Tribunale di Brescia, ordinanza del 10 febbraio 2025, n. 165 – riduzione del capitale al di sotto del minimo legale, diritto di opzione, sottoscrizione parziale dell’aumento di capitale, legittimazione ad agire, sequestro giudiziario ex art. 670, co. 1, n. 1, c.p.c.

Analogamente a quanto accade per le azioni di annullamento e di nullità della deliberazione assembleare, adottata per riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale (ex art. 2447 c.c. per le s.p.a. ovvero ex art. 2482 ter c.c. per le s.r.l.) – ove la perdita della qualità di socio in capo a chi non abbia sottoscritto la propria quota di ricostituzione del capitale sociale non incide sulla legittimazione ad esperire le predette azioni – deve ritenersi titolare di legittimazione, più in generale, colui il quale impugni una deliberazione (ovvero una determinazione) la cui diretta conseguenza sia, in ogni caso, il venir meno della qualità di socio. Sarebbe, infatti, logicamente incongruo – prima ancora che in contrasto con il diritto di difesa, consacrato nell’art. 24, co. 1, Cost. – ritenere, come causa del difetto di legittimazione, proprio quel fatto che l’istante assume essere contra legem e di cui vorrebbe vedere eliminati gli effetti (cfr. Cass. n. 26773/2019).

L’annullabilità di una delibera di aumento del capitale sociale, laddove non ne sia stata disposta la sospensione dell’esecuzione ai sensi dell’art. 2378, co. 3, c.c., non incide sulla validità delle successive deliberazioni adottate con la nuova maggioranza ancorché quest’ultima si sia formata a seguito del mancato integrale esercizio del diritto di opzione da parte dei vecchi soci. Infatti l’omessa richiesta e la conseguente mancata adozione del provvedimento di sospensione ex art. 2378, co. 3, c.c., rende legittimi gli atti esecutivi della prima deliberazione, anche in caso di suo successivo annullamento (cfr. Cass. n. 26842/2013).

Nessuna norma di legge impedisce al socio di una s.r.l. di sottoscrivere solo parzialmente l’aumento di capitale, comunque partecipando al ripianamento della perdita registrata nei limiti del capitale di rischio inizialmente sottoscritto, con conseguente illegittimità di qualsiasi determinazione volta ad esprimere il rifiuto di ritenere validamente esercitata l’opzione in misura parziale. Ciò si pone, infatti, in continuità con il diritto del socio, riconosciuto dall’art. 2481-bis c.c., di sottoscrivere l’aumento di capitale in proporzione – sia pur non in egual misura – alla partecipazione dallo stesso posseduta, con ogni conseguente facoltà di sottoscrivere, solo in parte, la quota di aumento al medesimo riservata e consequenziale possibilità degli altri membri della compagine sociale di sottoscrivere l’inoptato. Impedire la sottoscrizione parziale significherebbe, infatti, obbligare i soci a mantenere inalterata la misura della loro originaria partecipazione, anche quando la loro volontà fosse eventualmente diversa, vincolo che – in assenza di un identificabile superiore interesse, meritevole di tutela – mal si concilierebbe con il principio di autonomia contrattuale.

Il provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. consente di ottenere qualcosa in più e di diverso dal sequestro giudiziario della quota giacché, qualora finalizzato a una tutela anticipata degli effetti restitutori, assicura la pronta disponibilità della partecipazione societaria e, segnatamente, il pieno esercizio dei diritti connessi (patrimoniali ed economici). Il sequestro giudiziario ex art. 670 c.p.c. assolve, invece, la funzione cautelare limitata alla mera conservazione statica del bene, con esercizio dei diritti connessi alla partecipazione da parte di un custode giudiziario.

Il giudizio prognostico ex ante circa la possibilità di un danno derivante dalla situazione di contesa che rende opportuno disporre un sequestro giudiziario ex art. 670, co. 1, n. 1, c.p.c. (anche) di una quota societaria è inscindibilmente correlato alla valutazione del fumus, secondo un rapporto che è stato definito di inversa proporzionalità, tale per cui, tanto più consistente è il fumus della non coincidenza tra la situazione di fatto e quella di diritto, tanto minori dovrebbero essere le ragioni di resistenza alla concessione della cautela.

Princìpi espressi nel procedimento cautelare instaurato dal socio di s.r.l. – che assume essere stato illegittimamente pretermesso dalla compagine sociale – incardinato a seguito dalla deliberazione ex art. 2482 ter c.c. di azzeramento e ricostituzione del capitale sociale – pure impugnata in separato giudizio di merito – ed alla conseguente determinazione societaria con la quale (illegittimamente) non si è ritenuta validamente esercitata, da parte del ricorrente, la sottoscrizione del capitale in misura parziale ed inferiore rispetto alla partecipazione originariamente detenuta. Il procedimento è volto, inter alia ed in via subordinata, ad ottenere il sequestro giudiziario ex art. 670, co. 1, n. 1, c.p.c., poi concesso, della quota sottoscritta nei termini anzidetti.

(Massime a cura di Giulio Bargnani)




Tribunale di Brescia, sentenza del 31 gennaio 2025, n. 421 – compravendita di partecipazioni sociali, onere della prova, patto leonino, inadempimento contrattuale, opzione put, difetto di causa, eccessiva onerosità della prestazione

Un’alterazione quantitativa del numero di azioni vincolate ad un patto parasociale può essere dedotta in giudizio solamente se supportata dalla puntuale allegazione delle operazioni societarie che hanno originato tale sopravvenienza contrattuale.

La risoluzione ai sensi dell’art. 1453 c.c. del contratto di compravendita di una partecipazione sociale non può essere domandata in giudizio qualora il comportamento delle parti denoti una protratta tolleranza nei confronti dell’inadempimento tale da attenuare l’intensità dello stesso e da rendere manifesto il persistente interesse di entrambe le parti alla prestazione stessa (cfr. Cass. n. 22346/2014; Cass. n. 10127/2006).

Nell’ambito di un trasferimento di partecipazioni sociali, il patto di opzione put che attribuisce – limitatamente ad un circoscritto intervallo temporale – al cessionario il diritto di far (ri-)acquistare la partecipazione oggetto del trasferimento al cedente ad un prezzo maggiore rispetto a quello di acquisto non contravviene al divieto di patto leonino di cui all’art. 2265 c.c. Infatti, la contenuta efficacia temporale di tale pattuizione fa sì che questa non comporti uno stravolgimento “totale” e “costante” della causa societatis tale da stravolgere il ruolo del socio nella società (cfr. Cass. n. 27283/2024).

L’opzione put concernente una modesta partecipazione nel capitale sociale non è idonea a contravvenire il divieto di patto leonino di cui all’art. 2265 c.c. in quanto, non consentendo – in ragione della sua ridotta misura – che il suo titolare possa incidere in misura rilevante sulla gestione della società, non può nemmeno comportare un’alterazione della causa societaria.

La mancanza di corrispettivo a fronte di un’opzione put (ancorché non controbilanciata da una corrispondente opzione call) non è idonea di per sè ad alterare il sinallagma di tale negozio giuridico, e, quindi, ad essere una prova del suo difetto di causa. Infatti, l’obbligato potrebbe essere compensato non da una controprestazione in denaro ma da altre utilità riguardanti più ampi rapporti tra le parti; quali, per esempio, la sua funzione a rendere più appetibile una compravendita di partecipazioni sociali.

Ai fini della prova dell’eccessiva onerosità sopravvenuta di un’opzione put riguardante partecipazioni sociali deve essere allegata una perizia della società datata al momento di esercizio dell’opzione; e, non successiva a tale momento.

Principi affermati nell’ambito di un’opposizione a decreto ingiuntivo, proposta da una società ingiunta-opponente, la quale eccepiva dinanzi al Tribunale la risoluzione per inadempimento del contratto di compravendita di una partecipazione sociale stipulato con il convenuto. Questa, in via principale, chiedeva che fosse dichiarata la nullità dell’opzione put pattuita nella stessa data e relativa al medesimo oggetto; e, in via subordinata, che fosse dichiarata l’inefficacia dell’esercizio di tale opzione da parte dell’acquirente convenuto.

(Massime a cura di Edoardo Compagnoni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 13 gennaio 2025, n. 148 – società cooperativa, concordato preventivo, responsabilità degli amministratori, azione individuale del socio e del terzo

A fronte dell’inadempimento contrattuale di una società di capitali, la responsabilità risarcitoria degli amministratori nei confronti della controparte non deriva automaticamente da tale loro qualità, ma richiede, ai sensi dell’art. 2395 c.c., che l’attore alleghi quali siano gli obblighi di condotta a cui gli amministratori sono tenuti in ossequio a specifiche disposizioni di legge che nella specie risulterebbero violate e che fornisca la prova della natura dolosa o colposa delle condotte violative, del danno e del nesso causale tra queste e il danno patito dal terzo contraente (Cass. 17794/2015). Per gli effetti, la mancata allegazione di specifiche condotte violative da parte dell’attore rende superfluo l’accertamento degli ulteriori profili.

Ai fini dell’accertamento della responsabilità degli amministratori ex art. 2395 c.c., non può ritenersi avere carattere decettivo la mera reticenza degli amministratori in ordine alla situazione di crisi in cui versa la società e, in ogni caso, il silenzio dell’organo di gestorio è pienamente giustificato se funzionale al perseguimento dell’obiettivo del salvataggio della stessa.

Princìpi espressi nell’ambito di un giudizio promosso da un fornitore nei confronti degli amministratori di una società-cliente al fine di farne accertare la responsabilità ex art. 2395 c.c. in quanto, nella prospettazione attorea, questi ultimi, sebbene consapevoli dello stato di crisi della società (di lì a breve poi sottoposta a procedura di concordato preventivo), avrebbero continuato a impartire ingenti ordini di acquisto di beni che furono consegnati ma poi mai pagati.

(Massime a cura di Filippo Casini)




Tribunale di Brescia, sentenza del 18 dicembre 2024, n. 5228 – clausola compromissoria, opposizione a decreto ingiuntivo, eccezione di incompetenza, adesione

In un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, l’adesione della parte che abbia adito il giudice ordinario all’eccezione di arbitrato tempestivamente sollevata dalla controparte non soggiace a preclusioni e deve ritenersi ammissibile sino alla precisazione delle conclusioni. Inoltre, non costituisce, di per sé, una condotta processuale censurabile ex art. 96, comma 3, c.p.c., rilevando a tali fini il tenore delle difese svolte da parte attrice, il suo complessivo contegno processuale e la complessità della materia.

L’esistenza di una clausola compromissoria statutaria che devolva la controversia alla cognizione arbitrale non è rilevabile d’ufficio dal giudice ordinario, ma deve essere eccepita tempestivamente dalla parte interessata nel primo atto difensivo utile. Di conseguenza non può escludersi la competenza del giudice ordinario a emettere un decreto ingiuntivo anche in materia deferita ad arbitri in base a valida clausola compromissoria, fermo restando che, qualora nel successivo giudizio di opposizione la parte opponente eccepisca la “incompetenza” (più propriamente il difetto del potere di decidere) del giudice adito in ragione della clausola arbitrale, il giudice che ravvisi l’operatività della stessa deve dichiarare la nullità del decreto opposto, l’assenza di potestas iudicandi in capo al giudice adito e contestualmente rimettere la controversia al giudizio degli arbitri (ex multis, cfr. Cass. n. 5265/2011; Cass. n. 25939/2021; Cass. n. 25939/2021 e Cass. n. 5265/2011).

Salvo che le parti abbiano espressamente circoscritto l’efficacia della clausola compromissoria a determinate controversie, devono ritenersi deferite alla cognizione arbitrale tutte le controversie che si fondino su una causa petendi afferente al rapporto sociale, indipendentemente dal fatto che quest’ultimo sia ancora in essere o sia nel frattempo venuto meno. Restano situazioni afferenti alla vita sociale o associativa quelle così intese in senso ampio, con riguardo, quindi, non solo alle vicende di governo interno, ma anche alla persona del singolo socio, nei suoi rapporti, sia pure “non più” o “non ancora” in corso, con l’ente, con gli organi di questo o con gli altri soci (cfr. Cass. n. 15697/2019; Cass. n. 10399/2018; Cass. n. 22303/2013; Cass. n. 20741/2011 e Cass. n. 17823/2022).

Princìpi espressi nell’ambito di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo promosso da una società cooperativa agricola a responsabilità limitata nei confronti di un ex socio azienda agricola, in relazione a rapporti economici regolati da contratti collegati all’attività mutualistica e sorti in costanza del rapporto associativo, nel contesto del quale l’opponente ha sollevato l’incompetenza del giudice ordinario adito in ragione di una clausola compromissoria, eccezione a cui la controparte ricorrente ha aderito.

(Massime a cura di Maria Paola Murdolo)




Tribunale di Brescia, sentenza del 5 dicembre 2024, n. 4993 – azione di responsabilità ex art. 146 L.F., prescrizione, responsabilità risarcitoria degli amministratori e dei sindaci, onere della prova, quantificazione del danno, transazione

L’eccezione di prescrizione non è idonea a estendere i propri effetti anche ai coobbligati non eccipienti, salve ipotesi eccezionali, quali l’instaurazione tra coobbligati di cause di regresso, e salvi i casi in cui la mancata estinzione del rapporto obbligatorio nei loro confronti possa generare effetti pregiudizievoli per il soggetto eccipiente (cfr. Cass. n. 7800/2010).

Con riferimento all’azione sociale di responsabilità, il termine quinquennale di prescrizione, decorrente dal momento in cui il danno diventa oggettivamente percepibile all’esterno, manifestandosi nella sfera patrimoniale della società, resta sospeso ex art. 2941, n. 7, c.c. sino alla cessazione degli amministratori dalla carica (cfr. Cass. n. 24715/2015).

Con riferimento all’azione dei creditori sociali, il dies a quo della prescrizione decorre dal momento dell’oggettiva percepibilità dell’insufficienza dell’attivo a soddisfare i debiti che, in ragione dell’onerosità della prova, in assenza di precedenti fatti sintomatici di assoluta evidenza (come la pubblicazione di bilanci fortemente negativi o la chiusura della sede), viene fatto presuntivamente coincidere con la dichiarazione di fallimento (cfr. Cass. n. 24715/2015, Cass. n. 3552/2023).

Non determina, di per sé, un danno al patrimonio sociale la violazione delle regole di redazione del bilancio, avendo tale documento l’unico scopo di far conoscere ai soci, ai terzi e al mercato il quadro patrimoniale, finanziario ed economico della società in un determinato momento. Le irregolarità suddette possono, piuttosto, rappresentare lo strumento per occultare pregresse operazioni illecite ovvero per celare la causa di scioglimento prevista dall’art. 2484, comma 1, n. 4, c.c., e così consentire l’indebita prosecuzione dell’ordinaria attività gestoria. In tali ipotesi, tuttavia, il danno risarcibile è rappresentato, non già dalla misura del falso, quanto piuttosto dagli effetti patrimoniali delle condotte che grazie a quel falso sono state occultate o consentite (cfr. Trib. Milano, 28 luglio 2022).

In tema di esercizio dell’azione di responsabilità da parte del curatore per fatti di mala gestio dell’amministratore, la natura contrattuale della responsabilità di amministratori e sindaci nei confronti della società poi fallita comporta che il curatore ha soltanto l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni e il nesso di causalità fra queste e il danno verificatosi. Incombe, invece, sugli amministratori e sui sindaci l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti (cfr. Cass. n. 22911/2010, 2975/2020).

La quantificazione del danno da indebita prosecuzione dell’attività di impresa deve essere operata in conformità ai criteri di calcolo recepiti dal d.lgs. n. 14/2019 (cfr. art. 378) al nuovo terzo comma dell’art. 2486 c.c. (c.d. differenziale dei netti patrimoniali), che trova applicazione anche con riferimento ad azioni risarcitorie fondate su fatti anteriori alla data di entrata in vigore della norma (marzo 2019) (cfr. Cass. n. 5254/2024).

Rispetto alla responsabilità ex art. 2486 c.c. propria dell’organo gestorio, quella dei sindaci si configura come responsabilità diretta e solidale, trovando la propria causa nell’omissione del dovere di controllo e nel mancato esercizio del potere sostitutivo sancito dagli artt. 2406, 2407, secondo comma, e 2485, secondo comma, c.c.

Al fine di determinare il debito che residua a carico degli altri debitori in solido a seguito della transazione conclusa da uno di essi nei limiti della propria quota, occorre verificare se la somma pagata sia pari o superiore alla quota di debito gravante su di lui, oppure sia inferiore. Nel primo caso, il debito gravante sugli altri debitori in solido si riduce in misura corrispondente a quanto effettivamente pagato dal debitore che ha raggiunto l’accordo transattivo mentre, nel secondo caso, lo stesso debito si riduce in misura corrispondente alla quota gravante su colui che ha transatto (cfr. Cass. n. 25980/2021, Cass. n. 7094/2022).

Principi espressi nell’ambito di un giudizio di responsabilità, promosso ex art. 146 L.F. da un curatore nei confronti degli amministratori e dei sindaci della società fallita, per sentirli condannare al risarcimento dei danni asseritamente conseguiti dall’apposizione a bilancio di una voce fittizia e dalla colpevole prosecuzione dell’attività produttiva, nonostante la perdita integrale del capitale sociale.

(Massime a cura di Andrea Mariani)




Tribunale di Brescia, decreto del 23 ottobre 2024, n. 138 – società per azioni, denuncia ex art. 2409 c.c., adeguatezza assetti amministrativi, organizzativi e contabili, inattualità, business judgement rule, insindacabilità.

Il procedimento ha la finalità di consentire, tramite l’intervento dell’autorità giudiziaria, il ripristino della legalità e della regolarità nella gestione, violate da condotte degli amministratori gravemente contrastanti con i principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale e nel dettaglio oggetto di denuncia è il “fondato sospetto” di “gravi irregolarità nella gestione”, purché attuali e idonee a porre in pericolo il patrimonio sociale o a procurare grave turbamento all’attività della società nel cui interesse il ricorso è presentato.

L’istituto ex art. 2409 c.c. è privo di carattere sanzionatorio ed allo stesso non si addicono valutazioni a posteriori tipiche delle azioni di responsabilità, infatti proprio il presupposto della potenzialità del danno comporta che l’intervento giudiziario non possa ritenersi ammissibile allorquando l’azione lesiva abbia esaurito i propri effetti in assenza di elementi tali da far ipotizzare una verosimile reiterazione delle violazioni.

Il procedimento ex art. 2409 c.c. costituisce un presidio finalizzato a perseguire la regolarità e la correttezza della gestione sociale al fine di interrompere comportamenti di mala gestio in atto, idonei a costituire, se non disattivati, fonte di danno per la società. Così facendo il legislatore ha inteso spostare l’interesse protetto da quello generale (corretto funzionamento della società) a quello, proprio dell’ente e dei suoi soci (non vedere compiuti dall’organo gestorio comportamenti idonei ad esporre ad un pregiudizio il patrimonio e l’attività sociale).

Tale natura – latu sensu cautelare – dello strumento ex art. 2409 c.c. (apprestato per una pronta reazione a gravi irregolarità idonee ad arrecare al patrimonio sociale un concreto pregiudizio) impedisce che il rimedio sia fondatamente diretto a censurare fatti remoti e/o comunque radicalmente privi di potenzialità lesiva.

In tema di adeguatezza degli assetti, la formula adottata dal legislatore è volutamente elastica, la nozione di adeguatezza dovendo adattarsi alla specifica natura della realtà aziendale oggetto di valutazione, d’altro lato che giammai la censura di inadeguatezza può spingersi sino a sindacare scelte di merito che non si appalesino tali da impedire l’agire razionale e informato da parte dell’amministratore.

La predisposizione di ulteriori e, in tesi, più efficaci strumenti previsionali, ferma la ragionevolezza di quelli esaminati, inerendo la business judgement rule, appare strettamente connotata da discrezionalità e, quindi, estranea all’area del sindacato giudiziale. A ciò si aggiunga che, secondo autorevoli opinioni dottrinali, in tema di adeguati assetti, la sindacabilità delle scelte andrebbe circoscritta alle strutture e ai sintemi di c.d. allerta interna, aventi la funzione di monitorare la continuità aziendale e rilevare tempestivamente eventuali segnali di crisi.

Principi espressi nell’ambito di ricorso promosso ex art.2409 c.c. denunciando il difetto di un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e dimensione della attività d’impresa svolta da società per azioni.

(Massime a cura di Ambra De Domenico)




Tribunale di Brescia, sentenza del 9 ottobre 2024, n. 4107 – azione di responsabilità ex art. 2476, co. 1, c.c., legittimazione ad agire, prescrizione, forma dei contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o il godimento dell’azienda ex art. 2556 c.c.

L’art. 2476, co. 3, c.c. – che riconosce al socio di una s.r.l. la facoltà di esercitare l’azione sociale di responsabilità – configura un’ipotesi di legittimazione straordinaria sostitutiva ex art. 81 c.p.c., non esclusiva. Perciò anche la s.r.l. stessa è legittimata a far valere la responsabilità dell’amministratore, in quanto titolare del diritto leso, oltre che in forza di quanto disposto dall’art. 2476, co. 1, c.c., che disciplina espressamente la responsabilità dell’amministratore verso la società per i danni derivanti dall’inosservanza dei doveri imposti dalla legge e dall’atto costitutivo per l’attività gestoria compiuta.

L’art. 2393, co. 1, c.c., prescrive, per le sole s.p.a., la necessità di una deliberazione dell’assemblea che autorizza il promovimento dell’azione sociale di responsabilità, mentre non è dettata una norma analoga con riferimento alle s.r.l., né per queste è richiamato l’art. 2393, co. 1, c.c. anzidetto, pertanto deve concludersi che non sia necessaria alcuna delibera autorizzativa per l’esercizio di tale azione da parte di una s.r.l.

Rientra tra i compiti del liquidatore di una s.r.l. quello di promuovere azioni giudiziali volte a reintegrare il patrimonio sociale leso.

Per le imprese soggette ad iscrizione l’art. 2556 c.c. richiede la forma scritta – rectius la  stipulazione mediante atto pubblico ovvero scrittura privata autenticata – per i contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o il godimento dell’azienda,  non ai fini della validità dei medesimi, ma ad probationem, salva l’osservanza delle forme richieste dalla legge per il trasferimento di singoli beni che compongono l’azienda (ad esempio beni immobili) o per la natura del contratto.

Il trasferimento di un’azienda dissimulato da una pluralità di atti negoziali atomistici (cessione di singoli beni strumentali, scioglimento del contratto di locazione dell’immobile in cui era esercitata l’attività d’impresa e contestuale stipula di analogo contratto ad opera dell’asserito cessionario, cessazione dei rapporti di lavoro e contestuale instaurazione dei medesimi con quest’ultimo) non configura il presupposto dell’azione di rivendicazione, ossia uno “spossessamento” materiale dell’azienda stessa. Quest’ultima, quale universalità di beni – non necessariamente soltanto materiali – e rapporti giuridici, non è suscettibile di essere appresa materialmente ed asportata, ma può esclusivamente costituire oggetto di disposizione negoziale. In tal caso sono i singoli atti di disposizione negoziale a dover essere impugnati, posto che l’accertamento della loro invalidità o inefficacia potrebbe comportare effetti restitutori.

L’amministratore di una società che abbia compiuto atti di disposizione negoziale volti a depauperare il patrimonio della medesima mediante la dismissione dell’azienda di cui questa era titolare, senza il pagamento di alcun corrispettivo e senza alcuna delibera, è responsabile verso la società gestita del danno cagionato. Risponde in solido con l’amministratore altresì la società beneficiaria dei predetti atti di disposizione, in quanto concorrente nell’illecito commesso dal primo.

Il termine quinquennale di prescrizione dell’azione di responsabilità sociale verso gli amministratori ex art. 2949 c.c. è, come noto, sospeso fino alla cessazione della loro carica, in forza di quanto previsto dall’art. 2941 n. 7, c.c.

Princìpi espressi nel giudizio instaurato da una s.r.l. – in persona del liquidatore – al fine di accertare la responsabilità ex art. 2476 c.c. del precedente amministratore unico ed ottenere il risarcimento del danno subito in ragione dell’avvenuta dismissione dell’azienda mediante una pluralità di atti di disposizione negoziale.

(Massime a cura di Giulio Bargnani)




Tribunale di Brescia, sentenza del 8 ottobre 2024, n. 4095 – azione di responsabilità ex art. 146 l.f., responsabilità risarcitoria degli amministratori

Sono applicabili le norme, che disciplinano la responsabilità degli amministratori, agli amministratori di fatto qualora ingeriscano sulla gestione sociale in modo sistematico e completo (Cass. n. 28819/2008; Cass. n. 7864/2024).

In caso di inadempimento contrattuale di una società di capitali, la responsabilità risarcitoria degli amministratori non può essere, di per sé, imputata nei confronti dell’altro contraente ex artt. 2395 o 2476, comma 6, c.c., atteso che tale responsabilità, di natura extracontrattuale, postula fatti illeciti direttamente imputabili a comportamento colposo o doloso degli amministratori medesimi (Cass. n. 7272/2023).

Principi espressi nell’ambito di un giudizio, dinanzi al Tribunale, volto ad accertare la responsabilità ex art. 2476 c.c. dell’amministratore di fatto della società attrice in epoca anteriore al fallimento: i) per aver impedito la prosecuzione dell’attività aziendale, poiché lo stesso era in conflitto di interessi in quanto amministratore di altra società; e ii) per il mancato pagamento di fatture da parte di società estere terze al medesimo riconducibili.

(Massime a cura di Edoardo Abrami)




Tribunale di Brescia, decreto del 16 settembre 2024, n. 3660 – legittimazione della società nel concordato, conferimento in natura, garanzia del credito conferito, prescrizione del credito

Nella controversia promossa per far valere una pretesa creditoria nei confronti di una società ammessa a concordato liquidatorio la legittimazione passiva spetta alla società stessa in persona del suo legale rappresentante e non al commissario giudiziale o al liquidatore giudiziale posto che detta procedura non incide sulla capacità processuale del debitore (cfr. Cass. 4033/1995 e Cass. 26982/2022).

L’art. 168 l.f. vieta ai creditori, i cui crediti sono sorti anteriormente rispetto alla data di pubblicazione della domanda di ammissione del ricorso nel registro delle imprese, di esperire le azioni cautelari ed esecutive nei confronti del debitore. Tuttavia, non preclude loro l’esercizio delle azioni di accertamento e di condanna nei confronti dell’imprenditore ammesso al concordato preventivo in quanto da queste non potrebbe derivare un pregiudizio alla par condicio creditorum, dal momento che il relativo credito può essere soddisfatto solo nell’ambito della procedura concorsuale e nei limiti della proposta omologata.

Qualora, a seguito del procedimento di revisione della stima dei conferimenti in natura previsto dall’art. 2343 c.c., comma 3, c.c., si proceda ad una riduzione del capitale, permane in capo al conferente l’obbligo di liberare il capitale sottoscritto in aumento. Pertanto, in caso di conferimento di crediti assistito da garanzia ex art 1267 c.c. questa non riguarderà il loro valore nominale ma la conferente è tenuta a garantire solamente la bonitas dei crediti non svalutati oggetto di conferimento a liberazione dell’aumento sottoscritto.

Il pagamento del credito relativo alla prestazione di una garanzia prestata dal conferente un credito nei confronti della società non è una obbligazione autonoma, bensì accessoria rispetto a quella principale di liberare il capitale sottoscritto. Per questo motivo, non è da assoggettare all’ordinario termine di prescrizionale decennale ma a quello quinquennale di cui all’art. 2949 c.c.

Al fine della richiesta di pagamento in rivalsa dei debiti ceduti (conferiti) e non pagati dalla conferitaria, per cui la cedente è responsabile ai sensi dell’art. 2560 c.c., quest’ultima deve allegare (e dimostrare) di aver ottemperato alle obbligazioni in luogo della società conferitaria.

Principi espressi nell’ambito di un procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo nel quale la società conferitaria di un’azienda ingiungeva la società conferente al pagamento della garanzia da questa prestata ex art. 1267 c.c. La conferente eccepiva all’opposizione: a) il proprio difetto di legittimazione passiva rispetto alla pretesa monitoria; b) l’inammissibilità dell’azione di condanna nei suoi confronti, in forza degli artt. 168 e 184, comma 1, l.f.; c) l’inesistenza del credito in ragione dell’avvenuta riduzione del capitale a seguito di revisione del conferimento e d) la prescrizione del credito ingiunto.

(Massime a cura di Edoardo Compagnoni)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 30 luglio 2024, n. 893 – marchio, malafede, registrazione del marchio

La malafede nella registrazione di un marchio si concretizza esclusivamente qualora ricorrano elementi oggettivi e concordanti che dimostrino l’intento di pregiudicare gli interessi di terzi o di ottenere un diritto esclusivo per finalità estranee alla funzione distintiva del marchio stesso. La malafede non può, dunque, essere presunta dal mancato svolgimento di un’attività economica corrispondente ai prodotti e servizi indicati al momento della presentazione della domanda di registrazione, in quanto il richiedente non è tenuto a specificare né a conoscere con esattezza l’uso che intende fare del marchio richiesto; il richiedente dispone, difatti, di un termine pari a cinque anni per dare avvio a un uso effettivo del marchio, conforme alla sua funzione essenziale (Corte Giustizia Unione Europea, Sez. IV, 29/01/2020, n. 371/18).

La nuova registrazione di un marchio identico a quello oggetto di decadenza per il mancato utilizzo del segno nel quinquennio non implica automaticamente la sussistenza di malafede nella registrazione del nuovo marchio: il titolare del marchio decaduto ha, difatti, la facoltà di riprendere l’uso del segno, qualora quest’ultimo non sia stato medio tempore registrato o utilizzato da altri soggetti. Coerentemente, egli potrà validamente procedere a una nuova registrazione del marchio stesso (cfr. Cass. civ., Sez. I, n. 7970/2017).

La malafede nella registrazione di un marchio deve essere ravvisata nel comportamento di chi, eventualmente a conoscenza dell’utilizzo altrui del segno, depositi una domanda di registrazione di marchio senza l’intenzione reale di voler utilizzare quel segno, ma, sostanzialmente, per precludere ingiustificatamente ad altri di poterlo utilizzare sul mercato.

Il rischio di confusione per il pubblico dei consumatori può derivare dall’identità fonetica o da minime variazioni grafiche, come l’aggiunta di prefissi privi di autonoma capacità distintiva, che non alterano il nucleo semantico del marchio registrato.

Principi espressi nell’ambito di un procedimento cautelare promosso da una società a responsabilità limitata per chiedere la descrizione e l’inibitoria della produzione e commercializzazione, nonché il ritiro dal commercio, di dispositivi farmaceutici contraffattori. I resistenti si costituivano eccependo, inter alia, la sussistenza di malafede nella registrazione del marchio da parte del ricorrente.

(Massima a cura di Andrea Di Gregorio)