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Tribunale di Brescia, sentenza dell’11 luglio 2023, n. 1791 – s.p.a., compenso dell’amministratore, eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. 

Nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, il sinallagma alla cui tutela è predisposto il rimedio di cui all’art. 1460 c.c. va considerato separatamente per ogni singola prestazione in cui si articola il contratto perché l’esecuzione ha luogo per coppie di prestazioni da eseguirsi contestualmente e con funzione corrispettiva. Ogni prestazione eseguita costituisce un adempimento integrale e completo cui deve conseguire una controprestazione corrispondente, senza possibilità di sollevare un’eccezione di inadempimento, che non esiste in relazione a quella coppia specifica di prestazione-controprestazione. Ne deriva che l’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 c.c. può essere utilmente fatta valere solo allorché attenga temporalmente e logicamente alla prestazione di riferimento, rispetto alla controprestazione richiesta all’eccipiente (cfr. Cass. n. 4225/2022 e Cass. n. 7550/2012)

In materia di compenso spettante all’amministratore di società di capitali, esiste un nesso sinallagmatico di tipo contrattuale (sia pure originato all’interno di un rapporto di natura associativa) tra adempimento dei doveri dell’amministratore (la cui violazione è altresì fonte di responsabilità) e diritto al relativo compenso, pertanto la società può sollevare l’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 c.c. per opporsi alla richiesta del suo ex amministratore di ottenere il pagamento del compenso, allegando l’inadempimento o il non corretto adempimento degli obblighi dal medesimo assunti. In tal caso il giudice è tenuto a procedere ad una valutazione comparativa dei comportamenti delle parti contrapposte, tenendo conto non solo dell’elemento cronologico, ma anche dei rapporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute e della loro incidenza sulla funzione economico-sociale del contratto (cfr. Cass. n. 29252/2021; Cass. n. 12978/2002). Ne consegue che il rifiuto della società di pagare il compenso dell’ex amministratore sollevando l’eccezione di inadempimento è ammissibile limitatamente al corrispettivo maturato nel periodo relativamente al quale sussistono i lamentati inadempimenti.

Princìpi espressi nell’ambito di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo promosso da una società per contestare la richiesta di pagamento del compenso formulata in sede monitoria dal suo ex amministratore sollevando l’eccezione di cui all’art. 1460 c.c. L’opposizione è stata rigettata in quanto gli inadempimenti allegati dall’opponente consistevano in condotte realizzate nel corso dell’esercizio precedente rispetto a quello in cui erano maturati i compensi oggetto di ingiunzione, sicché è stato ritenuto insussistente il rapporto sinallagmatico tra detti inadempimenti e l’obbligazione di pagamento degli emolumenti azionati dall’ex amministratore. 

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni) 




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 22 maggio 2023, n. 863 – concordato preventivo, anticipazione ricevute bancarie, compensazione, artt. 56 e 169 l. fall.

In tema di anticipazione su ricevute bancarie regolata in conto corrente, qualora le relative operazioni siano compiute in un momento precedente all’ammissione del correntista a concordato preventivo e  questo, successivamente all’ammissione alla procedura, agisca per la restituzione dell’importo delle ricevute incassate dalla banca, è necessario accertare se la convenzione relativa all’anticipazione contenga una clausola attributiva del diritto della banca di “incamerare” le somme riscosse (c.d. patto di compensazione o patto di annotazione ed elisione nel conto di partite di segno opposto), perché soltanto in presenza di una simile convenzione la banca ha diritto a compensare il suo debito per il versamento al cliente delle somme incassate con il proprio credito, verso lo stesso cliente, conseguente ad operazioni creditizie regolate sul medesimo conto corrente, a nulla rilevando che detto credito sia anteriore alla ammissione alla procedura concorsuale ed il correlativo debito, invece, posteriore, poiché in siffatta ipotesi non può ritenersi operante il principio della cristallizzazione dei crediti (cfr. Cass. n. 17999/2011 e Cass. n. 11523/2020). Infatti in tal caso il fatto genetico di entrambi i crediti può essere ravvisato nell’operazione complessivamente posta in essere dalle parti in epoca anteriore alla presentazione della domanda di concordato preventivo da parte del correntista, attraverso la stipulazione del contratto di anticipazione bancaria e del collegato mandato all’incasso con patto di compensazione.

Principio espresso, in grado d’appello,  nell’ambito di una controversia concernente la compensazione fra il credito vantato dalla banca per il rimborso dell’anticipazione concessa alla società correntista successivamente ammessa al concordato preventivo e il debito della prima nei confronti della seconda per la restituzione degli importi riscossi, in epoca successiva alla presentazione della domanda di ammissione al concordato preventivo, in esecuzione del mandato all’incasso conferitole dalla cliente.

(Massima a cura di Giovanni Maria Fumarola)




Tribunale di Brescia, sentenza dell’8 maggio 2023, n. 1099 – invalidità deliberazione assembleare di approvazione del bilancio, funzione informativa del bilancio, diritto all’informazione del socio, carenza di informazioni

In materia di invalidità delle deliberazioni assembleari di s.p.a., il socio che impugna una deliberazione di approvazione del bilancio ha l’onere di: i) indicare con esattezza le singole poste asseritamente iscritte in bilancio in violazione delle norme codicistiche e dei principi contabili; ii) enunciare chiaramente in che cosa consistano i vizi denunciati. 

In relazione alla funzione informativa del bilancio e al correlato diritto all’informazione, stabiliti dall’art. 2423, comma 3, c.c., gli amministratori sono obbligati a  soddisfare l’interesse  del socio a una conoscenza concreta dei reali elementi contabili recati dal bilancio ed a rispondere alla sua domanda di informazione che sia pertinente e non trovi ostacolo in oggettive esigenze di riservatezza, in modo da consentire l’espressione di un voto consapevole in assemblea, basato su un’adeguata conoscenza dei dati rappresentati contabilmente. 

La carenza d’informazione sul bilancio rileva quale vizio di invalidità della relativa deliberazione assembleare di approvazione laddove il socio si sia astenuto o abbia manifestato un voto difforme da quello che avrebbe esercitato qualora fosse stato correttamente messo a conoscenza delle informazioni omesse. In tal caso, sul socio che lamenti una carenza informativa grava l’onere di specificare la tipologia di informazione omessa, la cui conoscenza è essenziale ai fini dell’esercizio consapevole del diritto di voto.

I principi sono stati espressi nei giudizi di impugnazione (poi riuniti) promossi dai soci di minoranza di una società per azioni avverso le deliberazioni assembleari di approvazione di due bilanci di detta società, sulla base dell’asserita erroneità delle rappresentazioni contabili offerte dagli amministratori, dalla cui rettifica sarebbe emersa una perdita.

(Massime a cura di Simona Becchetti)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 14 ottobre 2020, n. 1077 – società per azioni, sistema di amministrazione dualistico, consiglio di sorveglianza, revoca senza giusta causa, clausola simul stabunt simul cadent, risarcimento del danno del consigliere decaduto

Nelle società che adottano il sistema di amministrazione dualistico, in caso di revoca dei consiglieri di sorveglianza, la deliberazione assembleare di revoca deve contenere l’enunciazione espressa delle ragioni a sostegno della revoca, che devono essere effettive e ivi riportate in modo adeguatamente specifico. Ne consegue che deve ritenersi inammissibile l’eventuale deduzione in sede giudiziaria di ragioni ulteriori a fondamento della revoca, dovendo il giudice tenere conto esclusivamente di quanto indicato nella deliberazione.

In ogni caso, l’enunciazione delle ragioni a sostegno della revoca non richiede particolari requisiti di forma, essendo cionondimeno necessario che tali motivazioni siano, in qualsiasi modalità, rese note ed esplicate all’assemblea chiamata a deliberare sul punto.

In materia di revoca dei consiglieri di sorveglianza, la deliberazione assembleare di revoca costituisce l’unico atto rilevante ai fini dell’enunciazione delle motivazioni poste a fondamento della revoca, con la conseguenza che, ove dette ragioni non siano ivi esplicitate, pur essendo la revoca valida ed efficace, la società è obbligata a risarcire il danno patito dai consiglieri revocati per effetto della revoca anticipata senza giusta causa.

La revoca anticipata senza giusta causa del consigliere di sorveglianza determina il diritto del consigliere revocato al risarcimento del danno subito, consistente nel lucro cessante, ossia nel compenso non percepito per il periodo in cui il consigliere avrebbe conservato il suo ufficio se non fosse intervenuta la revoca, non sussistendo ragioni per ricorrere alla liquidazione equitativa.

Il danno risarcibile è determinato in maniera differente in caso di incarico attribuito a tempo determinato o a tempo indeterminato: in quest’ultimo caso, l’ammontare del risarcimento va quantificato considerando il solo compenso spettante al consigliere revocato durante il c.d. “periodo di preavviso”, mentre nel caso di incarico a tempo determinato va commisurato tenendo conto del compenso che il consigliere avrebbe percepito fino alla scadenza naturale dell’incarico.

La clausola simul stabunt simul cadent opera automaticamente per il solo venir meno del numero di componenti in essa previsto, indipendentemente dalle cause che hanno determinato la cessazione dall’incarico del singolo componente e, dunque, a prescindere dal fatto che tale cessazione sia dovuta alla scelta del singolo (dimissioni) o alla revoca deliberata dall’assemblea.

In difetto di prova del fatto che la revoca di taluni consiglieri di sorveglianza fosse volta determinare la decadenza di un determinato consigliere, per effetto della clausola simul stabunt simul cadent, a quest’ultimo non può essere riconosciuto il diritto al risarcimento del danno.

I principi sono stati espressi nel giudizio di appello in cui sono state riunite due cause: la prima, promossa da tre consiglieri di sorveglianza contro la società (nel caso di specie, una società per azioni con sistema di amministrazione dualistico), i quali chiedevano la condanna della società al risarcimento del danno subito per effetto della revoca senza giusta causa (nello specifico, deducendo che la deliberazione con cui l’assemblea della società aveva disposto la revoca era priva di motivazione e giustificazione ed ispirata a logiche di carattere esclusivamente politico); la seconda, promossa dall’ex vicepresidente del consiglio di sorveglianza contro la medesima società, al fine di ottenere il risarcimento del danno per essere decaduto a causa dell’applicazione della clausola simul stabunt simul cadent, che aveva prodotto i propri effetti a seguito della revoca senza giusta causa di altri tre consiglieri.

La società convenuta chiedeva il rigetto delle domande formulate nei suoi confronti.

All’esito dei giudizi di primo grado, il tribunale aveva dichiarato la revoca dei tre consiglieri priva di giusta causa, rilevando che dal verbale dell’assemblea in cui era stata deliberata la revoca non emergevano le ragioni giustificatrici della revoca e, comunque, che la revoca nel caso di specie non poteva considerarsi assistita da giusta causa. Pertanto, il tribunale, accertato il diritto dei tre consiglieri revocati al risarcimento dei danni, aveva quantificato il danno equitativamente, avuto riguardo agli emolumenti che gli attori avrebbero conseguito nell’arco temporale di sei mesi dopo la revoca, quale lasso di tempo ragionevolmente idoneo a consentire ai consiglieri revocati di assumere nuovi incarichi.

Con riguardo al giudizio di primo grado instaurato dal vicepresidente del consiglio di sorveglianza, cessato dalla carica per effetto della clausola simul stabunt simul cadent, il tribunale affermava che, trattandosi di ipotesi di decadenza automatica, non potesse operare la tutela risarcitoria, prevista per i soli casi di utilizzo abusivo della clausola.

Il vicepresidente del consiglio di sorveglianza proponeva quindi appello avverso la sentenza di primo grado, chiedendone la riforma e l’accoglimento della domanda proposta in primo grado. I tre consiglieri proponevano appello chiedendo, in parziale riforma della sentenza impugnata, la liquidazione del maggior danno.

Si costituiva nel giudizio di appello la società, chiedendo il rigetto dell’appello e, in via incidentale, la riforma della sentenza con riferimento alla posizione degli appellanti/consiglieri o, in subordine, la riduzione della condanna.

La corte d’appello ha rigettato l’appello promosso dal vicepresidente del consiglio di sorveglianza (appellante) e ha accolto l’appello promosso dai tre consiglieri (appellanti nel giudizio riunito) e ha parzialmente accolto l’appello principale promosso dalla società appellata.

(Massime a cura di Alice Rocco)




Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 13 ottobre 2020, n. 1062 – società per azioni, consiglio di sorveglianza, decadenza dalla carica, clausola simul stabunt simul cadent

Categoria: Società – Società per azioni

L’utilizzo improprio o abusivo, e quindi contrario a buona fede e correttezza, della clausola simul stabunt simul cadent ricorre solamente quando lo strumento della revoca di alcuni consiglieri sia stato utilizzato all’esclusivo fine di ottenere il risultato, realmente perseguito, di rimuovere ulteriori consiglieri “sgraditi” per scopi diversi da quelli per i quali è riconosciuto il diritto a rinunciare alla carica o per non riconoscere loro il dovuto risarcimento dei danni per revoca in difetto di giusta causa e, pertanto, eludendo l’obbligo di corresponsione degli emolumenti residui (ed in generale di risarcimento del danno) che spetterebbe loro se fossero cessati dalla carica, non per effetto della predetta clausola statutaria, ma per revoca ex art. 2383, comma terzo, c.c.

La presenza di una clausola simul stabunt simul cadent trova la sua giustificazione, tra le altre cose, nella necessità di garantire gli equilibri all’interno del consiglio di amministrazione (e di gestione) di una società e di evitare che l’equilibrio iniziale possa essere compromesso per effetto della cooptazione prevista dal primo comma dell’art. 2386 c.c. ed opera automaticamente al venir meno del numero di amministratori in essa indicato. La predetta clausola, ove applicata senza finalità abusive, non equivale ad una revoca dell’incarico e non fa sorgere alcun diritto a favore dell’amministratore decaduto il quale, accettando l’iniziale conferimento dell’incarico, aderisce implicitamente alle clausole dello statuto sociale che regolano le condizioni di indicazione e permanenza degli organi sociale e i relativi poteri. Tale adesione implica anche l’accettazione dell’eventualità di cessazione anticipata dalla carica senza risarcimento del danno in caso di applicazione della clausola simul stabunt simul cadent.

I consiglieri che sono decaduti dalla carica in conseguenza di un’applicazione abusiva della clausola simul stabunt simul cadent hanno l’onere di provare che l’atto di revoca dei consiglieri destinatari della stessa fosse volto a colpire anche gli altri consiglieri non diretti destinatari dall’atto di revoca. Tale prova può essere offerta anche attraverso la dimostrazione dell’esistenza di un accordo tra i soci volto ad estromettere anche i consiglieri non diretti destinatari della revoca dal consiglio di sorveglianza, attraverso il meccanismo della decadenza conseguente all’applicazione della menzionata clausola (al contrario, la circostanza che la società avesse deciso di revocare n. 6 consiglieri e, pertanto, un numero superiore a quello necessario per far decadere l’intero consiglio è stato ritenuto dalla Corte d’Appello un elemento per sostenere, in mancanza di prove contrarie, l’applicazione secondo buona fede della clausola).

L’operativa della clausola simul stabunt simul cadent prescinde del tutto dai motivi per cui i consiglieri vengano a mancare, sicché dalla sua applicazione in sé non può derivare alcun diritto risarcitorio. In difetto di prova dell’uso abusivo o strumentale della predetta clausola, dunque, nessuna pretesa risarcitoria ai sensi dell’articolo 2409-duodecies, quinto comma, c.c., può essere riconosciuta a quei consiglieri che sono decaduti dalla carica per effetto dell’applicazione della stessa.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso da due componenti del consiglio di sorveglianza di una società per azioni, i quali hanno agito nei confronti della società al fine di (i) accertare e far dichiarare l’insussistenza della giusta causa di revoca dalla loro carica di consiglieri intervenuta per – secondo la ricostruzione degli appellanti – un utilizzo improprio (o di abuso) della clausola statutaria simul stabunt simul cadent evidenziando in particolare che il Tribunale non aveva preso posizione in ordine all’utilizzo della clausola senza il rispetto del canone di buona fede e correttezza e ha errato nel ritenere che l’utilizzo improprio o abusivo sia finalizzato all’esclusivo scopo di ottenere la rimozione di ulteriori consiglieri sgraditi e (ii) ottenere la condanna della società convenuta al risarcimento del danno subito..

Il Tribunale di primo grado rigettava le domande proposte escludendo che nel caso in esame ricorresse un’ipotesi di uso improprio o di abuso della menzionata clausola.

Avverso la pronuncia del Tribunale, i consiglieri proponevano appello chiedendo la riforma della sentenza medesima e insistendo per l’accoglimento delle domande proposte in primo grado.

La Corte d’Appello ha rigettato le domande proposte dai consiglieri confermando integralmente la sentenza di primo grado e ha condannato gli appellanti alla rifusione delle spese di lite.

(Massime a cura di Valentina Castelli)




Sentenza del 6 maggio 2017, n. 1373 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott. Stefano Franchioni

La responsabilità delineata ai sensi dell’art. 2497 c.c. si basa su condotte di “tipo commissivo” della holding, la quale si serva della controllata per perseguire interessi estranei a quelli di quest’ultima ledendo il patrimonio della stessa, non potendosi quindi, tale responsabilità, basare su condotte di tipo omissivo.

Nell’ambito dei gruppi piramidali la holding “intermedia” risponde verso il terzo danneggiato ex art. 2497, primo comma, c.c. nell’ipotesi in cui essa stessa sia l’artefice della violazione dei principi di cui a detto articolo.

Principio espresso in tema di azione di responsabilità per attività di direzione e coordinamento intentata da un creditore della società eterodiretta nei confronti della controllante sulla base dell’assunto secondo cui questa dovrebbe rispondere dell’incapienza patrimoniale della controllata. La domanda risarcitoria è stata rigettata perché basata sull’allegazione di condotte sostanzialmente omissive, finendo in definitiva per prospettare una responsabilità illimitata e solidale del socio di maggioranza per le obbligazioni della partecipata.

(Massima a cura di Sara Pietra Rossi)

Sent. 6.5.2017, n. 1373




Ordinanza del 27 aprile 2017 – Presidente: dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: dott. Stefano Franchioni

Ad escludere i presupposti cautelari, nell’ambito di un sequestro conservativo, non può rilevare la circostanza per cui gli altri coobbligati solidali sarebbero “ampiamente solvibili”. Alla luce dei principi generali in tema di solidarietà, infatti, come il creditore ha diritto di soddisfarsi per l’intero sul patrimonio di uno qualsiasi dei condebitori a sua insindacabile scelta, così deve essergli riconosciuto anche il diritto di cautelarsi nei confronti di quel medesimo debitore per il timore di perdere la garanzia del suo credito, senza che si possa tenere conto della presenza a suo favore della garanzia generica del patrimonio degli altri coobbligati.

Principio espresso in ipotesi di rigetto del reclamo proposto avverso l’ordinanza che, confermando il provvedimento reso inaudita altera parte, aveva autorizzato il sequestro conservativo dei beni e dei crediti di un amministratore di s.p.a. fallita verso il quale il fallimento aveva promosso l’azione di responsabilità ex artt. 2932-2394 c.c. Il Tribunale ha affermato che, ritenuti sussistenti i requisiti del periculum in mora e del fumus boni iuris, non è idonea ad escludere la sussistenza dei presupposti cautelari la presenza di coobbligati solidali “ampiamente solvibili”, formulando il principio di cui alla massima.

Ord. 27.4.2017

(Massima a cura di Sara Pietra Rossi)




Sentenza del 5 aprile 2017, n. 1060 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott. Stefano Franchioni

Sulla base di principi applicabili ai componenti del consiglio di sorveglianza, in una società a partecipazione pubblica il venir meno del rapporto fiduciario tra socio e amministratori è rilevante, ai fini di integrare una giusta causa di revoca del mandato, solo quando i fatti che hanno determinato il venire meno dell’affidamento siano oggettivamente valutabili come fatti idonei a mettere in forse la correttezza e le attitudini gestionali dell’amministratore. Altrimenti lo scioglimento del rapporto fiduciario deriva da una valutazione soggettiva della maggioranza che non esclude la revoca ad nutum, ma legittima l’amministratore revocato senza giusta causa a richiedere il risarcimento del danno derivatogli dalla revoca del mandato. Non può costituire giusta causa di revoca il mero inadempimento ad una inesistente soggezione dell’amministratore alle direttive del socio di maggioranza, pur se pubblico.

Le ragioni alla base della revoca devono essere espressamente enunciate nell’atto dell’assemblea, senza che queste, omesse nell’atto deliberativo, possano essere integrate in prosieguo, nel corso del giudizio, appartenendo alla sola assemblea ogni valutazione in proposito.

La clausola statutaria simul stabunt simul cadent è causa di decadenza automatica dalla carica pertanto, a differenza della revoca, non attribuisce al consigliere di sorveglianza cessato per effetto della stessa alcun diritto al risarcimento del danno. Al più la tutela risarcitoria potrebbe essere riconosciuta solo in caso di utilizzo abusivo di tale clausola, ovvero quando lo strumento della revoca o delle dimissioni dei consiglieri “amici” sia utilizzato al solo fine di rimuovere i componenti non graditi.

Principio espresso in tema di azione di risarcimento danni promossa da alcuni componenti del consiglio di sorveglianza di una s.p.a. a partecipazione pubblica per essere stati revocati, ai sensi dell’art. 2409 duodecies c.c., senza giusta causa. Il Tribunale ha accolto parzialmente la domanda avendo ritenuto che nel verbale assembleare di revoca non fossero state esplicitate le ragioni che integravano la giusta causa di revoca, le quali, in assenza di un’espressa indicazione nella delibera assembleare, non potrebbero essere integrate successivamente nel corso del giudizio.

(Massima a cura di Sara Pietra Rossi)

Sent. 5.4.2017, n. 1060




Ordinanza del 7 febbraio 2017 – Giudice designato: dott.ssa Vincenza Agnese

Affinché si possa pervenire alla pronunzia di invalidità di una delibera, il socio impugnante deve allegare e provare (anche) la lesione di un diritto suo proprio, non essendo sufficiente che la delibera sia prospettata come contra legem, esigendosi la specifica lesione dei diritti patrimoniali (e amministrativi) del socio che non può derivare dal pregiudizio che la società nel suo complesso, e dunque indirettamente ogni socio, andrebbe a subire.

Principio espresso in ipotesi di rigetto dell’istanza, proposta ex art. 2378 c.c., di sospensione dell’efficacia esecutiva di una deliberazione di s.p.a. avente ad oggetto l’approvazione di un progetto di fusione per incorporazione di società posseduta al 95%, rigetto motivato dal rilievo secondo cui detta deliberazione sarebbe stata priva di idoneità lesiva per l’istante, posto che la stipula dell’atto di fusione era subordinata, in base al progetto di fusione, alla conclusione di un accordo interbancario, non ancora perfezionato, di rinegoziazione delle condizioni dei finanziamenti delle società del gruppo. Il rigetto della istanza è stato motivato altresì dall’assenza del periculum in mora, posto che la valutazione di bilanciamento degli opposti interessi ha indotto a ritenere che l’eventuale pregiudizio economico subito dall’istante a seguito della fusione avrebbe potuto trovare adeguato ristoro nell’azione risarcitoria.

(Massima a cura di Sara Pietra Rossi)

Ord. 7.2.2017