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Tribunale di Brescia, sentenza del 23 gennaio 2023, n. 126 – contratto di locazione finanziaria, fallimento dell’utilizzatore in pendenza del contratto e scioglimento dello stesso, obblighi restitutori

In caso di fallimento dell’utilizzatore di un contratto di locazione finanziaria, se il curatore fallimentare richiede lo scioglimento del contratto ai sensi del combinato disposto degli artt. 72 l. fall. comma primoe 72-quater comma primo, il concedente ha diritto alla restituzione del bene oggetto del contratto.

Non si può rimettere all’arbitrio del concedente la scelta se vendere o meno il bene restituito, rendendo così, nella seconda ipotesi, inapplicabile il dettato dell’art. 72-quater l. fall., frustrando di conseguenza il diritto del conduttore fallito e quindi della procedura.

Inoltre, il concedente è comunque obbligato a riconoscere al fallimento il valore indicato dall’art.  72-quater, comma terzo, l. fall., anche se la vendita o altre modalità di collocazione del bene non si sono verificate a causa della negligenza del concedente.

La finalità della procedura di realizzazione del valore di cui all’art. 72-quater, comma terzo, l. fall. è di operare una comparazione di valori tra il credito residuo del concedente ed il valore residuo del bene stesso, in quanto con tale differenza si intende sia soddisfare il credito residuo del concedente sia destinare al fallimento l’ulteriore somma che eventualmente dovesse rimanere. Pertanto, è del tutto irrilevante che tale disposizione non preveda un termine per la vendita, non potendo il concedente procrastinare arbitrariamente la vendita o collocazione del bene, specie in casi in cui il valore residuo del bene ecceda di gran lunga il credito residuo del concedente, poiché, altrimenti, impedirebbe al fallimento, con un comportamento contrario a buona fede, di esercitare il diritto garantito dalla disposizione a riscuotere la differenza.

Principi espressi nel corso di un giudizio in appello avviato da una società di leasing (concedente) per un’asserita errata interpretazione da parte del giudice di prime cure dell’art. 72 – quater, comma terzo, l. fall.

(Massime a cura di Giovanni Gitti)




Tribunale di Brescia, sentenza del 15 dicembre 2022, n. 3032 – società a responsabilità limitata, fallimento, azione di responsabilità amministratore, art. 2476 c.c.

Per l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore di una società di capitali non è sufficiente invocare genericamente il compimento di atti di “mala gestio” e riservare una più specifica descrizione di tali comportamenti nel corso del giudizio, atteso che per consentire alla controparte l’approntamento di adeguata difesa, nel rispetto del principio processuale del contraddittorio, la “causa petendi” deve sin dall’inizio sostanziarsi nell’indicazione dei comportamenti asseritamente contrari ai doveri imposti agli amministratori dalla legge o dallo statuto sociale. Ciò vale tanto che venga esercitata un’azione sociale di responsabilità quanto un’azione dei creditori sociali, perché anche la mancata conservazione del patrimonio sociale può generare responsabilità non già in conseguenza dell’alea insita nell’attività di impresa, ma in relazione alla violazione di doveri legali o statutari che devono essere identificati già nella domanda nei loro estremi fattuali (cfr. Cass n. 23180/2013 e Cass. n. 28669/2013). Tale onere di specifica allegazione si estende a tutti gli elementi costitutivi dell’azione di responsabilità sicché l’attore deve fornire indicazioni altrettanto puntuali in ordine all’esistenza del danno, del suo ammontare e del fatto che esso sia stato causato dal comportamento illecito di un determinato soggetto (cfr. Cass. n. 7606/2011).

Costituisce violazione degli obblighi di corretta gestione societaria, azionabile in via risarcitoria dalla curatela fallimentare, il comportamento degli amministratori che, sia negli anni anteriori alla messa in liquidazione della società che successivamente, hanno sistematicamente omesso di provvedere al regolare pagamento dei debiti tributari e contributivi, in tal modo palesando la loro incapacità di correttamente gestire le risorse finanziare sociali ed arrecando pregiudizio al patrimonio sociale, quantificabile nell’aggravio del debito originario, aumentato per accessori, sanzioni, interessi e somme aggiuntive.

L’omessa rilevazione della perdita del capitale sociale e la conseguente prosecuzione indebita dell’attività di impresa, con conseguente aggravio del deficit comportano, per giurisprudenza ormai costante (recepita d’altronde dall’art. 2486, comma terzo, nuovo testo, c.c.), la responsabilità risarcitoria degli amministratori per un importo coincidente – di norma – proprio con l’incremento del deficit patrimoniale (al netto, peraltro, dei cc.dd. costi normali di liquidazione), secondo il noto criterio della differenza fra netti patrimoniali. Tuttavia, l’effettivo aggravio del deficit non può, come ovvio, ritenersi coincidente col mero dato dell’incremento del debito bancario, che potrebbe essere, in ipotesi, opportunamente bilanciato dall’incremento di poste attive (o dalla corrispondente diminuzione di altre poste passive).

Princìpi espressi in relazione ad una causa promossa dal fallimento di una società a responsabilità limitata che ha convenuto in giudizio gli amministratori della stessa per ottenerne la condanna, in solido, al risarcimento dei danni cagionati alla società, poi fallita, in conseguenza di vari atti di mala gestio compiuti.

(Massime a cura di Carola Passi)




Decreto del 2 settembre 2021 – Presidente: Dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice relatore: Dott. Stefano Franchioni

Ai sensi dell’art. 81 l.f. il contratto d’appalto si scioglie per il fallimento di una delle parti se il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, non dichiara di voler subentrare nel rapporto dandone comunicazione all’altra parte nel termine di 60 giorni dalla dichiarazione di fallimento (conf. Cass. n. 3854/2019).

Principi espressi in caso di rigetto di opposizione allo stato passivo; il Tribunale ha evidenziato che il contratto di appalto non aveva ad oggetto la fornitura di merci, ma la consegna di un impianto elevatore. Nel dettaglio è stato osservato che non erano stati richiesti la rivendica del materiale fornito, il controvalore e neppure il riconoscimento del compenso per la parte di opera eseguita in proporzione al prezzo pattuito per l’intera opera. 

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza del 5 gennaio 2021 – Giudice designato: Dott. Stefano Franchioni

Ai sensi dell’art. 67, comma 2, l.f. sono revocati i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili compiuti entro sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento, se la curatela dimostra che l’altra parte conosceva lo stato d’insolvenza del debitore e, laddove alla domanda di concordato preventivo sia seguita la dichiarazione di fallimento, l’art. 69 bis, comma 2, l.f. prevede la retrodatazione del termine iniziale di decorrenza del c.d. “periodo sospetto” al giorno della pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese. 

Rappresentano circostanze che consentono di fondare l’accertamento della scientia decoctionis la mancanza di contestazioni da parte della debitrice circa l’esistenza dei crediti azionati, l’accettazione da parte della creditrice di pagamenti rateali del debito a fronte della disponibilità di un titolo giudiziale esecutivo, l’inadempimento della debitrice rispetto ai primi due piani di rientro accordati ed il pagamento del terzo piano di rientro mediante cambiali (conf. Cass. n. 24937/2007). 

La prova della scientia decoctionis non è ricavabile dalla mera esistenza di esecuzioni individuali in quanto non soggette a forme pubblicitarie. Siffatta prova può essere raggiunta attraverso la dimostrazione della diffusione di notizie sulla situazione di dissesto in cui versa una società di rilevanti dimensioni in considerazione dell’elevatissimo numero di procedure esecutive incardinate tra gli operatori del settore territorialmente contigui (conf. Cass. n. 5256/2010).

Principi espressi in caso di accoglimento della domanda ex art 67 l.f., con la quale il fallimento ha agito per la revoca di pagamenti eseguiti dalla società in bonis nel semestre anteriore alla pubblicazione nel registro delle imprese del ricorso per concordato preventivo c.d. “con riserva” presentato dalla società poi fallita. 

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Decreto del 3 dicembre 2020 – Presidente: Dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice estensore: Dott. Stefano Franchioni

Il credito vantato da Banca del Mezzogiorno-Mediocredito Centrale, quale gestore del Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese istituito con l. 662/96, art. 2, comma 100, lett. a), è assistito dal privilegio di cui all’art. 9, comma 5, del d.lgs. n. 123/1998 (con collocazione in privilegio rispetto a ogni altro titolo di prelazione da qualsiasi causa derivante, ad eccezione del privilegio per spese di giustizia e di quelli previsti dall’articolo 2751-bis c.c.) non solo nelle ipotesi di erogazione diretta del finanziamento ma anche qualora abbia prestato la garanzia (fideiussoria) prevista ex lege e la stessa sia stata escussa dall’ente di credito garantito a seguito dell’inadempimento del mutuatario e della conseguente revoca del mutuo da parte della banca. Ciò sulla base di un’interpretazione che valorizza la ratio fondante la richiamata previsione, che mira a recuperare il sacrificio patrimoniale che il sostegno pubblico ha in concreto sopportato in funzione dello sviluppo delle attività produttive anche per procurare la provvista per lo svolgimento di ulteriori e futuri sostegni allo sviluppo delle medesime (Cass. Civ. n. 14915/2019).

L’intervento di sostegno a mezzo di garanzia personale ai sensi del d.lgs. 123/1998 si apprezza, per qualità, in un tipo di rischio imprenditoriale non diverso da quello proprio della concessione dei mutui o comunque delle erogazioni dirette di somme all’impresa beneficiaria della protezione accordata dalla legge in discorso, con obbligo di restituzione delle somme medesime. Irrilevante si presenta la diversa conformazione strutturale delle due fattispecie, posto che l’assunzione di un impegno diretto da parte del garante nei confronti del terzo viene a determinare una posizione di rischio omologa a quello della consegna diretta delle somme nelle mani del mutuatario.

Al riconoscimento che gli interventi di sostegno pubblico in forma di concessione di garanzia godono del privilegio ex art. 9, comma 5, d.lgs. 123/1998 non è di ostacolo la constatazione che di tale privilegio non viene a disporre il creditore che ha erogato il mutuo (ovverosia, la banca mutuataria) e che è avvantaggiato dalla garanzia. Non vi è infatti alcuna necessità – sotto il profilo strutturale, come pure sotto quello logico – che la posizione del creditore garantito si avvantaggi di un privilegio, perché di un privilegio possa disporre il garante: la posizione del creditore, cioè, non si pone come un medio logico inevitabile in proposito. Conformemente alla regula iuris dell’art. 2745 c.c., l’art. 9, comma 5, del d.lgs. 123/1998 riconosce il privilegio in ragione del sostegno pubblico che viene dato alle attività produttive consegnandolo al garante, che ha pagato la banca garantita (per il credito che questa vanta verso il debitore principale), in quanto destinatario finale del depauperamento patrimoniale connesso all’estinzione della relativa obbligazione: sarebbe disparità del tutto non giustificata, perciò, se l’intervento di garanzia non si giovasse del privilegio che pur assiste, nel contesto normativo del d.lgs. n. 123/1998, le altre forme di intervento poste a sostegno pubblico delle attività produttive (Cass. Civ. n. 2664/2019; Cass. Civ. n. 8882/2020; Cass. Civ. n. 11122/2020).

L’art. 8-bis del d.l. 3/2015 (conv. in l. 33/2015), nel riconoscere il privilegio anche al diritto alle restituzioni spettanti ai terzi prestatori di garanzie, non va considerato nè come una disposizione di interpretazione autentica, e dunque retroattiva, nè come disposizione innovativa: si tratta semplicemente di una disposizione ripetitiva, e confermativa, del regime già vigente (Cass. Civ. n. 14915/2019).

Ai sensi dell’art. 2749 c.c. (richiamato dall’art. 54, comma 3, l. fall.), il privilegio accordato al credito si estende anche agli interessi dovuti per l’anno in corso alla data del pignoramento (ovvero, alla data del fallimento) e per quelli dell’anno precedente; trattandosi di privilegio generale, ai sensi dell’art. 54, comma 3, l.fall., il decorso degli interessi, nei limiti della misura legale, cesserà alla data del deposito del progetto di riparto nel quale il credito sarà soddisfatto anche se parzialmente. La misura legale, alla quale rinvia l’art. 2749, comma 2, c.c. ai fini dell’individuazione dei limiti della collocazione privilegiata del credito per interessi, deve intendersi riferita non già al saggio d’interesse stabilito dalla legge che disciplina il singolo credito, ma a quello previsto in via generale dall’art. 1284 c.c. (Cass. Civ. n. 13458/2014; Cass. Civ. n. 16084/2012).

Principi espressi in un giudizio di opposizione allo stato passivo promosso dall’Agenzia delle Entrate, per conto di Banca del Mezzogiorno-Mediocredito Centrale che, quale gestore del Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese istituito con l. 662/96 – art. 2, comma 100, lett. a) – aveva garantito per il 50% il finanziamento erogato da un intermediario bancario alla società fallita (all’epoca in bonis).

Il Tribunale, sulla scorta dei superiori principi e in riforma dell’originario provvedimento del Giudice Delegato, ha ammesso il credito in privilegio ex art. 9, comma 5 del d.lgs. n. 123/1998, collocando in pari grado anche agli interessi dovuti per l’anno in corso alla data del fallimento e per l’anno precedente nonché a quelli maturandi, nei limiti della misura legale, sino alla data del deposito del progetto di riparto nel quale il credito sarà soddisfatto anche solo parzialmente.

(Massime a cura di Filippo Casini)




Decreto del 29 ottobre 2020 – Presidente: Dott. Gianluigi Canali – Giudice relatore: Dott. Stefano Franchioni

Posto che il decreto ingiuntivo acquista efficacia di giudicato formale e sostanziale solo nel momento in cui il giudice, dopo averne controllato la notificazione, lo dichiari esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c. e che tale operazione consiste in una vera e propria attività giurisdizionale di verifica del contraddittorio che si pone come ultimo atto del giudice all’interno del processo d’ingiunzione e a cui non può surrogarsi il giudice delegato in sede di accertamento del passivo, va esclusa l’opponibilità alla procedura fallimentare del decreto ingiuntivo non munito, prima del fallimento, della dichiarazione di esecutorietà ex art. 647 c.p.c., non rilevando l’avvenuta concessione della provvisoria esecutività ex art. 642 c.p.c. o la mancata tempestiva opposizione alla data della pronuncia di fallimento, eventualmente attestata dal cancelliere.

Il decreto ingiuntivo non munito, prima della dichiarazione di fallimento, del decreto di esecutorietà non è opponibile al fallimento, neppure nell’ipotesi in cui il decreto ex art. 647 c.p.c. venga emesso successivamente, tenuto conto del fatto che, intervenuto il fallimento, ogni credito deve essere accertato nel concorso dei creditori ai sensi dell’art. 52 l.f.

Se pure si concedesse che i titolari di un diritto d’ipoteca sui beni compresi nel fallimento costituiti in garanzia per crediti vantati verso debitori diversi dal fallito possano avvalersi del procedimento di verificazione dello stato passivo, l’accertamento avrebbe comunque ad oggetto esclusivamente la validità ed efficacia della garanzia ipotecaria e la misura di partecipazione al riparto delle somme ricavate dalla liquidazione dei beni gravati dall’ipoteca e non il credito del ricorrente ai fini della sua ammissione al passivo tra i creditori concorrenti.

Principi espressi nell’ambito di un procedimento di opposizione allo stato passivo in cui il creditore chiedeva il riconoscimento del privilegio ipotecario in mancanza di decreto ex art. 647 c.p.c. emesso in data anteriore al fallimento.

(Massime a cura di Giulia Ballerini)




Decreto del 3 settembre 2020 – Presidente: Dott. Gianluigi Canali – Giudice relatore: Dott. Stefano Franchioni

Ai sensi dell’art. 61, comma 2, l.f., il “regresso tra i coobbligati falliti può essere esercitato solo dopo che il creditore sia stato soddisfatto integralmente”. Ne consegue che il regresso verso il fallito è consentito non solo all’altro coobbligato fallito (come testualmente recita la norma), ma anche agli altri coobbligati (o fideiussori) in bonis che abbiano integralmente estinto le ragioni di credito del creditore comune, atteso che la posizione del creditore che, pur ricevendo parzialmente il pagamento da un coobbligato fallito, mantiene il diritto ad ottenere l’intero negli altri fallimenti, è sostanzialmente identica a quella del creditore che, dopo la dichiarazione di fallimento, riceve un pagamento parziale da un coobbligato (o fideiussore) in bonis.

L’art. 61, comma 2, l.f. risponde all’esigenza di assicurare la stabilità della situazione esistente al momento della dichiarazione di fallimento, mantenendola ferma fino a che il credito principale non scompaia per intero dal passivo, onde evitare che si creino, per effetto dei pagamenti da parte dei coobbligati e dell’esercizio dell’azione di regresso contro i falliti, duplicazioni di concorso dello stesso credito nel passivo, con conseguenti duplicazioni di accantonamenti in sede fallimentare a favore di una stessa pretesa creditoria, tali da comportare una diminuzione della massa ripartibile fra gli altri creditori. 

È rilevante, ai fini dell’ammissibilità tanto della surrogazione quanto del regresso, che l’adempimento risulti integrale ex parte creditoris, cioè idoneo ad estinguere la pretesa che il creditore comune abbia insinuato o possa insinuare al passivo del fallimento, indipendentemente dal fatto che, attraverso il pagamento, il coobbligato abbia totalmente assolto la propria obbligazione. Diversamente opinando, potrebbe risultare pregiudicato lo stesso diritto del creditore comune di vedere soddisfatto sul ricavato il credito che residua all’esito del pagamento effettuato dal coobbligato, in contrasto con il principio, ribadito dall’art. 61, comma 1, per l’ipotesi di fallimento di uno o più coobbligati e dall’art. 62, comma 1, per l’ipotesi di pagamento parziale eseguito anteriormente alla dichiarazione di fallimento, secondo cui nelle obbligazioni solidali il creditore può agire nei confronti di ciascuno dei coobbligati fino alla completa soddisfazione del proprio credito (conf. Cass. n. 3216/2012).

L’insinuazione del creditore rimane inalterata fino al suo integrale pagamento con conseguente irrilevanza, ai fini della partecipazione al concorso, degli adempimenti parziali eseguiti dal coobbligato (o dal fideiussore) successivamente alla dichiarazione di fallimento, ancorché idonei ad esaurire l’obbligazione del solvens (conf. Cass. n. 26003/2018). 

Principi espressi relativi al rigetto di opposizione allo stato passivo: il Tribunale ha affermato che l’art. 61 l.f. è disposizione speciale che disciplina il concorso tra i coobbligati in caso di fallimento del debitore comune, con la conseguenza che il pagamento solamente parziale (ex parte creditoris) è inidoneo a fondare l’ammissione al passivo tanto in via surrogatoria che in via di regresso, giacché l’adempimento deve essere  integrale e idoneo a estinguere le pretese che il creditore comune abbia insinuato o possa insinuare al passivo del fallimento, indipendentemente dal fatto che, con il pagamento, il coobbligato abbia assolto alla propria obbligazione.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza del 20 maggio 2020 – Giudice designato: Dott. Stefano Franchioni

La conoscenza dello stato d’insolvenza dell’imprenditore da parte del terzo, che deve essere effettiva e non meramente potenziale, può essere provata dal curatore, sul quale incombe il relativo onere, tramite presunzioni gravi, precise e concordanti, ex artt. 2727 e 2729 c.c.

Principi espressi nell’ambito di un procedimento in cui il fallimento di una s.r.l. conveniva in giudizio il creditore per ottenere la revoca, ai sensi dell’art. 67, comma 2, l.f., del pagamento effettuato dalla società in bonis a favore dello stesso nel semestre anteriore alla dichiarazione di fallimento.

(Massima a cura di Giulia Ballerini)




Sentenza del 3 gennaio 2020 – Giudice designato: Dott. Stefano Franchioni

In tema di revocatoria fallimentare la cessione del credito (nella specie, per rimborso IVA) in funzione solutoria – quando non sia prevista al momento del sorgere dell’obbligazione ovvero non sia attuata nell’ambito della disciplina della cessione dei crediti di impresa di cui alla l. 21 febbraio 1991, n. 52 – integra sempre gli estremi di un mezzo anormale di pagamento, indipendentemente dalla certezza di esazione del credito ceduto (Cass. Civ. n. 25284/2013). Qualora la cessione del credito non sia stata prevista ab origine come modalità di pagamento, si tratta di una cessione in funzione solutoria capace di rilevare quale mezzo anomalo di estinzione di un debito scaduto ed esigibile.

Nelle fattispecie revocatorie di cui all’art. 67, comma 1, l. fall. sussiste una presunzione iuris tantum della conoscenza dello stato di insolvenza del debitore da parte dell’accipiens convenuto, per cui spetta a quest’ultimo provare la non conoscenza dello stato d’insolvenza (c.d. inscientia decotionis) attraverso la positiva dimostrazione che, nel momento in cui è stato posto in essere l’atto revocabile, sussistessero circostanze tali da fare ritenere ad una persona di ordinaria prudenza ed avvedutezza che l’imprenditore si trovava in una situazione di normale esercizio dell’impresa (Cass. Civ. n. 23424/2016; Cass. Civ. n. 17998/2009).

Principi espressi in un giudizio di revocatoria fallimentare promosso nei confronti di un professionista che si era reso cessionario pro soluto di un credito IVA vantato dalla società (all’epoca) in bonis, a titolo di parziale pagamento dei propri compensi per attività di “assistenza alla ristrutturazione e riorganizzazione aziendale”. Qualificata la cessione del credito quale mezzo non normale di pagamento, si è ritenuto che la parte convenuta non aveva provato l’inscientia decoctionis in quanto si era limitata ad allegare l’assenza di protesti cambiari e di procedure esecutive mobiliari e/o immobiliari a carico della società poi fallita. A riprova della conoscenza dello stato di insolvenza, si è invece valorizzato il fatto che proprio al professionista era stato conferito mandato per l’attuazione di un progetto di risanamento aziendale e che da un’istanza di fallimento, promossa nei confronti della società e nota al professionista convenuto, risultava l’intervenuta notifica di un decreto ingiuntivo nonché una rilevante esposizione debitoria nei confronti di un ente di credito.

(Massime a cura di Filippo Casini)




Sentenza del 26 ottobre 2019 – Giudice designato: Dott. Stefano Franchioni

La ratio della revocatoria fallimentare di cui all’art. 67 l. fall. è quella di tutelare la par condicio creditorum attraverso la ricostituzione del patrimonio dell’impresa, eventualmente depauperato nel periodo antecedente al fallimento. 

Con l’esenzione di cui all’art. 67, comma 3, lett. a), l. fall. (che esclude dalla revocatoria “i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso”) si è inteso evitare che l’impresa in difficoltà si potesse trovare in una situazione di “isolamento” e paralisi, ma ciò limitatamente ai beni e servizi strumentali all’esercizio dell’ordinaria attività tipica, non potendosi estendere l’esenzione ad ogni pagamento tempestivamente effettuato con mezzi normali per qualsivoglia obbligazione contratta dall’imprenditore.

Con l’esenzione di cui all’art. 67, comma 3, lett. f), l. fall. (che esclude dalla revocatoria “i pagamenti dei corrispettivi per prestazioni di lavoro effettuate da dipendenti ed altri collaboratori, anche non subordinati, del fallito”) si è inteso tutelare, oltre ai dipendenti, i creditori privilegiati per prestazioni di lavoro rese personalmente con particolare riferimento, a titolo esemplificativo, ai professionisti ex art. 2751-bis, comma 1, n. 2, c.c., agli agenti ex art. 2751-bis, comma 1, n. 3, c.c. (per questi ultimi è possibile sostenere anche l’applicabilità della lett. a), nonché ai lavoratori parasubordinati.

La conoscenza dello stato di insolvenza da parte del terzo contraente, rilevante ai fini della revocatoria ex art. 67, comma 2, l. fall., deve sì essere effettiva, ma può essere provata anche con indizi e fondata su elementi di fatto, purché idonei a fornire la prova per presunzioni di tale effettività (ex multis, Cass. Civ. n. 3854/2019).

I principi sono stati espressi nel giudizio promosso da un fallimento nei confronti di un fornitore per ottenere la revocatoria ex art. 67, comma 2, l. fall. di un pagamento eseguito nel semestre anteriore alla dichiarazione di fallimento. Parte convenuta aveva eccepito la non revocabilità del pagamento ai sensi dell’art. 67, comma 3, lett. a) e f), l. fall.

Si è esclusa l’esenzione di cui all’art. 67, comma 3, lett. a), l. fall. atteso che il servizio fornito dalla convenuta (analisi di eventuali anomalie nei contratti di leasing e finanziamento) era estraneo all’ordinaria attività della società poi fallita (commercio di calzature sanitarie e prodotti accessori) con la conseguenza che il relativo pagamento non poteva essere ritenuto irrevocabile ai sensi della disposizione invocata per il solo fatto di essere stato effettuato nei termini e tramite bonifico bancario.

Si è altresì esclusa l’esenzione di cui all’art. 67, comma 3, lett. f), l. fall. atteso che parte convenuta (società per azioni) con cui la società fallita era entrata in contatto per la prima volta in prossimità del fallimento e che per sua stessa ammissione si è avvalsa di soggetti esterni per l’espletamento dell’incarico, non poteva essere considerata un “collaboratore” della fallita ai sensi della richiamata disposizione.

Sulla scorta di dichiarazioni testimoniali e dalle informazioni riportate negli appunti scritti da una collaboratrice esterna della società convenuta (e a questa trasmessi) si è ritenuta accertata la sussistenza di indizi gravi, precisi e concordanti circa la conoscenza dello stato di insolvenza della società poi fallita.

(Massime a cura di Filippo Casini)