Corte d’Appello di Brescia, sentenza del 25 novembre 2022, n. 1402 – diritto industriale, indicazioni geografiche, IGP

Se è registrata come IGP una denominazione composta, formata sia da parole comuni o generiche che da termini geografici, la protezione dell’indicazione geografica non si estende ai termini comuni, ma riguarda solo la denominazione complessivamente considerata. Il richiamo all’origine del prodotto, la cui componente geografica appare determinante, è elemento essenziale della tutela invocata ex art. 13, par. 1, lett. b), Reg. UE n. 1151/2012 in termini di evocazione illecita. Va quindi esclusa l’evocazione illecita in caso di utilizzo da parte di terzi di termini comuni presenti in una denominazione composta registrata come IGP, a meno che questi siano accompagnati da elementi testuali o figurativi che, richiamando la zona di origine del prodotto IGP, possono generare evocazione di esso o confusione con il medesimo.

I principi sono stati espressi nell’ambito del giudizio d’appello promosso da un consorzio di tutela di una Indicazione Geografica Protetta (IGP), costituita da una denominazione composta non soltanto da una denominazione geografica, ma anche da termini comuni.

Il consorzio appellante domandava l’accertamento della sussistenza di condotte di concorrenza sleale ex art. 2598 c.c. e di evocazione illecita ex art. 13, par. 1, lett. b), Reg. UE n. 1151/2012, asseritamente perpetrate dalla società convenuta e la conseguente tutela inibitoria e risarcitoria. Nello specifico, l’appellante lamentava l’indebito utilizzo da parte della società convenuta, nella denominazione dei propri prodotti, di parole suscettibili di determinare confusione con il prodotto contraddistinto dalla IGP dallo stesso tutelata con conseguente configurabilità della c.d. evocazione illecita di nomi registrati ex art.13, par. 1, lett. b), Reg. (UE) n. 1151/2012.

La società convenuta chiedeva il rigetto delle domande avversarie.

 La Corte d’Appello ha condiviso la decisione del Tribunale che aveva rigettato la domanda del consorzio avendo ritenuto che l’utilizzo sostantivato di uno dei termini che compongono la IGP in esame, unitamente alla somiglianza dei prodotti, delle confezioni e all’identità dei canali distributivi, non fosse sufficiente a realizzare la fattispecie dell’evocazione illecita, in quanto nel prodotto della convenuta non vi era alcun riferimento al territorio di origine della denominazione protetta. Il Tribunale che non aveva neppure ravvisato nel caso di specie la sussistenza di atti di concorrenza sleale, atteso che l’attore non aveva addotto a fondamento della propria domanda risarcitoria elementi fattuali idonei a comprovare un effettivo sviamento della clientela in modo non conforme alla correttezza professionale e quindi la configurabilità di condotte idonee a danneggiare le aziende consorziate. In ogni caso è stata esclusa la possibilità di ravvisare un’ipotesi di concorrenza sleale confusoria ex art. 2598, n. 1, c.c. perché tale norma tutelerebbe i segni distintivi e non le IGP.

All’esito del giudizio, la Corte d’Appello ha respinto il gravame e ha confermato la sentenza di primo grado, condannando l’appellante al pagamento delle spese processuali.

La Corte d’Appello ha rigettato l’appello e confermato la sentenza impugnata, con condanna dell’appellante al pagamento delle spese processuali.

(Massime a cura di Alice Rocco)




Sentenza del 25 marzo 2021 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

In caso di esercizio dell’opzione per l’acquisto dei titoli di
privativa industriale da parte della società, opzione prevista dall’art. 64, c.
3, c.p.i., il dies a quo del termine di prescrizione del diritto al
pagamento del prezzo della cessione, dovendosi ritenere verificato un effetto
traslativo già al momento del deposito della domanda di brevetto a nome della
società, decorre dalla data di deposito della domanda medesima.

Sul piano letterale, tutte le disposizioni contenute nell’art. 64,
c. 3, c.p.i. prevedono, quale destinatario passivo, il “datore di lavoro”,
soggetto che evidentemente non è ravvisabile all’interno del rapporto
contrattuale tra amministratore e società, riconducibile alla fattispecie
negoziale del mandato. Inoltre, discutendosi di disposizioni speciali, esse non
sono suscettibili di applicazione analogica, dovendosi ritenere che la tutela
dell’inventore non dipendente sia assicurata dal ricorso ai rimedi generali
previsti dall’ordinamento.

Principi
espressi all’esito del giudizio promosso dall’ex amministratore di una società
al fine di ottenere il pagamento di una somma a titolo di canone per l’uso
esclusivo da parte della società di invenzioni effettuate dal medesimo durante
l’incarico di amministratore ovvero il riconoscimento di un importo a titolo di
“equo premio” per le invenzioni realizzate.

(Massime a cura di Lorena Fanelli)




Sentenza dell’1 giugno 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Davide Scaffidi

L’interesse ad agire per la declaratoria di nullità di un titolo brevettuale altrui non può essere identificato in un mero interesse al rispetto della legalità di cui un qualsiasi soggetto si affermi titolare. Deve piuttosto ribadirsi che l’esperimento della domanda di nullità di una privativa industriale mira ad eliminare un titolo ostativo al libero esercizio dell’attività di impresa e, laddove esso sia effettivamente nullo, alla rimozione degli effetti ad esso connessi con la correlativa possibilità di condurre liberamente quella l’attività nel campo ricoperto dal titolo brevettuale dichiarato nullo (conf. Trib. Milano n. 10518/2015).

Ai sensi dell’art. 100 c.p.c. e dell’art. 122 c.p.i., l’interesse ad agire non può essere costituito da un interesse di mero fatto, non assistito dai requisiti di concretezza ed attualità, che sono comunemente richiesti dall’ordinamento affinché possa ritenersi integrata l’apposita condizione, che giustifica l’ammissibilità di una domanda di accertamento quale è per l’appunto la domanda di accertamento dell’invalidità di una privativa altrui. 

Ai sensi dell’art. 100 c.p.c. e dell’art. 122 c.p.i., deve ritenersi che l’interesse ad agire difetta quando l’attore promuove un’azione soltanto al fine di scongiurare l’eventualità di ulteriori e futuri procedimenti e la domanda di nullità dei titoli brevettuali avanzata dall’attrice è sorretta esclusivamente da generiche ed astratte esigenze di certezza dei rapporti tra le due imprese, non ponendosi, in concreto, il problema di dover eliminare una situazione di incertezza, obiettiva e pregiudizievole, in ordine alla portata di diritti e obblighi delle parti rispetto ai titoli brevettuali oggetto di censura. 

Principi espressi dichiarando il difetto di interesse ad agire della società in relazione alle domande proposte volte alla declaratoria di nullità di due brevetti di titolarità della società convenuta e dei quali l’inventore era stato il legale rappresentate della prima. La società attrice, non avendo allegato possibili profili di interferenza potenziale tra i manufatti realizzati dalla stessa e l’oggetto dei brevetti della convenuta, non ha, conseguentemente, dimostrato come i diritti vantati sui titoli brevettuali potessero costituire un ostacolo attuale e concreto al libero esercizio della propria libertà imprenditoriale.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Ordinanza del 21 ottobre 2020 – Giudice designato: Dott.ssa Alessia Busato

La regola sulla ripartizione dell’onere della prova prevista dall’art. 121 c.p.i. opera all’evidenza anche nell’ambito del procedimento cautelare, non essendovi alcun dato normativo o sistematico che possa portare a diversa conclusione.

Nell’ambito di un procedimento cautelare, pur con le peculiarità della cognizione sommaria propria di simili procedimenti, è sempre possibile eccepire la nullità del titolo.

Principi espressi nell’ambito di un procedimento cautelare nel quale la ricorrente, previa descrizione ex art. 129 c.p.i. dell’attività di lavorazione dei prodotti svolti dalla resistente, chiedeva l’inibizione ex art. 131 c.p.i. delle attività costituenti asserita violazione di un brevetto.

(Massima a cura di Giovanni Maria Fumarola)




Sentenza dell’8 maggio 2020 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Lorenzo Lentini

Un contratto che preveda quale suo oggetto la realizzazione di un video promozionale ricomprende tutte le attività, a carattere tecnico, necessarie per l’esecuzione del video, ivi inclusa l’attività di regia. 

La distinzione tra “regia operativa” e “diritti di regia” non è rilevante se si ha riguardo al contesto fattuale: considerata la natura dell’attività prestata, la finalità promozionale e le caratteristiche della committente, può presumersi che il corrispettivo pagato per la realizzazione di un video promozionale includa ogni voce economica riguardante l’esecuzione tecnica del video, anche a titolo di (eventuale) compenso autoriale.

L’attività di presentatore è prestazione estranea, sotto il profilo oggettivo, all’attività di realizzazione di un video promozionale giacché richiede competenze professionali di natura diversa, e pertanto da retribuirsi separatamente alle attività connaturate alla realizzazione di un video promozionale.

Principi espressi nel decidere una controversia avente ad oggetto il mancato pagamento dei diritti di regia e del compenso per l’attività di presentatore di un professionista operante nel settore della regia di spot televisivi nonché del compenso per l’attività di “presentatore” eseguita dallo stesso.

(Massima a cura di Demetrio Maltese)




Sentenza del 5 dicembre 2015, n. 3546 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott.ssa Vincenza Agnese

La tutela del software (si vedano per la definizione, ex plurimis, Cass. nn. 13524/2014; 581/2007; 8011/2012), essendo, all’interno dell’ordinamento nazionale, considerato appartenente alla categoria dei beni giuridici immateriali, è offerta dalla normativa sul diritto d’autore.

Ai fini dell’accesso a tale tutela il programma deve presentare il requisito della originalità, il quale – pur costituendo un requisito di accesso alla protezione situato ad un livello di minore rigore rispetto a quanto dalla legge richiesto per il riconoscimento della novità intrinseca del brevetto per l’invenzione industriale – postula che il programma di cui si chiede protezione non rappresenti una soluzione tipica conosciuta dagli operatori di settore.

(Conforme a Trib. di Milano, 29.01.1997).

Ai medesimi fini, ne consegue la necessità di stabilire se il programma sia frutto di un’elaborazione creativa da parte del suo autore, ciò tenendo conto che la creatività e l’originalità sussistono anche qualora l’opera (o programma) sia composta da idee e nozioni semplici organizzate in maniera autonoma rispetto alle precedenti.

(Conforme a Cass. n. 13524/2014).

In altri termini, la originalità postula un personale sforzo creativo da parte del suo autore sì da determinare la certa esclusione della già avvenuta creazione di un’opera (o programma) simile, implicando, dunque, un sufficiente grado di “valore aggiunto” rispetto alla situazione anteriore.

(Conforme a Cass. n. 13937/1999).

Tale requisito tuttavia subisce, se riferito software, un adattamento necessitato dalle peculiarità dell’oggetto cui esso inerisce: a differenza delle opere dell’ingegno (la cui originalità riguarda essenzialmente la forma espressiva), il giudizio di originalità comprende le utilità da esso ricavabili e le scelte tecnico-esecutive per il conseguimento di queste ultime, che non devono essere già state utilizzate da altri operatori di settore per il conseguimento di quelle medesime utilità.

La carenza del requisito della originalità del software determina altresì l’esclusione della tutela, offerta dagli artt. 98 e 99 c.p.i., conseguente alla violazione di informazioni segrete.

Tale esclusione consegue al difetto del requisito implicito della novità, di cui all’art. 98, primo comma, lett. a), c.p.i., posto che l’assenza di uno solo dei plurimi requisiti che connotano la fattispecie (che devono essere tutti allegati e provati dalla parte che ne reclama la relativa tutela) impedisce di sussumerne i relativi fatti nell’alveo normativo.

(Inoltre, la giurisprudenza che si è occupata dell’argomento richiede, ai medesimi fini, la prova di parte reclamante delle misure concretamente adottate per impedire la diffusione delle informazioni asseritamente segrete. Cfr. Trib. di Milano, 08.11.2005).

Integrano la fattispecie di cui all’art. 2598, n. 3, c.c. le condotte volte all’illecita appropriazione di c.d. codici sorgente di programmi per elaboratori, nonché all’illecito sfruttamento economico dei medesimi.

Gli atti del dipendente infedele consistenti nel fornire ad altra impresa concorrente notizie attinenti all’organizzazione e all’attività del proprio datore di lavoro, idonee ad arrecargli danno con vantaggio dell’impresa concorrente, sono a quest’ultima imputabili a titolo di concorrenza sleale, in forza di una presunzione di partecipazione di essa al fatto, valida fino a prova contraria.

(Conforme a Cass. n. 5708/1985).

La commercializzazione di un software illecitamente contraffatto, e il conseguente ricavo di un ingiusto profitto, costituisce un’attività professionalmente scorretta e sanzionabile, anche per sviamento di clientela, ex art. 2598, n. 3, c.c.

Il danno, conseguente all’integrazione della fattispecie di concorrenza sleale, può essere equitativamente determinato exart. 1226 c.c. ed il pregiudizio quantificato con riguardo agli utili realizzati dalla impresa nel periodo di durata dello sfruttamento economico del vantaggio concorrenziale (c.d. criterio di reversione degli utili exart. 125 c.p.i.).

Così, esemplarmente, ai fini della quantificazione del danno conseguente alla commercializzazione di un software contraffatto possono essere utilizzate le fatture prodotte in giudizio, exart. 210 c.p.c., relative al periodo in cui detta commercializzazione è avvenuta (tenendo conto che non tutte appaiono immediatamente riferibili alla stessa): i relativi utili – considerando i costi, invero contenuti, connessi alla concessione in licenza di un software ed invece l’elevato valore aggiunto da essa discendente – possono ragionevolmente quantificarsi nella misura del 40% dei ricavi conseguiti nel periodo considerato.

L’attacco ingiusto diretto a ledere il concorrente ed i suoi prodotti e/o servizi legittima una reazione di quest’ultimo che ristabilisca la verità e consenta al pubblico di avere una corretta percezione dei soggetti operanti sul mercato. Sicché l’accoglimento della domanda di concorrenza sleale legittima le condotte del danneggiato volte a screditare l’immagine del danneggiante.

(Conforme Cass. n. 11047/1998).

Principi espressi in ipotesi di parziale accoglimento del ricorso promosso da una s.r.l. a tutela del software dalla stessa utilizzato ai fini dell’accertamento della violazione dei diritti d’autore e della normativa sulla tutela delle informazioni segrete, nonché della responsabilità per concorrenza sleale, conseguenti alla illecita duplicazione e distribuzione di detto software.

Nello specifico, è stata accertata la sussistenza della sola responsabilità risarcitoria per concorrenza sleale ex art. 2598, n. 3, c.c.

Sent. 5.12.2015, n. 3546

(Massima a cura di Marika Lombardi)




Ordinanza del 25 marzo 2015 – Presidente: dott. Stefano Rosa – Giudice relatore: dott.ssa Vincenza Agnese

La diversità grafica, la fonetica, l’aggiunta di una certa dicitura, la classe merceologica e la diversità della qualità dei prodotti non appaiono, in sé, elementi di differenziazione sufficienti ad escludere l’identità sostanziale del segno e dei prodotti commercializzati e, dunque, la tutela offerta al titolare del marchio ai sensi dell’art. 20 c.p.i.

Deve infatti ritenersi che, in primo luogo, né il carattere maiuscolo o minuscolo delle (stesse) lettere che compongono la denominazione dei segni distintivi né la proposta di lettura dei marchi con accenti diversi siano adeguati ad escluderne la confondibilità presso il consumatore.

Neppure può considerarsi, allo stato, adeguato elemento di differenziazione la circostanza che la registrazione del marchio rechi una certa dicitura né che esso sia stato registrato per una classe merceologica diversa, laddove siano in concreto commercializzati (anche) prodotti non recanti la dicitura aggiuntiva e afferenti a classe merceologica che pure non corrisponde a quella di registrazione.

Infine, nemmeno la qualità superiore o inferiore dei prodotti, determinata in ragione del materiale utilizzato per la produzione, è in grado di elidere l’identità delle loro caratteristiche. Ciò, particolarmente, in ipotesi di commercializzazione via web, poiché il consumatore non ha la possibilità di toccare i prodotti al fine di cogliere l’eventuale differenza di qualità dei materiali impiegati, e, in ogni caso, quando il commercio avviene mediante punti vendita tradizionali ove il consumatore non abbia contemporaneamente a disposizione entrambi i prodotti.

L’eccezione di preclusione per tolleranza, di cui all’art. 28 c.p.i., presuppone la conoscenza effettiva in capo al titolare della registrazione anteriore dell’uso del marchio da parte di chi intenda giovarsene. La prova deve essere fornita da chi eccepisce la convalidazione, non risultando sufficiente, a tal fine, la pubblicità costituita dalla registrazione.

(Conforme a Corte di Giustizia UE, 22 settembre 2011, caso Anheuser-Busch; Cass. n. 26498/2013; Trib. di Torino, 15.01.2010).

Ulteriormente, la prova non può considerarsi raggiunta mediante la mera allegazione dell’esistenza di una proposta di collaborazione risalente nel tempo tra i titolari.

La mancata specifica allegazione e prova di ogni danno all’immagine derivante dall’uso di un marchio confondibile esclude la necessità di pubblicazione del dispositivo del provvedimento che ne inibisce l’uso medesimo, integrando siffatta pubblicazione una fattispecie di risarcimento in forma specifica che presuppone un accertamento pur sommario della effettiva verificazione del relativo danno.

L’applicazione dei principi, ex art. 22 c.p.i., elaborati in ordine alla capacità distintiva ed alla novità dei marchi alla denominazione sociale deve essere contemperata con la specifica disciplina e la funzione svolta da quest’ultima. Deve, infatti, rammentarsi che la denominazione sociale può rimanere immutata anche nell’ipotesi di cambiamento dell’oggetto sociale, ciò in quanto ha la funzione di individuare la società come soggetto di diritto, prescindendo dall’attività in concreto svolta.

(Conforme a Trib. di Torino, 08.05.1996; Trib. di Bari, 21.12.2006).

Principi applicati in ipotesi di parziale accoglimento di reclamo avverso l’ordinanza di accoglimento del ricorso, ex artt. 700 c.p.c. e 129-131 c.p.i., che ha disposto nei confronti della reclamante: l’inibizione del commercio dei prodotti simili a quelli commercializzati dalla reclamata; il ritiro dal commercio di detti prodotti, con sequestro di quelli presenti presso la sede, le pertinenze e le dipendenze; l’utilizzo del marchio confondibile nella denominazione sociale; l’utilizzo di pagine Facebook contenti il marchio confondibile; il pagamento di una penale per la violazione e il ritardo dell’esecuzione del provvedimento; nonché la pubblicazione del dispositivo su un quotidiano nazionale e, per trenta giorni, sul sito web della medesima.

Nello specifico, l’ordinanza impugnata è stata revocata nei punti in cui inibiva alla reclamante l’utilizzo del marchio confondibile nella denominazione sociale e in cui ordinava la pubblicazione del dispositivo.

Ord. 25.3.2015

(Massima a cura di Marika Lombardi)