitutivi da parte del Tribunale in tema di convocazione dell’assemblea dei soci è subordinato alla ricorrenza dei seguenti presupposti: a) deve essere fatta richiesta di convocazione da parte di un socio che rappresenti una porzione qualificata del capitale sociale; b) la richiesta deve contemplare l’indicazione specifica degli argomenti da trattare in assemblea; c) gli argomenti indicati dal socio non devono rientrare tra quelli per i quali la legge prevede una competenza esclusiva degli amministratori o, comunque, tra quelli che sono oggetto di un progetto o di una relazione predisposta dagli amministratori; d) alla richiesta di convocazione deve seguire il rifiuto ingiustificato o l’inerzia degli amministratori o, in loro vece, dei sindaci.

Potendo il fiduciario, in quanto proprietario effettivo, disporre del bene a lui intestato in modo valido ed efficace nel rapporto con i terzi e comportando l’eventuale violazione degli obblighi derivanti dal negozio fiduciario unicamente la responsabilità risarcitoria del fiduciario inadempiente nei confronti del fiduciante (Cass. n. 3314/1959 e Cass. n. 1838/1980), la violazione di un patto fiduciario avente ad oggetto la titolarità di partecipazioni sociali, anche laddove accertata tramite contenzioso, non lascia venir meno il carattere effettivo della proprietà del capitale sociale formalmente intestata al fiduciario.

Nell’ambito dei procedimenti di volontaria giurisdizione in materia societaria non può trovare applicazione l’istituto della sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c., in quanto ove sorga, nelle more del giudizio, una questione pregiudiziale della quale il giudice deve conoscere ai fini della definizione della lite, lo stesso è tenuto a pronunciarsi su detta questione incidenter tantum, con effetti limitati alla definizione del procedimento e senza forza di giudicato (Cass. n. 3653/2023).

L’abusività dell’esercizio del diritto a richiedere la convocazione assembleare deve essere valutata raffrontando, in via prognostica, da un lato gli effetti dell’approvazione della delibera assembleare adottata in senso conforme alla volontà del socio richiedente e, dall’altro, l’eventuale derivante pregiudizio sull’interesse sociale.

Considerando che in qualsiasi società di capitali la maggioranza ha il diritto di affidare la governance della società ad amministratori a sé graditi, nominati a propria insindacabile discrezione, l’eventuale approvazione di una delibera di mutamento dell’organo di gestione – pur laddove asseritamente volta all’estromissione di amministratori sgraditi dalle mansioni gestorie – non presenta, di per sé, né pregiudizi per l’interesse sociale, né profili di abuso dei diritti in capo alla maggioranza.

In caso di convocazione giudiziale dell’Assemblea dei soci in presenza di motivi di contrasto all’interno di una compagine sociale fortemente polarizzata, è opportuna la nomina di un soggetto terzo quale Presidente dell’Assemblea, a cui demandare ogni attività funzionale alla convocazione delle parti.

Princìpi espressi in esito ad un procedimento di volontaria giurisdizione avviato dal socio di maggioranza di una società per azioni per ottenere la convocazione ex art. 2367, c. 2, c.c. di un’assemblea avente come ordine del giorno “il mutamento della natura dell’organo gestorio, da monocratico a collegiale”, più volte domandata sia all’organo gestorio che di controllo e da questi rifiutata. Si costituisce nel procedimento il socio di minoranza della società, nonché amministratore unico della stessa, adducendo la necessaria sospensione della lite in attesa della definizione di altro contenzioso riguardante la titolarità della partecipazione detenuta dal socio di maggioranza nonché la natura abusiva dell’istanza di controparte, essendo questa asseritamente finalizzata ad estrometterlo dalla gestione e dalla partecipazione stessa alla compagine sociale.

(Massime a cura di Ilaria Porro)




Tribunale di Brescia, sentenza del 21 febbraio 2025, n. 741 – opposizione a decreto ingiuntivo, società a responsabilità limitata, nullità di delibere assembleari, remunerazione del socio-amministratore, irritualità della domanda

In assenza di una norma specifica che permetta la formulazione dell’eccezione riconvenzionale quando il termine per la proposizione della domanda è scaduto, deve ritenersi che il termine di decadenza triennale previsto per l’azione di nullità ex art. 2479-ter, c. 3, c.c. sia riferito sia alla domanda che all’eccezione.

La violazione dell’art. 2389 c.c., essendo quest’ultimo qualificato alla stregua di norma imperativa (Cass. n. 20613/2024), può implicare l’illiceità dell’oggetto delle delibere assembleari assunte e la conseguente nullità ex art. 2479-ter, co. 3, c.c. delle stesse.

Il decorso del termine di decadenza previsto per l’azione di annullamento della delibera assembleare che quantifica il compenso dell’amministratore preclude l’accertamento della ragionevolezza dell’importo riconosciuto a titolo di trattamento di fine mandato.

In tema di contestazione di omessa indicazione di debiti a bilancio, la specifica indicazione, ad opera di parte contestante, della voce in cui sarebbe stato iscritto il debito della società a bilancio, al di là della regolarità contabile dell’annotazione, lascia presumere la regolare iscrizione del debito.

Nel caso in cui sia accordato agli amministratori cessati un compenso nella forma di trattamento di fine mandato, quest’ultimo diviene esigibile solo nel caso in cui non vi sia una successiva rielezione alla carica di amministratore, essendo irrilevante se tale carica sia assunta quale amministratore unico o quale membro del Consiglio di Amministrazione. Il relativo dies a quo per il decorso della prescrizione del credito è, quindi, da individuarsi nell’indomani dalla cessazione dalla carica di consigliere.

L’allegazione della sussistenza di una rinuncia al diritto nella memoria di replica alla comparsa conclusionale è certamente tardiva, costituendo questa un’eccezione non rilevabile d’ufficio (Cass. n. 29920/2020).

La mera allegazione di profili di responsabilità gestoria non è idonea a paralizzarne la pretesa creditoria dell’amministratore in relazione ai compensi a quest’ultimo accordati. L’allegazione può, infatti, solamente essere funzionale alla mera prospettazione di una futura azione risarcitoria e non implica, in assenza di specificazione sul punto, la prospettazione dell’eccezione inadimplenti non est adimplendum.

Essendo necessario, ai fini della qualificazione della domanda come lite temeraria, l’accertamento di profili di mala fede o colpa grave in capo alla parte soccombente (Cass. n. 22405/2018), la mera inconsistenza dei motivi addotti da parte attrice non può indurre alla condanna al pagamento dell’indennizzo ex art. 96, c. 3, c.p.c. qualora questi risultino comunque potenzialmente forieri di responsabilità e astrattamente idonea a paralizzare le pretese di controparte.

Princìpi espressi all’esito di un procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo avviato dalla società ingiunta per ottenere, oltre alla dichiarazione di invalidità o la revoca del decreto ingiuntivo opposto, l’annullamento o la nullità di delibere assembleari relative alla quantificazione del trattamento di fine mandato del socio-amministratore per conflitto di interessi. Parte opponente adduce nel corso della trattazione del giudizio, oltre a quanto menzionato, l’inesatta iscrizione del debito all’interno dei bilanci di esercizio, la prescrizione del credito, nonché l’avvenuta rinuncia allo stesso e profili di responsabilità gestoria. Parte convenuta, costituitasi, chiede il rigetto delle domande attoree poiché irrituali e infondate nel merito, domandando la condanna di parte opponente al pagamento dell’indennizzo ex art. 96, c. 3, c.p.c.

(Massime a cura di Ilaria Porro)




Tribunale di Brescia, decreto del 14 febbraio 2025, n. 53 – società per azioni, denunzia al tribunale ai sensi dell’art. 2409, c.c., business judgement rule, società correlate

Il procedimento di cui all’art. 2409 c.c. ha la finalità di consentire, tramite l’intervento dell’autorità giudiziaria, il ripristino della legalità e della regolarità nella gestione, violate da condotte degli amministratori gravemente contrastanti con i principi di corretta gestione societaria.

L’oggetto della denunzia di cui all’art. 2409 c.c. è il “fondato sospetto” del compimento di “gravi irregolarità nella gestione”, purché attuali e idonee a porre in pericolo il patrimonio sociale o a procurare grave turbamento all’attività della società nel cui interesse il ricorso è presentato.

L’istituto della denunzia è privo di carattere sanzionatorio in quanto allo stesso non si addicono le valutazioni a posteriori tipiche delle azioni di responsabilità. Proprio il presupposto della potenzialità del danno comporta che l’intervento giudiziario non possa ritenersi ammissibile allorquando l’azione lesiva abbia esaurito i propri effetti in assenza di elementi tali da far ipotizzare una verosimile reiterazione delle violazioni. L’espressa introduzione del requisito dell’attualità ha trasformato il procedimento in oggetto da presìdio finalizzato a perseguire la regolarità e la correttezza della gestione sociale a strumento volto a interrompere comportamenti di mala gestio in atto, idonei a costituire, se non disattivati, fonte di danno per la società. Così facendo, il legislatore ha inteso spostare l’interesse protetto da quello generale (corretto funzionamento della società) a quello, proprio dell’ente e dei suoi soci (non vedere compiuti dall’organo gestorio comportamenti idonei ad esporre ad un pregiudizio il patrimonio e l’attività sociale).

La natura – in senso lato cautelare – dello strumento ex art. 2409 c.c. (apprestato per una pronta reazione a gravi irregolarità idonee ad arrecare al patrimonio sociale un concreto pregiudizio) impedisce dunque che il rimedio sia fondatamente diretto a censurare fatti remoti e/o comunque radicalmente privi di potenzialità lesiva.

Per consolidata giurisprudenza (cfr. Cass. n. 12108/2020), il merito delle scelte gestorie non è sindacabile (c.d. business judgement rule), salvo il rispetto del limite delle regole dell’agire informati e di ragionevolezza delle scelte stesse. Al fine di verificare la ragionevolezza del modello di business oggetto di contestazione, in ipotesi di società correlate, è necessario raffrontare le condizioni economiche praticate dalla società nei confronti dei terzi con quelle praticate dalla medesima società nei confronti della società correlata, nonché con le condizioni praticate dalla società correlata nella vendita a terzi delle merci acquistate dalla società. Eventuali anomalie nel modello di business devono essere comunque sorrette dal requisito della gravità e, soprattutto, dal requisito dell’attualità.

Nel corso dell’indagine ispettiva di cui all’art. 2409, comma 2, c.c. non opera l’art. 92 disp. att. c.p.c.

Princìpi espressi nell’ambito di un giudizio promosso ai sensi dell’art. 2409, c.c. da un socio di una società per azioni che ha denunciato al tribunale il compimento di gravi irregolarità nella gestione della società da parte del suo amministratore unico che, nel caso di specie, era anche amministratore di un’altra società soggettivamente correlata. All’amministratore unico, è stato contestato di aver alterato, nel silenzio del collegio sindacale, il modello originario di business della società in modo pregiudizievole, dirottando arbitrariamente gli affari della società medesima in favore della società correlata.

(Massime a cura di Francesco Carlo Pedaci)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 10 febbraio 2025, n. 165 – riduzione del capitale al di sotto del minimo legale, diritto di opzione, sottoscrizione parziale dell’aumento di capitale, legittimazione ad agire, sequestro giudiziario ex art. 670, co. 1, n. 1, c.p.c.

Analogamente a quanto accade per le azioni di annullamento e di nullità della deliberazione assembleare, adottata per riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale (ex art. 2447 c.c. per le s.p.a. ovvero ex art. 2482 ter c.c. per le s.r.l.) – ove la perdita della qualità di socio in capo a chi non abbia sottoscritto la propria quota di ricostituzione del capitale sociale non incide sulla legittimazione ad esperire le predette azioni – deve ritenersi titolare di legittimazione, più in generale, colui il quale impugni una deliberazione (ovvero una determinazione) la cui diretta conseguenza sia, in ogni caso, il venir meno della qualità di socio. Sarebbe, infatti, logicamente incongruo – prima ancora che in contrasto con il diritto di difesa, consacrato nell’art. 24, co. 1, Cost. – ritenere, come causa del difetto di legittimazione, proprio quel fatto che l’istante assume essere contra legem e di cui vorrebbe vedere eliminati gli effetti (cfr. Cass. n. 26773/2019).

L’annullabilità di una delibera di aumento del capitale sociale, laddove non ne sia stata disposta la sospensione dell’esecuzione ai sensi dell’art. 2378, co. 3, c.c., non incide sulla validità delle successive deliberazioni adottate con la nuova maggioranza ancorché quest’ultima si sia formata a seguito del mancato integrale esercizio del diritto di opzione da parte dei vecchi soci. Infatti l’omessa richiesta e la conseguente mancata adozione del provvedimento di sospensione ex art. 2378, co. 3, c.c., rende legittimi gli atti esecutivi della prima deliberazione, anche in caso di suo successivo annullamento (cfr. Cass. n. 26842/2013).

Nessuna norma di legge impedisce al socio di una s.r.l. di sottoscrivere solo parzialmente l’aumento di capitale, comunque partecipando al ripianamento della perdita registrata nei limiti del capitale di rischio inizialmente sottoscritto, con conseguente illegittimità di qualsiasi determinazione volta ad esprimere il rifiuto di ritenere validamente esercitata l’opzione in misura parziale. Ciò si pone, infatti, in continuità con il diritto del socio, riconosciuto dall’art. 2481-bis c.c., di sottoscrivere l’aumento di capitale in proporzione – sia pur non in egual misura – alla partecipazione dallo stesso posseduta, con ogni conseguente facoltà di sottoscrivere, solo in parte, la quota di aumento al medesimo riservata e consequenziale possibilità degli altri membri della compagine sociale di sottoscrivere l’inoptato. Impedire la sottoscrizione parziale significherebbe, infatti, obbligare i soci a mantenere inalterata la misura della loro originaria partecipazione, anche quando la loro volontà fosse eventualmente diversa, vincolo che – in assenza di un identificabile superiore interesse, meritevole di tutela – mal si concilierebbe con il principio di autonomia contrattuale.

Il provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. consente di ottenere qualcosa in più e di diverso dal sequestro giudiziario della quota giacché, qualora finalizzato a una tutela anticipata degli effetti restitutori, assicura la pronta disponibilità della partecipazione societaria e, segnatamente, il pieno esercizio dei diritti connessi (patrimoniali ed economici). Il sequestro giudiziario ex art. 670 c.p.c. assolve, invece, la funzione cautelare limitata alla mera conservazione statica del bene, con esercizio dei diritti connessi alla partecipazione da parte di un custode giudiziario.

Il giudizio prognostico ex ante circa la possibilità di un danno derivante dalla situazione di contesa che rende opportuno disporre un sequestro giudiziario ex art. 670, co. 1, n. 1, c.p.c. (anche) di una quota societaria è inscindibilmente correlato alla valutazione del fumus, secondo un rapporto che è stato definito di inversa proporzionalità, tale per cui, tanto più consistente è il fumus della non coincidenza tra la situazione di fatto e quella di diritto, tanto minori dovrebbero essere le ragioni di resistenza alla concessione della cautela.

Princìpi espressi nel procedimento cautelare instaurato dal socio di s.r.l. – che assume essere stato illegittimamente pretermesso dalla compagine sociale – incardinato a seguito dalla deliberazione ex art. 2482 ter c.c. di azzeramento e ricostituzione del capitale sociale – pure impugnata in separato giudizio di merito – ed alla conseguente determinazione societaria con la quale (illegittimamente) non si è ritenuta validamente esercitata, da parte del ricorrente, la sottoscrizione del capitale in misura parziale ed inferiore rispetto alla partecipazione originariamente detenuta. Il procedimento è volto, inter alia ed in via subordinata, ad ottenere il sequestro giudiziario ex art. 670, co. 1, n. 1, c.p.c., poi concesso, della quota sottoscritta nei termini anzidetti.

(Massime a cura di Giulio Bargnani)




Tribunale di Brescia, sentenza del 31 gennaio 2025, n. 421 – compravendita di partecipazioni sociali, onere della prova, patto leonino, inadempimento contrattuale, opzione put, difetto di causa, eccessiva onerosità della prestazione

Un’alterazione quantitativa del numero di azioni vincolate ad un patto parasociale può essere dedotta in giudizio solamente se supportata dalla puntuale allegazione delle operazioni societarie che hanno originato tale sopravvenienza contrattuale.

La risoluzione ai sensi dell’art. 1453 c.c. del contratto di compravendita di una partecipazione sociale non può essere domandata in giudizio qualora il comportamento delle parti denoti una protratta tolleranza nei confronti dell’inadempimento tale da attenuare l’intensità dello stesso e da rendere manifesto il persistente interesse di entrambe le parti alla prestazione stessa (cfr. Cass. n. 22346/2014; Cass. n. 10127/2006).

Nell’ambito di un trasferimento di partecipazioni sociali, il patto di opzione put che attribuisce – limitatamente ad un circoscritto intervallo temporale – al cessionario il diritto di far (ri-)acquistare la partecipazione oggetto del trasferimento al cedente ad un prezzo maggiore rispetto a quello di acquisto non contravviene al divieto di patto leonino di cui all’art. 2265 c.c. Infatti, la contenuta efficacia temporale di tale pattuizione fa sì che questa non comporti uno stravolgimento “totale” e “costante” della causa societatis tale da stravolgere il ruolo del socio nella società (cfr. Cass. n. 27283/2024).

L’opzione put concernente una modesta partecipazione nel capitale sociale non è idonea a contravvenire il divieto di patto leonino di cui all’art. 2265 c.c. in quanto, non consentendo – in ragione della sua ridotta misura – che il suo titolare possa incidere in misura rilevante sulla gestione della società, non può nemmeno comportare un’alterazione della causa societaria.

La mancanza di corrispettivo a fronte di un’opzione put (ancorché non controbilanciata da una corrispondente opzione call) non è idonea di per sè ad alterare il sinallagma di tale negozio giuridico, e, quindi, ad essere una prova del suo difetto di causa. Infatti, l’obbligato potrebbe essere compensato non da una controprestazione in denaro ma da altre utilità riguardanti più ampi rapporti tra le parti; quali, per esempio, la sua funzione a rendere più appetibile una compravendita di partecipazioni sociali.

Ai fini della prova dell’eccessiva onerosità sopravvenuta di un’opzione put riguardante partecipazioni sociali deve essere allegata una perizia della società datata al momento di esercizio dell’opzione; e, non successiva a tale momento.

Principi affermati nell’ambito di un’opposizione a decreto ingiuntivo, proposta da una società ingiunta-opponente, la quale eccepiva dinanzi al Tribunale la risoluzione per inadempimento del contratto di compravendita di una partecipazione sociale stipulato con il convenuto. Questa, in via principale, chiedeva che fosse dichiarata la nullità dell’opzione put pattuita nella stessa data e relativa al medesimo oggetto; e, in via subordinata, che fosse dichiarata l’inefficacia dell’esercizio di tale opzione da parte dell’acquirente convenuto.

(Massime a cura di Edoardo Compagnoni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 13 gennaio 2025, n. 148 – società cooperativa, concordato preventivo, responsabilità degli amministratori, azione individuale del socio e del terzo

A fronte dell’inadempimento contrattuale di una società di capitali, la responsabilità risarcitoria degli amministratori nei confronti della controparte non deriva automaticamente da tale loro qualità, ma richiede, ai sensi dell’art. 2395 c.c., che l’attore alleghi quali siano gli obblighi di condotta a cui gli amministratori sono tenuti in ossequio a specifiche disposizioni di legge che nella specie risulterebbero violate e che fornisca la prova della natura dolosa o colposa delle condotte violative, del danno e del nesso causale tra queste e il danno patito dal terzo contraente (Cass. 17794/2015). Per gli effetti, la mancata allegazione di specifiche condotte violative da parte dell’attore rende superfluo l’accertamento degli ulteriori profili.

Ai fini dell’accertamento della responsabilità degli amministratori ex art. 2395 c.c., non può ritenersi avere carattere decettivo la mera reticenza degli amministratori in ordine alla situazione di crisi in cui versa la società e, in ogni caso, il silenzio dell’organo di gestorio è pienamente giustificato se funzionale al perseguimento dell’obiettivo del salvataggio della stessa.

Princìpi espressi nell’ambito di un giudizio promosso da un fornitore nei confronti degli amministratori di una società-cliente al fine di farne accertare la responsabilità ex art. 2395 c.c. in quanto, nella prospettazione attorea, questi ultimi, sebbene consapevoli dello stato di crisi della società (di lì a breve poi sottoposta a procedura di concordato preventivo), avrebbero continuato a impartire ingenti ordini di acquisto di beni che furono consegnati ma poi mai pagati.

(Massime a cura di Filippo Casini)




Tribunale di Brescia, sentenza del 31 dicembre 2024, n. 5391 – società a responsabilità limitata, cessione di quote con riserva di proprietà ex art. 1523, c.c., transazione, risoluzione del contratto, clausola risolutiva espressa, penale, riduzione della penale, risarcimento del danno

La risoluzione di diritto del contratto conseguente alla dichiarazione di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa opera indipendentemente da qualsivoglia valutazione di importanza dell’inadempimento, essendo la gravità oggetto di previa tipizzazione negoziale. La pattuizione di una clausola risolutiva espressa esclude che la gravità dell’inadempimento possa essere valutata dal giudice nei casi già previsti dalle parti (cfr. Cass. n. 29301/2019, Cass. n. 4369/1997 e Cass. n. 10815/1995).

Quanto sopra presuppone che la clausola risolutiva sia validamente pattuita, mediante formulazione non generica od onnicomprensiva, essendo noto che per la configurabilità della clausola risolutiva espressa, le parti devono aver previsto la risoluzione di diritto del contratto per effetto dell’inadempimento di una o più obbligazioni specificamente determinate, costituendo una clausola di stile quella redatta con generico riferimento alla violazione di tutte le obbligazioni contenute nel contratto (cfr.Cass. n. 23879/2021, Cass. n. 1950/2009 e Cass. n. 11055/2002).

A norma dell’art. 1523 c.c., è solo con il pagamento dell’ultima rata di prezzo che si verifica la condizione sospensiva a cui è sottoposta la vendita con riserva di proprietà. Il mancato avveramento di tale condizione esclude che si sia perfezionato tra le parti l’effetto traslativo del diritto oggetto del contratto. Pertanto, in conseguenza dell’accertata risoluzione del contratto di cessione di quote con riserva della proprietà stipulato ai sensi dell’art. 1523, c.c., nessun “ritrasferimento” è necessario e deve essere eseguito, non essendo, invero, la quota mai uscita dalla proprietà della parte cedente.

Il potere di riduzione della penale a equità, attribuito al giudice dall’art. 1384 c.c., può essere esercitato anche d’ufficio essendo previsto a tutela dell’interesse generale dell’ordinamento, al fine di ricondurre l’autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare effettivamente meritevole di tutela (cfr. Cass. n. 3297/2024). Per la valutazione della manifesta eccessività della clausola penale ai fini dell’art. 1384 c.c., il criterio di riferimento per il giudice è costituito dall’interesse del creditore all’adempimento, tenuto conto dell’effettiva incidenza dell’inadempimento sullo squilibrio delle prestazioni e sulla concreta situazione contrattuale nel corso di rapporto (cfr. Cass. n. 14706/2024).

In caso di pregiudizio patito dalla società, il socio che agisse per chiedere il risarcimento del danno sarebbe carente di legittimazione attiva dal momento che alla sola società spetterebbe, in ipotesi, il relativo credito risarcitorio.

La natura di debito di valore dell’obbligazione risarcitoria impone che sull’importo indicato vadano conteggiati gli interessi compensativi del danno derivante dal mancato tempestivo godimento dell’equivalente pecuniario del bene perduto. Tali interessi decorrono dalla produzione dell’evento di danno sino al tempo della liquidazione e si calcolano sulla somma via via rivalutata nell’arco di tempo suddetto e non sulla somma già rivalutata (cfr. Cass. n. 4791/2007, Cass. n. 1712/95).

Princìpi espressi nell’ambito di un giudizio promosso dalla parte cedente nei confronti della parte cessionaria – parti di un contratto di cessione di quote con riserva di proprietà stipulato ai sensi dell’art. 1523, c.c. e di un collegato negozio transattivo – al fine di (i) far accertare l’intervenuta risoluzione di diritto ex art. 1456 c.c. o, in via subordinata, ottenere la risoluzione giudiziale ex art. 1453 c.c. del contratto di cessione di quote e del collegato negozio transattivo; (ii) domandare, inoltre, il ristoro dei danni asseritamente derivati dalla violazione da parte della cessionaria degli obblighi informativi e di previa consultazione posti dal contratto a carico della medesima; (iii) chiedere, infine, il rimborso della somma versata al proprio legale per la stipulazione del negozio transattivo.

(Massime a cura di Francesco Carlo Pedaci)




Tribunale di Brescia, sentenza del 27 dicembre 2024, n. 5364 – società a responsabilità limitata, modalità di sottoscrizione dell’aumento di capitale

L’aumento del capitale sociale si realizza in forza di un contratto avente natura consensuale, secondo l’impostazione maggiormente condivisa in dottrina e in giurisprudenza (cfr. Cass. civ., Sez. I, 26/01/1996, n. 611), derivante dalle convergenti manifestazioni di volontà della società e dei sottoscrittori.

La sottoscrizione dell’aumento di capitale sociale si configura quale adesione da parte del socio (o, se previsto, da parte del terzo), per la quota di propria spettanza, alla decisione – assunta dall’assemblea o dall’organo gestorio (in forza di delega) – di aumentare il capitale sociale alle condizioni e nei termini stabiliti dalla decisione medesima. Tale adesione costituisce accettazione della proposta irrevocabile (la decisione societaria), secondo lo schema dell’opzione di cui all’art. 1331 c.c.

Quanto alle modalità della sottoscrizione, l’ordinamento non prescrive l’adozione di formalità particolari, essendo soltanto richiesto, ai fini della sussistenza del negozio, che ricorra una manifestazione di volontà inequivoca del socio (o del terzo) di sottoscrivere le partecipazioni. In questa prospettiva, la liberazione del capitale mediante versamento può integrare un comportamento concludente idoneo a rivelare l’esistenza di una volontà inequivoca di sottoscrizione. Pur rimettendo la definizione dei termini e delle modalità di esercizio del diritto all’autonomia privata e in particolare al contenuto della decisione, l’ordinamento stabilisce all’art. 2481-bis, comma 2 c.c., che il termine minimo – inderogabile – per l’esercizio del diritto di opzione da parte dei soci di una società a responsabilità limitata non possa essere inferiore a trenta giorni.

I messaggi whatsapp possono costituire idonea modalità di sottoscrizione dell’aumento, ove presentino un contenuto negoziale e provengano da un soggetto di per sé capace di manifestare la volontà della società.

Deve ritenersi altresì ammissibile che la sottoscrizione dell’aumento da parte del socio preceda la decisione societaria di aumentare il capitale sociale, assumendo in tal caso la prima il valore di proposta (rispetto alla quale, correlativamente, la delibera assembleare si atteggia in termini di accettazione idonea a perfezionare la fattispecie), sul presupposto che la proposta consista in una dichiarazione di contenuto negoziale sufficientemente chiara e precisa ed imputabile al socio.

Non può essere ritenuta invalida la sottoscrizione effettuata dal socio persona fisica con dichiarazione contenente il riferimento alla sua qualifica imprenditoriale poiché non sussiste alcuna alterità soggettiva tra il socio-persona fisica e il medesimo socio-imprenditore individuale.

Del pari, non è invalida la sottoscrizione dell’aumento di capitale da parte di un socio in ragione del fatto che il versamento sia avvenuto con assegno proveniente da un terzo poiché il versamento attiene alla fase logicamente successiva dell’esecuzione della sottoscrizione dell’aumento di capitale ed è ammissibile che il pagamento sia effettuato da un terzo.

Princìpi espressi nell’ambito di un giudizio promosso da un socio di una società a responsabilità limitata che ha richiesto, in primo luogo, di accertarsi l’intervenuta sottoscrizione dell’aumento di capitale da parte della società attrice mediante esercizio del diritto di opzione nel termine previsto dalla decisione assembleare; e, in secondo luogo, di accertarsi l’illegittimità e l’inefficacia delle sottoscrizioni effettuate da parte degli altri soci nell’esercizio della prelazione sulla parte di aumento di capitale rimasto inoptato.

(Massime a cura di Francesco Carlo Pedaci)