Tribunale di Brescia, ordinanza del 12 giugno 2024 – insegna, nome a dominio, contraffazione di marchio registrato, inibitoria ex art. 131 c.p.i.

Il diritto di un imprenditore di mantenere  il proprio cognome all’interno dell’insegna sotto cui esercita l’attività commerciale e nella pagina internet utilizzata per  pubblicizzare detta attività trova il limite degli artt. 20 c.p.i. e 2564 c.c., norma, quest’ultima, applicabile all’insegna in forza dell’espresso richiamo contenuto nell’art. 2568 c.c. Ne consegue che a costui è inibito l’utilizzo di un’insegna che riproduca il marchio registrato da un’impresa concorrente in epoca anteriore, quand’anche si tratti di un marchio patronimico, corrispondente al suo cognome.

È consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui i marchi denominativi e gli altri segni distintivi contenenti lo stesso cognome sono, di regola, confondibili, anche in presenza di prenomi diversi o di altri elementi di differenziazione: il principio deriva dalla regola di esperienza per cui, salvo il caso di cognomi molto diffusi e/o già ampiamente utilizzati nello specifico settore di riferimento, i consumatori tengono generalmente a mente il cognome piuttosto che il nome (Cass. n. 8119/2009; Cass. n. 14483/2002 e Cass. n. 7482/1995).

Nei segni distintivi costituiti da un patronimico, il cognome rappresenta il “cuore”, mentre il prenome e gli altri elementi distintivi del tipo di attività esercitata o di uso comune sono di regola privi di autonoma capacità distintiva, viepiù laddove la denominazione comune sia utilizzata con caratteri tipografici e modalità tali da aumentare il pericolo di confusione. Ne consegue che l’anteriorità dell’uso del segno distintivo contenente un patronimico comporta il venir meno della facoltà dell’omonimo imprenditore concorrente di usare l’identico patronimico quale segno distintivo o quale segmento del proprio segno distintivo, salva l’attuazione di una differenziazione tale da evitare la (altrimenti presunta) confondibilità tra imprese e relativi prodotti.

La funzione dell’art. 2563 c.c. non è in realtà quella distintiva dell’impresa rispetto alle altre concorrenti, ma quella indicativa del collegamento interno tra impresa e persona fisica dell’imprenditore, volta a tutelare l’interesse dei terzi creditori: poiché tale funzione non interferisce con la disciplina posta a tutela dell’interesse alla differenziazione delle imprese, si ritiene che il rispetto del c.d. principio di verità non possa mai comportare un’attenuazione della tutela del segno distintivo anteriore contro la confondibilità.

La confondibilità tra prodotti/servizi non è esclusa dalla differenza qualitativa tra gli stessi (Cass. n. 17144/2009), dalla circostanza che i prodotti del titolare del marchio siano più costosi e raffinati di quelli del contraffattore (Cass. n. 5091/2000) o dal fatto che tale marchio goda di maggiore rinomanza rispetto al segno distintivo del contraffattore, così come va altresì escluso che costituiscano validi elementi di differenziazione la diversità dei canali distributivi e il differente target di clientela (Cass. n. 17144/2009), o l’aggiunta da parte del contraffattore di un proprio segno o segmento distintivo sul prodotto recante il marchio contraffatto (Cass. n. 1249/2013; Cass. n. 14684/2007).

Principi espressi nell’ambito di un procedimento di reclamo avverso un’ordinanza cautelare con la quale era stato inibito ex art. 131 c.p.i. l’illegittimo utilizzo da parte del reclamante della denominazione presente nell’insegna e nel sito internet dello stesso, in quanto pressoché identica al marchio registrato da un’impresa concorrente. Nel rigettare il reclamo il Collegio precisa la portata della tutela che deve essere assicurata ai marchi patronimici.

(Massime a cura di Edoardo Abrami)




Tribunale ordinario di Brescia, ordinanza del 30 gennaio 2024, n. 138 – Brevetti, Azione inibitoria ex art. 131 c.p.i, Procedimento cautelare

Anche nel diritto industriale, ai fini della valutazione delle condizioni necessarie per esperire l’inibitoria cautelare ex art. 131 c.p.i., è necessario valutare la sussistenza dell’urgenza connessa al periculum in mora che con tale provvedimento si intende scongiurare. Pertanto, tale requisito non può ritenersi “insito” e “presunto” in re ipsa nella violazione, essendo – invece – necessario un preciso accertamento riferito al caso concreto che presupponga, da parte del ricorrente, l’allegazione e la prova dello specifico pericolo e pregiudizio che con il provvedimento cautelare si vuole evitare.

L’inerzia nel presentare la domanda cautelare protrattasi per un prolungato lasso di tempo, in caso di consapevolezza del ricorrente tanto della violazione in atto quanto dell’autore dell’illecito, è idonea ad escludere l’urgenza del periculum in mora necessaria ai fini della proposizione dell’istanza stessa.

Princìpi espressi nell’ambito di reclamo ove il Tribunale ha respinto – per assorbente carenza del periculum in mora – la domanda con cui il reclamante chiedeva l’inibitoria cautelare ex art. 131 c.p.i. in merito alla violazione del proprio diritto brevettuale.

(Massime a cura di Edoardo Compagnoni)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 16 gennaio 2024, n. 60 – procedimento cautelare, azione di contraffazione, marchi, marchi di forma,  marchi non registrati e marchi registrati,  fumus boni iuris e periculum in mora della contraffazione, atti di concorrenza sleale

Differentemente dai marchi registrati, per i quali vale la presunzione di validità (presunzione comunque superabile mediante prova dell’invalidità), per i marchi di fatto è onere della parte che ne invoca la tutela allegare specificamente e dimostrare la validità del segno, dimostrandone il carattere distintivo e i tratti di novità e di originalità.

Con riguardo ai marchi di forma non registrati, l’individuazione del carattere distintivo, della novità e della originalità deve essere specifica, non potendosi ritenere assolto il relativo onere probatorio nel caso in cui la parte intenda fondare la propria pretesa sul mero esame visivo delle immagini raffiguranti il prodotto allegate nella documentazione offerta in giudizio.

Deve escludersi la sussistenza di una capacità distintiva “intrinseca” nelle forme comuni, non originali in sé né nuove.

Come recentemente affermato dalla giurisprudenza, «Può essere registrato e tutelato come marchio di forma quel prodotto la cui pubblicizzazione e commercializzazione ne abbiano favorito la diffusione tra il pubblico al punto da comportare la generalizzata riconducibilità di quella determinata forma dell’oggetto ad una specifica impresa, consentendo l’acquisto, tramite il c.d. “secondary meaning”, di capacità distintiva del marchio che ne era originariamente privo» (cfr. Cass. n. 30455/2022).

Sussiste “secondary meaning” quando «[…] il marchio, in origine sprovvisto di capacità distintiva per genericità, mera descrittività o mancanza di originalità, acquisti tale capacità in conseguenza del consolidarsi del suo uso sul mercato» (cfr. Cass. n. 53/2022). L’acquisto del carattere distintivo tramite il “secondary meaning” può essere desunto da elementi indiziari, quali indagini demoscopiche, sempre che «almeno una frazione significativa del pubblico destinatario identifichi grazie al marchio i prodotti o servizi di cui trattasi come provenienti da un’impresa determinata» (cfr. Trib. I gr. CE, 2 luglio 2009, T-414/07; analogamente Corte Giust. CE, 4 maggio 1999, C-108/97).

Configurano elementi indiziari anche le campagne pubblicitarie svolte e gli investimenti pubblicitari effettuati, relativamente ai quali è onere della parte fornire allegazioni specificamente riferibili ai prodotti contraddistinti dai marchi dei quali si invoca tutela.

Relativamente ai marchi registrati, ai fini della decadenza dai diritti sul segno per volgarizzazione (art. 26 c.p.i), la presenza sul mercato di prodotti aventi forme del tutto analoghe a quelle dei prodotti contraddistinti dai marchi di cui si invoca tutela è un dato di per sé neutro.

Nell’ambito di un giudizio cautelare instaurato nell’ambito di un’azione di merito tesa ad accertare la contraffazione di marchi registrati, ricorre il “fumus” della contraffazione ai sensi dell’art. 20, c.1, lett. b) c.p.i. non solo in caso di esatta riproduzione della forma, ma anche quando la stessa presenti un elemento inidoneo a conferire al prodotto un’impressione radicalmente differente rispetto a quella conferita dal segno oggetto di privativa, qualora tale elemento sia tradizionalmente irrilevante per il consumatore di riferimento.  

Nell’ambito di un giudizio cautelare instaurato nell’ambito di un’azione di merito tesa ad accertare la contraffazione di marchi registrati sussiste il “periculum in mora” quando l’interferenza censurata sia suscettibile di arrecare un pregiudizio al titolare del marchio in termini di svilimento dello stesso, in particolare laddove si consideri che i prodotti oggetto della contraffazione sono venduti a prezzi inferiori. Tale pregiudizio, suscettibile di assumere portata maggiore nelle more del giudizio di cognizione piena, non è adeguatamente ristorabile per equivalente.

La sussistenza del “periculum in mora” non è esclusa dall’inerzia protratta dal titolare del marchio nell’esercizio giudiziale delle sue ragioni, né dalla prolungata coesistenza sul mercato dei prodotti delle rispettive imprese, essendo dirimente in proposito l’imminenza del pericolo insita nell’attualità della produzione e commercio in violazione delle privative registrate. Tali circostanze rilevano, invece, nella modulazione temporale delle misure cautelari concesse, dovendosi accordare al resistente, compatibilmente con le esigenze cautelari, tempi ragionevoli per adeguare al provvedimento la sua organizzazione produttiva e commerciale in modo tempestivo, e possono eventualmente rilevare altresì in termini di riduzione del danno cagionato.

In tema di illeciti concorrenziali, il divieto di imitazione servile ai sensi dell’art. 2598, n.1 c.c. tutela l’interesse a che l’imitatore non crei confusione con i prodotti del concorrente, giacchè l’imitazione servile dei prodotti altrui che non integri violazione di diritti di privativa industriale può configurare atto di concorrenza sleale soltanto quando riguardi elementi estrinseci e formali dei prodotti stessi, che abbiano idoneità individualizzante.

In tema di imitazione servile non è idonea a ingenerare confusione la presenza, sulle confezioni dei prodotti, di marchi denominativi e figurativi radicalmente differenti che non condividano con i marchi oggetto di privativa né il nucleo concettuale, né alcun aspetto fonetico, stilistico o grafico significativo.

Ricorre appropriazione di pregi, ai sensi dell’art. 2598, n. 2 c.c., quando un’impresa, in forme pubblicitarie, attribuisca ai propri prodotti qualità non possedute, ma appartenenti ai prodotti dell’impresa concorrente.

È da ricondursi all’art. 2598 n. 3, stante l’utilizzo di mezzi non conformi alla lealtà commerciale suscettibile di danneggiare l’azienda altrui, il cd. “agganciamento parassitario”, fattispecie che può realizzarsi mediante l’utilizzo di un packaging che, sotto il profilo estetico, è del tutto simile a quello utilizzato per prodotti omologhi (ad esempio per combinazione di forma e di ingredienti) maggiormente noti, e quindi idoneo ad evocare il ricordo dell’immagine della confezione e del prodotto a marchio altrui, pubblicizzati a livello nazionale.

In tema di agganciamento parassitario, il vantaggio ingiusto ottenuto dal concorrente consiste nel realizzare un significativo risparmio in termini di investimenti necessari per accreditare autonomamente e commercializzare i propri prodotti sul mercato; a tale vantaggio corrisponde per l’impresa concorrente un indebito svantaggio, individuabile nella frustrazione dei suoi investimenti (produttivi, di marketing, pubblicitari), nella potenziale erosione di una quota di mercato in ragione dei prezzi più convenienti praticati dalla concorrente (condizione resa possibile anche grazie al risparmio conseguito, riconducibile ad un atteggiamento commerciale di tipo parassitario), nonché, potenzialmente, in uno svilimento dei suoi marchi.

Principi espressi nell’ambito di un giudizio cautelare funzionale ad un giudizio di merito volto ad accertare la contraffazione di marchi registrati e non registrati, instaurato da una società a responsabilità limitata, attiva nel settore della produzione e commercializzazione di prodotti alimentari, volto ad ottenere l’inibitoria di asseriti illeciti contraffattori e di concorrenza sleale (per imitazione servile, appropriazione di pregi e agganciamento parassitario).

(Massime a cura di Vanessa Battiato)




Tribunale di Brescia, sentenza del 24 ottobre 2023, n. 2699 – marchio, contraffazione, inibitoria

L’utilizzo di un segno simile al marchio registrato per prodotti o servizi identici o affini integra la contraffazione del marchio se a causa della somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni, secondo quanto disposto dall’art. 20, lett. b), c.p.i.

Il principio in questione è stato espresso nell’ambito di un’azione di accertamento di contraffazione di un marchio registrato e della sussistenza di atti di concorrenza sleale.

(Massima a cura di Cristina Evanghelia Papadimitriu)




Tribunale di Brescia, sentenza del 2 agosto 2023, n. 1997 – accertamento negativo di contraffazione di brevetti, modelli di utilità, modelli e disegni industriali

In materia di proprietà intellettuale l’art. 120, comma 6, c.p.i. riconosce il c.d. forum commissi delicti quale criterio di competenza territoriale alternativo (e non subordinato) al criterio generale del luogo di residenza o domicilio del convenuto. 

Il criterio di competenza previsto dall’art. 120, comma 3, c.p.i., ossia il criterio del luogo in cui è stato eletto domicilio al momento della registrazione della privativa, trova applicazione laddove venga fatta valere una questione di validità dei titoli di privativa, e non un accertamento negativo di contraffazione.

Il principio di prevalenza del foro del domicilio eletto dal convenuto di cui al comma 3 dell’art. 120 c.p.i. vale solo per i fori indicati al precedente comma 2 del medesimo articolo (residenza, domicilio, dimora del convenuto), essendo invece concorrente con il foro previsto dal successivo comma 6 (applicabile anche alle azioni di accertamento negativo ai sensi del comma 6-bis del medesimo articolo), che prevede anche la competenza del giudice del luogo di commissione dei fatti di contraffazione o di concorrenza sleale (cfr. Cass. civ. Sez. VI – 1 Ord., 17/11/2021, n. 35056).

In tema di contraffazione di brevetti per invenzioni industriali posta in essere per equivalenza ai sensi dell’art. 52, comma 3 bis, c.p.i., il giudice, nel determinare l’ambito della protezione conferita dal brevetto, non deve limitarsi al tenore letterale delle rivendicazioni, interpretate alla luce della descrizione e dei disegni, ma deve contemperare l’equa protezione del titolare con la ragionevole sicurezza giuridica dei terzi, e pertanto deve considerare ogni elemento che sia sostanzialmente equivalente ad uno indicato nelle rivendicazioni; a tal fine può avvalersi di differenti metodologie dirette all’accertamento dell’equivalenza della soluzione inventiva, come il verificare se la realizzazione contestata permetta di raggiungere il medesimo risultato finale adottando varianti pive del carattere di originalità, perché ovvie alla luce delle conoscenze in possesso del tecnico medio del settore che si trovi ad affrontare il medesimo problema; non può invece attribuire rilievo alle intenzioni soggettive del richiedente del brevetto, sia pur ricostruite storicamente attraverso l’analisi delle attività poste in essere in sede di procedimento amministrativo diretto alla concessione del brevetto (cfr. Cass. civ. Sez. I Ord., 07/02/2020, n. 2977).

In materia di proprietà industriale, la verifica circa la sussistenza di una contraffazione di un modello o disegno deve essere condotta valutando se il successivo modello, in tesi contraffattorio, susciti nel consumatore informato di riferimento la stessa impressione generale del precedente modello oggetto di privativa, tenuto conto della combinazione delle caratteristiche estetiche, avuto riguardo al settore merceologico, che potrà essere più o meno affollato da prodotti simili.

Principi espressi nell’ambito di un giudizio promosso da una società a responsabilità limitata, attiva nel settore della produzione e commercializzazione di armadi stagionatori e impianti frigoriferi per vari usi, volto all’accertamento negativo dell’interferenza di alcuni suoi prodotti con i titoli di privativa industriale dei convenuti (società a responsabilità limitata convenuta e persona fisica titolare di licenza d’uso) i quali, eccepita l’incompetenza territoriale del tribunale di Brescia (avendo eletto domicilio al momento della registrazione della privativa ai sensi dell’art. 120 comma 3 c.p.i.), domandavano l’inibitoria alla fabbricazione, la pronuncia dell’ordine di ritiro dal commercio, il risarcimento dei danni derivanti dalla pretesa contraffazione, assistiti da penale, nonché la pubblicazione della sentenza.

(Massime a cura di Vanessa Battiato)




Tribunale di Brescia, sentenza del 15 marzo 2023 n. 589 – diritto industriale e della concorrenza, violazione del brevetto d’invenzione, competenza territoriale, cessione d’azienda, prova degli accordi di cessione e di licenza, tolleranza, quantificazione del danno

In tema di competenza territoriale in materia di violazione dei diritti di proprietà industriale, il sesto comma dell’art. 120 c.p.i. attribuisce la competenza territoriale all’autorità giudiziaria dotata di sezione specializzata nella cui circoscrizione i fatti sono stati commessi (c.d. forum commissi delicti). A tal fine, la nozione di “fatto lesivo” comprende ogni ipotesi di violazione dei diritti patrimoniali attribuiti al titolare del diritto di proprietà industriale, ivi compresi gli atti di fabbricazione, uso e vendita del bene prodotto in contraffazione, o che comunque si sostanziano nell’attuazione dell’oggetto della privativa o che sono diretti a trarne profitto. Il luogo di consumazione dell’illecito si specifica, poi, in relazione alle singole fattispecie concrete, sicché nel caso di fabbricazione, vendita o utilizzazione di prodotti contraffatti, deve ritenersi competente il giudice del luogo in cui tali prodotti siano stati rispettivamente fabbricati, venduti o utilizzati.

In caso di cessione d’azienda, ai sensi dell’art. 2559 c.c., il cessionario acquista i crediti relativi all’esercizio dell’azienda, tra cui vanno ricompresi, in mancanza di diversa pattuizione, quelli derivanti da fatti illeciti commessi in danno dell’impresa cedente (cfr., tra le altre, Cass. n. 13692/2012).

Sebbene i contratti di cessione e di licenza di diritti brevettuali non richiedano la forma scritta ad substantiam o ad probationem – con la conseguenza che, secondo gli ordinari principi in materia di onere della prova, chi invoca il trasferimento e/o la legittimità dello sfruttamento dei diritti sull’invenzione altrui è tenuto a dimostrare, anche per presunzioni, il titolo costitutivo del diritto invocato -, nel caso in cui, come nel caso di specie, gli accordi di cessione e di licenza del titolo brevettuale siano stati stipulati per iscritto, trova applicazione la regola probatoria di cui all’art. 2722 c.c., con conseguente impossibilità di provare tramite testimoni o presunzioni l’esistenza di patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, per i quali si alleghi che la stipulazione è stata contemporanea.

Peraltro, in caso di eventuali accordi successivi a un originario contratto di concessione di diritti di sfruttamento del brevetto, troverebbe comunque applicazione la regola probatoria di cui all’art. 2723 c.c., in base alla quale la prova per testimoni o presuntiva può essere consentita soltanto se, avuto riguardo alla qualità delle parti, alla natura del contratto e a ogni altra circostanza, appare verosimile che siano state fatte aggiunte o modificazioni verbali.

In caso di licenza di brevetto, sebbene la tolleranza del licenziante allo sfruttamento da parte del licenziatario, di privative diverse da quelle oggetto di licenza, non sia, di per sé, idonea a integrare una modifica dei patti stipulati tra le parti per iscritto (nel senso che non consente di estendere la licenza contrattuale anche ad un altro brevetto), potendo tale condiscendenza essere ispirata da ragioni ulteriori e diverse rispetto alla volontà di modificazione del patto), nondimeno, la manifestata acquiescenza del titolare del brevetto all’utilizzo, noto, di esso da parte dell’utilizzatore esclude la sussistenza dell’illecito, dovendosi ritenere l’attività oggettivamente dannosa posta in essere con il consenso del titolare avente diritto incompatibile con la volontà di farlo valere. Ne consegue che, il temporaneo assenso allo sfruttamento del brevetto, pur dovendosi ritenere inidoneo alla costituzione del vincolo contrattuale, fa venir meno l’antigiuridicità della condotta posta in essere nel periodo di tempo in cui perdurava l’assenso.

In caso di illecito sfruttamento dell’altrui brevetto, il danno patito del titolare della privativa deve essere quantificato ai sensi dell’art. 125 c.p.i., in forza del quale il lucro cessante è determinato in una somma non inferiore ai canoni che l’utilizzatore del brevetto avrebbe dovuto pagare in favore del titolare qualora avesse ottenuto regolare licenza di utilizzo e, nella misura in cui eccedano l’importo dei canoni, nella retroversione degli utili realizzati dall’autore della violazione.

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso da una società che lamentava l’abusivo sfruttamento del brevetto di cui era titolare da parte della società convenuta e chiedeva, previo accertamento di tale contraffazione e/o comunque della violazione delle regole di correttezza professionale ex art. 2598 n. 3 c.c., la conferma dell’inibitoria già disposta in sede cautelare, la pronuncia degli ordini di distruzione dei prodotti in contraffazione, dell’inibizione della reiterazione dell’illecito, dell’ordine di ritiro dal commercio dei prodotti contraffatti e la fissazione di una penale per ogni violazione, oltre che il risarcimento dei danni subiti in misura pari alle mancate royalties da licenza d’uso e comunque agli utili illecitamente ricavati dalla convenuta, di cui chiedeva la retroversione. La società attrice chiedeva, inoltre, la pubblicazione della sentenza.

La convenuta si costituiva in giudizio eccependo, in via pregiudiziale, l’incompetenza territoriale del Tribunale.

Nel merito, la convenuta sosteneva che lo sfruttamento del brevetto oggetto del contenzioso fosse oggetto di accordi commerciali tra le parti, avendo la convenuta stipulato con una società fallita – da cui la società attrice aveva acquistato il brevetto – un accordo in virtù del quale venivano regolamentati i rapporti di cessione, concessione e sfruttamento delle privative riferite ad un altro brevetto e sosteneva che anche il brevetto per cui l’attrice chiedeva la tutela dovesse ritenersi ricompreso nel predetto accordo. In ogni caso, la convenuta sosteneva che il brevetto oggetto di causa avrebbe dovuto considerarsi quale estensione del brevetto concesso in licenza alla convenuta stessa dalla società, poi fallita, da cui l’attrice aveva acquistato il brevetto.

Il Tribunale: (i) ha parzialmente accolto le domande dell’attrice e, nello specifico, ha accertato la violazione da parte della società convenuta del brevetto di titolarità dell’attrice, condannando la convenuta al risarcimento dei danni in un importo comprensivo di interessi compensativi e rivalutazione, oltre interessi legali successivi al deposito della sentenza; (ii) ha inibito alla convenuta la fabbricazione, il commercio e l’uso dei prodotti costituenti violazione del brevetto e fissato una penale per ogni violazione o inosservanza successivamente contestata; (iii) ha ordinato il ritiro definitivo dal commercio dei prodotti in contraffazione nei confronti di chi ne sia proprietario o ne abbia comunque la disponibilità e la distruzione a cura e spese della convenuta di tutte le cose costituenti la violazione. Tenuto conto del significativo lasso di tempo trascorso dal momento delle violazioni, il Tribunale ha rigettato la domanda di pubblicazione della sentenza, essendo venuto meno il concreto interesse dell’attrice o della collettività alla diffusione capillare dell’accertamento in essa contenuto.

(Massime a cura di Alice Rocco)