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Tribunale di Brescia, sentenza del 23 gennaio 2023, n. 126 – contratto di locazione finanziaria, fallimento dell’utilizzatore in pendenza del contratto e scioglimento dello stesso, obblighi restitutori

In caso di fallimento dell’utilizzatore di un contratto di locazione finanziaria, se il curatore fallimentare richiede lo scioglimento del contratto ai sensi del combinato disposto degli artt. 72 l. fall. comma primoe 72-quater comma primo, il concedente ha diritto alla restituzione del bene oggetto del contratto.

Non si può rimettere all’arbitrio del concedente la scelta se vendere o meno il bene restituito, rendendo così, nella seconda ipotesi, inapplicabile il dettato dell’art. 72-quater l. fall., frustrando di conseguenza il diritto del conduttore fallito e quindi della procedura.

Inoltre, il concedente è comunque obbligato a riconoscere al fallimento il valore indicato dall’art.  72-quater, comma terzo, l. fall., anche se la vendita o altre modalità di collocazione del bene non si sono verificate a causa della negligenza del concedente.

La finalità della procedura di realizzazione del valore di cui all’art. 72-quater, comma terzo, l. fall. è di operare una comparazione di valori tra il credito residuo del concedente ed il valore residuo del bene stesso, in quanto con tale differenza si intende sia soddisfare il credito residuo del concedente sia destinare al fallimento l’ulteriore somma che eventualmente dovesse rimanere. Pertanto, è del tutto irrilevante che tale disposizione non preveda un termine per la vendita, non potendo il concedente procrastinare arbitrariamente la vendita o collocazione del bene, specie in casi in cui il valore residuo del bene ecceda di gran lunga il credito residuo del concedente, poiché, altrimenti, impedirebbe al fallimento, con un comportamento contrario a buona fede, di esercitare il diritto garantito dalla disposizione a riscuotere la differenza.

Principi espressi nel corso di un giudizio in appello avviato da una società di leasing (concedente) per un’asserita errata interpretazione da parte del giudice di prime cure dell’art. 72 – quater, comma terzo, l. fall.

(Massime a cura di Giovanni Gitti)




Tribunale di Brescia, sentenza del 15 dicembre 2022, n. 3032 – società a responsabilità limitata, fallimento, azione di responsabilità amministratore, art. 2476 c.c.

Per l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore di una società di capitali non è sufficiente invocare genericamente il compimento di atti di “mala gestio” e riservare una più specifica descrizione di tali comportamenti nel corso del giudizio, atteso che per consentire alla controparte l’approntamento di adeguata difesa, nel rispetto del principio processuale del contraddittorio, la “causa petendi” deve sin dall’inizio sostanziarsi nell’indicazione dei comportamenti asseritamente contrari ai doveri imposti agli amministratori dalla legge o dallo statuto sociale. Ciò vale tanto che venga esercitata un’azione sociale di responsabilità quanto un’azione dei creditori sociali, perché anche la mancata conservazione del patrimonio sociale può generare responsabilità non già in conseguenza dell’alea insita nell’attività di impresa, ma in relazione alla violazione di doveri legali o statutari che devono essere identificati già nella domanda nei loro estremi fattuali (cfr. Cass n. 23180/2013 e Cass. n. 28669/2013). Tale onere di specifica allegazione si estende a tutti gli elementi costitutivi dell’azione di responsabilità sicché l’attore deve fornire indicazioni altrettanto puntuali in ordine all’esistenza del danno, del suo ammontare e del fatto che esso sia stato causato dal comportamento illecito di un determinato soggetto (cfr. Cass. n. 7606/2011).

Costituisce violazione degli obblighi di corretta gestione societaria, azionabile in via risarcitoria dalla curatela fallimentare, il comportamento degli amministratori che, sia negli anni anteriori alla messa in liquidazione della società che successivamente, hanno sistematicamente omesso di provvedere al regolare pagamento dei debiti tributari e contributivi, in tal modo palesando la loro incapacità di correttamente gestire le risorse finanziare sociali ed arrecando pregiudizio al patrimonio sociale, quantificabile nell’aggravio del debito originario, aumentato per accessori, sanzioni, interessi e somme aggiuntive.

L’omessa rilevazione della perdita del capitale sociale e la conseguente prosecuzione indebita dell’attività di impresa, con conseguente aggravio del deficit comportano, per giurisprudenza ormai costante (recepita d’altronde dall’art. 2486, comma terzo, nuovo testo, c.c.), la responsabilità risarcitoria degli amministratori per un importo coincidente – di norma – proprio con l’incremento del deficit patrimoniale (al netto, peraltro, dei cc.dd. costi normali di liquidazione), secondo il noto criterio della differenza fra netti patrimoniali. Tuttavia, l’effettivo aggravio del deficit non può, come ovvio, ritenersi coincidente col mero dato dell’incremento del debito bancario, che potrebbe essere, in ipotesi, opportunamente bilanciato dall’incremento di poste attive (o dalla corrispondente diminuzione di altre poste passive).

Princìpi espressi in relazione ad una causa promossa dal fallimento di una società a responsabilità limitata che ha convenuto in giudizio gli amministratori della stessa per ottenerne la condanna, in solido, al risarcimento dei danni cagionati alla società, poi fallita, in conseguenza di vari atti di mala gestio compiuti.

(Massime a cura di Carola Passi)




Sentenza del 23 novembre 2021, n. 2862 – Giudice designato: Dott. Gianluigi Canali

Il termine decadenziale per l’esperimento
dell’azione revocatoria fallimentare – nel caso in cui alla domanda di
concordato preventivo faccia seguito la dichiarazione di fallimento – ai sensi
dell’art. 69-bis, secondo comma, l. fall. decorre dalla
data di pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese. La disciplina in questione non opera alcuna distinzione tra
l’ipotesi in cui la domanda di concordato preventivo venga poi omologata, e
segua comunque il fallimento, ovvero l’ipotesi in cui la domanda di concordato
sia invece rigettata, o rinunciata dall’istante stesso. Tuttavia,
la retrodatazione non opera quando l’insolvenza, posta alla base della
dichiarazione di fallimento, non sia quella sussistente alla data del deposito
della domanda di concordato (conf. Cass. 9290/2018). Tale circostanza si
verifica quando, dopo che la domanda di concordato sia stata rinunciata o
respinta, l’impresa continui a svolgere la propria attività tipica e riesca a
recuperare la capacità di far fronte alle proprie obbligazioni. Pertanto, la
successiva dichiarazione di fallimento sarebbe fondata su di una successiva e
diversa insolvenza che nulla avrebbe a che vedere con l’insolvenza precedente.

In tema di azione revocatoria
fallimentare, l’estinzione di un’obbligazione da parte del debitore mediante la
cessione di un bene di valore superiore al proprio debito costituisce una datio
in solutum
, qualificabile come mezzo anormale di pagamento e quindi
revocabile ai sensi dell’art. 67, primo comma, n. 2, l. fall.

Nel caso
di datio in solutum,il soccombente nell’azione di revocatoria fallimentare è tenuto a
restituire i beni oggetto dell’atto inefficace oppure, qualora tali beni siano
stati alienati a terzi, a corrisponderne l’equivalente pecuniario, secondo il
valore che i beni avevano all’atto della stipula. Ciò premesso, nell’ipotesi di esperimento dell’azione revocatoria nei
casi di cui al primo e secondo comma dell’art. 67 della l. fall., l’atto oggetto
della revocatoria è originariamente valido ed efficace e, a seguito
dell’accoglimento dell’azione, diviene privo di effetti nei confronti della
massa fallimentare. In ragione della natura di azione costitutiva, avente ad
oggetto l’esercizio di un diritto potestativo e non di un diritto di credito,
l’obbligazione restitutoria pecuniaria nascente dalla revocatoria stessa, in
dipendenza della natura dell’atto revocato, non ha ad oggetto un debito di
valore, ma un debito di valuta. Ne consegue che gli interessi sulla somma da
restituire decorrono dalla domanda giudiziale e che il risarcimento del maggior
danno conseguente al ritardo con cui sia stata restituita la somma di denaro,
oggetto della revocatoria, è dovuto solo ove l’attore alleghi specificamente
tale danno e dimostri di averlo subito (conf. Cass. n. 887/2006; Cass. n.
12736/2011; Cass. n. 12850/2018).

I principi sono stati espressi nel
giudizio promosso dalla curatela fallimentare, nei confronti del venditore, per
ottenere la revocatoria
ex art.
67, primo comma, n. 2, l. fall. della
datio in solutum effettuata nell’anno
anteriore alla procedura di concordato, successivamente dichiarata estinta. La
parte convenuta aveva eccepito la non revocabilità dell’atto ai sensi dell’art.
69-
bis, secondo comma, l. fall. e, altresì, che l’operazione commerciale
posta in essere dovesse essere qualificata come regolare compravendita con
compensazione del prezzo e non come
datio in solutum.  

Il Tribunale giudicava ammissibile l’azione
ai sensi dell’art. 69-
bis, secondo
comma, l. fall., atteso che l’originaria insolvenza, che aveva determinato la
dichiarazione di fallimento, non era stata eliminata attraverso operazioni sul
capitale o facendo ricorso agli utili prodotti dall’attività d’impresa, e che
siffatta insolvenza fosse già esistente alla data di presentazione della
domanda di concordato.

Per altro verso, il Tribunale
riteneva che la vendita e la successiva stipulazione dell’accordo compensativo costituissero,
congiuntamente considerati, una
datio in
solutum e, dunque, in quanto mezzo anormale di pagamento, rilevava che la
parte convenuta non aveva provato la non conoscenza dello stato di insolvenza, in
quanto si era limitata ad affermare che il mancato pagamento fosse dovuto ad un
disguido momentaneo, ma non aveva, al riguardo, fornito elementi concreti di
riscontro. A riprova della conoscenza dello stato di insolvenza, veniva dato rilievo
alla circostanza per cui il ritardo del pagamento del debitore si era protratto
per cinque mensilità.

Il Tribunale revocava ai sensi
dell’art. 67, primo comma, l. fall. la vendita dei beni effettuata a favore
della convenuta e, poiché detti beni non erano più nella sua disponibilità, la
condannava al pagamento della somma dovuta oltre interessi legali dalla domanda
al saldo escludendo la rivalutazione, poiché la parte istante non aveva
allegato la sussistenza del maggior danno
ex art. 1224, secondo comma, c.c.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Decreto del 28 ottobre 2021 – Presidente: Dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice relatore: Dott. Gianluigi Canali

In tema di ammissione allo stato
passivo, colui che agisce per l’adempimento deve provare la sussistenza del
titolo e allegare l’esecuzione della prestazione promessa. Nell’ipotesi in cui
il debitore eccepisca il mancato o inesatto adempimento, il creditore deve
dimostrare di avere esattamente adempiuto la propria prestazione. Di
conseguenza, il creditore che chieda di essere ammesso allo stato passivo fallimentare
deve dimostrare la sussistenza di un vincolo contrattuale e allegare, con la
necessaria precisione, la prestazione eseguita.

Il riconoscimento di un credito nei confronti
del fallito è soggetto all’applicazione dell’art. 2704 c.c., ai fini dell’opponibilità
alla massa dei creditori. La carenza probatoria può, tuttavia, ritenersi
superata, qualora il debitore non contesti l’attività prestata dal creditore.

In relazione alla possibilità di
superare l’onere di allegazione attraverso la produzione documentale, il
giudice ha il potere-dovere di esaminare i documenti prodotti dalla parte solo
nel caso in cui la parte, interessata, ne faccia specifica istanza, esponendo
nei propri scritti difensivi gli scopi della relativa esibizione con riguardo
alle sue pretese, derivandone altrimenti per la controparte la impossibilità di
controdedurre ed essendo per lo stesso giudice impedita la valutazione delle
risultanze probatorie e dei documenti ai fini della decisione (conf. Cass. n.
8304/1990). Nel vigente ordinamento processuale, caratterizzato dall’iniziativa
della parte e dall’obbligo del giudice di rendere la propria pronunzia nei
limiti delle domande delle parti, al giudice è inibito trarre dai documenti,
comunque esistenti in atti,
deduzioni o indicazioni, necessarie ai fini della decisione, ove queste non
siano specificate nella domanda, o – comunque – sollecitate dalla parte
interessata (conf. Cass. n. 1419/1994; Cass. n. 1385/1995). Affinché il giudice
possa e debba esaminare i documenti versati in atti lo stesso deve accertare,
oltre la ritualità della produzione, ovvero che la produzione sia avvenuta nel
rispetto delle regole del contraddittorio, anche l’esistenza di una domanda, o
di un’eccezione, espressamente basata su tali documenti (conf. Cass. n. 15103/2000;
Cass. S.U. n. 2435/2008).

Il professionista incaricato
di redigere un accordo di ristrutturazione o una domanda di concordato deve –
qualora il piano non abbia alcuna possibilità di conferire ai creditori un’utilità
maggiore di quella che avrebbero conseguito con il fallimento – consigliare al
mandante di chiedere il fallimento in proprio, salvo che i soci non siano
disponibili a ricapitalizzare la società. Se il professionista collabora con
l’imprenditore per posticipare il fallimento sapendo che non vi è alcuna
possibilità di giungere alla formulazione di un piano accettabile dai
creditori, oltre al rischio di concorrere nel reato di bancarotta per
aggravamento del dissesto, pone in essere un inadempimento gravissimo, con
conseguente risoluzione dell’incarico professionale e obbligo di risarcire il
danno cagionato ai creditori e alla società.

Principi
espressi nel giudizio di opposizione
ex art. 98 l. fall. promosso dal creditore, nel caso di specie, un
professionista, avverso il decreto che aveva dichiarato inammissibile l’istanza
di ammissione allo stato passivo fallimentare, posto che l’istante non aveva né
allegato né provato le prestazioni effettuate. Il Tribunale di Brescia confermava la decisione del Giudice delegato,
ritenuto non assolto, da parte del professionista, l’onore di provare in modo
specifico e puntuale la concreta attività prestata a favore della
società fallita ai fini della liquidazione, secondo la tariffa professionale. L’opponente
si limitava, infatti, a produrre un mandato professionale privo di data certa
e, quindi, inopponibile
ex art. 2704 c.c. alla massa dei creditori. Osservava il Tribunale che la
domanda, anche a prescindere dai suddetti rilievi, sarebbe comunque stata rigettata,
poiché il creditore avrebbe dovuto provare l’adempimento e, quindi, avrebbe dimostrare
la concreta realizzabilità del piano.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Decreto del 16 settembre 2021 – Presidente: Dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice relatore: Dott. Gianluigi Canali

In tema di locazione finanziaria, la
dichiarazione di fallimento dell’utilizzatore comporta la sospensione ex
lege
dell’esecuzione del contratto sino a quando il curatore, con
l’autorizzazione del comitato dei creditori, dichiari di subentrare nel
contratto, assumendone i relativi obblighi, ovvero di recedere, con conseguente
risoluzione del contratto e obbligo di restituzione del bene. Tale sospensione,
quindi, opera ex lege e si protrae sino alla dichiarazione del curatore
o sino al momento in cui il giudice delegato, su richiesta dello stesso
contraente in bonis, assegniato al curatore un termine – massimo 60
giorni – per decidere sull’eventuale subentro.

In ambito di locazione finanziaria,
la curatela: i) se subentra nel contratto è tenuta a pagare in
prededuzione, tutte le obbligazioni derivanti dal contratto stesso, comprese
quelle maturate nel periodo di sospensione; ii) se, invece, dichiara di
sciogliersi dal contratto, si determina nella sostanza una risoluzione che ha
effetto ex tunc del rapporto pendente. Secondo quanto disposto dal secondo
comma dell’art. 72 quater l. fall., va escluso che il concedente possa
pretendere il pagamento dei canoni maturati tra la dichiarazione di fallimento
e la restituzione del bene. La sospensione, difatti, è disposta a favore della
curatela, al fine di consentir al curatore la valutazione in ordine alla
convenienza del contratto e della sua prosecuzione; nel corso della sospensione
– in quanto periodo di quiescenza del rapporto – non sussiste, se non disposto
diversamente, l’obbligo di corrispondere alcunché. La conferma di ciò si
rinviene, nell’art. 72 quater l. fall., il quale, disciplinando gli
effetti economici e le conseguenze nel rapporto creditorio con il concedente
del mancato subentro, si limita a disporre che in caso di scioglimento del
contratto, il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a
versare alla curatela l’eventuale differenza tra la maggiore somma ricavata
dalla vendita o da altra collocazione del bene stesso, avvenuta a valori di
mercato, rispetto al credito residuo in linea capitale. Il concedente ha
diritto ad insinuarsi nello stato passivo per la differenza tra il credito
vantato alla data del fallimento e quanto ricavato dalla nuova allocazione del
bene. Infine, va osservato come naturalmente
sussista onere del pagamento in favore della concedente qualora il curatore
ritenga conveniente l’esercizio del diritto di riscatto del bene rispetto all’utilità
del bene ed alle condizioni contrattuali.

Principi
espressi nel giudizio di opposizione ex art. 98 l. fall. promosso dal
creditore, nel caso di specie, una banca, avverso il decreto che aveva
dichiarato inammissibile l’istanza
ex art. 101 l. fall. di insinuazione in prededuzione, posto che il la curatela
fallimentare non aveva mai occupato l’immobile e che il corrispettivo per
l’esercizio del diritto di riscatto non era dovuto.

Il Tribunale
di Brescia, a conferma della decisione del Giudice delegato, respingeva
l’opposizione, poiché:
a) per il periodo intercorrente tra la dichiarazione di fallimento e la
comunicazione da parte del curatore della volontà di sciogliersi dal contratto,
nulla spettava all’opponente ai sensi del secondo comma dell’art. 72-
quater l. fall.; b) per il periodo compreso tra lo scioglimento
del contratto e la restituzione del bene, nulla poteva essere riconosciuto a
titolo di risarcimento del danno, posto che il ritardo nella riconsegna risultava
ascrivibile alla responsabilità esclusiva dell’opponente;
c)
nessun credito era sorto in capo alla società di leasing, atteso che
il contratto prevedeva il pagamento della somma richiesta solamente nel caso in
cui l’opponente
avesse esercitato il diritto di riscatto e l’utilizzatrice
 fosse divenuta proprietaria del bene.

(Massima a cura di Simona Becchetti)




Decreto del 2 settembre 2021 – Presidente: Dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice relatore: Dott. Stefano Franchioni

Ai sensi dell’art. 81 l.f. il contratto d’appalto si scioglie per il fallimento di una delle parti se il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, non dichiara di voler subentrare nel rapporto dandone comunicazione all’altra parte nel termine di 60 giorni dalla dichiarazione di fallimento (conf. Cass. n. 3854/2019).

Principi espressi in caso di rigetto di opposizione allo stato passivo; il Tribunale ha evidenziato che il contratto di appalto non aveva ad oggetto la fornitura di merci, ma la consegna di un impianto elevatore. Nel dettaglio è stato osservato che non erano stati richiesti la rivendica del materiale fornito, il controvalore e neppure il riconoscimento del compenso per la parte di opera eseguita in proporzione al prezzo pattuito per l’intera opera. 

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Sentenza del 5 gennaio 2021 – Giudice designato: Dott. Stefano Franchioni

Ai sensi dell’art. 67, comma 2, l.f. sono revocati i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili compiuti entro sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento, se la curatela dimostra che l’altra parte conosceva lo stato d’insolvenza del debitore e, laddove alla domanda di concordato preventivo sia seguita la dichiarazione di fallimento, l’art. 69 bis, comma 2, l.f. prevede la retrodatazione del termine iniziale di decorrenza del c.d. “periodo sospetto” al giorno della pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese. 

Rappresentano circostanze che consentono di fondare l’accertamento della scientia decoctionis la mancanza di contestazioni da parte della debitrice circa l’esistenza dei crediti azionati, l’accettazione da parte della creditrice di pagamenti rateali del debito a fronte della disponibilità di un titolo giudiziale esecutivo, l’inadempimento della debitrice rispetto ai primi due piani di rientro accordati ed il pagamento del terzo piano di rientro mediante cambiali (conf. Cass. n. 24937/2007). 

La prova della scientia decoctionis non è ricavabile dalla mera esistenza di esecuzioni individuali in quanto non soggette a forme pubblicitarie. Siffatta prova può essere raggiunta attraverso la dimostrazione della diffusione di notizie sulla situazione di dissesto in cui versa una società di rilevanti dimensioni in considerazione dell’elevatissimo numero di procedure esecutive incardinate tra gli operatori del settore territorialmente contigui (conf. Cass. n. 5256/2010).

Principi espressi in caso di accoglimento della domanda ex art 67 l.f., con la quale il fallimento ha agito per la revoca di pagamenti eseguiti dalla società in bonis nel semestre anteriore alla pubblicazione nel registro delle imprese del ricorso per concordato preventivo c.d. “con riserva” presentato dalla società poi fallita. 

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)




Decreto del 3 dicembre 2020 – Presidente: Dott.ssa Simonetta Bruno – Giudice estensore: Dott. Stefano Franchioni

Il credito vantato da Banca del Mezzogiorno-Mediocredito Centrale, quale gestore del Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese istituito con l. 662/96, art. 2, comma 100, lett. a), è assistito dal privilegio di cui all’art. 9, comma 5, del d.lgs. n. 123/1998 (con collocazione in privilegio rispetto a ogni altro titolo di prelazione da qualsiasi causa derivante, ad eccezione del privilegio per spese di giustizia e di quelli previsti dall’articolo 2751-bis c.c.) non solo nelle ipotesi di erogazione diretta del finanziamento ma anche qualora abbia prestato la garanzia (fideiussoria) prevista ex lege e la stessa sia stata escussa dall’ente di credito garantito a seguito dell’inadempimento del mutuatario e della conseguente revoca del mutuo da parte della banca. Ciò sulla base di un’interpretazione che valorizza la ratio fondante la richiamata previsione, che mira a recuperare il sacrificio patrimoniale che il sostegno pubblico ha in concreto sopportato in funzione dello sviluppo delle attività produttive anche per procurare la provvista per lo svolgimento di ulteriori e futuri sostegni allo sviluppo delle medesime (Cass. Civ. n. 14915/2019).

L’intervento di sostegno a mezzo di garanzia personale ai sensi del d.lgs. 123/1998 si apprezza, per qualità, in un tipo di rischio imprenditoriale non diverso da quello proprio della concessione dei mutui o comunque delle erogazioni dirette di somme all’impresa beneficiaria della protezione accordata dalla legge in discorso, con obbligo di restituzione delle somme medesime. Irrilevante si presenta la diversa conformazione strutturale delle due fattispecie, posto che l’assunzione di un impegno diretto da parte del garante nei confronti del terzo viene a determinare una posizione di rischio omologa a quello della consegna diretta delle somme nelle mani del mutuatario.

Al riconoscimento che gli interventi di sostegno pubblico in forma di concessione di garanzia godono del privilegio ex art. 9, comma 5, d.lgs. 123/1998 non è di ostacolo la constatazione che di tale privilegio non viene a disporre il creditore che ha erogato il mutuo (ovverosia, la banca mutuataria) e che è avvantaggiato dalla garanzia. Non vi è infatti alcuna necessità – sotto il profilo strutturale, come pure sotto quello logico – che la posizione del creditore garantito si avvantaggi di un privilegio, perché di un privilegio possa disporre il garante: la posizione del creditore, cioè, non si pone come un medio logico inevitabile in proposito. Conformemente alla regula iuris dell’art. 2745 c.c., l’art. 9, comma 5, del d.lgs. 123/1998 riconosce il privilegio in ragione del sostegno pubblico che viene dato alle attività produttive consegnandolo al garante, che ha pagato la banca garantita (per il credito che questa vanta verso il debitore principale), in quanto destinatario finale del depauperamento patrimoniale connesso all’estinzione della relativa obbligazione: sarebbe disparità del tutto non giustificata, perciò, se l’intervento di garanzia non si giovasse del privilegio che pur assiste, nel contesto normativo del d.lgs. n. 123/1998, le altre forme di intervento poste a sostegno pubblico delle attività produttive (Cass. Civ. n. 2664/2019; Cass. Civ. n. 8882/2020; Cass. Civ. n. 11122/2020).

L’art. 8-bis del d.l. 3/2015 (conv. in l. 33/2015), nel riconoscere il privilegio anche al diritto alle restituzioni spettanti ai terzi prestatori di garanzie, non va considerato nè come una disposizione di interpretazione autentica, e dunque retroattiva, nè come disposizione innovativa: si tratta semplicemente di una disposizione ripetitiva, e confermativa, del regime già vigente (Cass. Civ. n. 14915/2019).

Ai sensi dell’art. 2749 c.c. (richiamato dall’art. 54, comma 3, l. fall.), il privilegio accordato al credito si estende anche agli interessi dovuti per l’anno in corso alla data del pignoramento (ovvero, alla data del fallimento) e per quelli dell’anno precedente; trattandosi di privilegio generale, ai sensi dell’art. 54, comma 3, l.fall., il decorso degli interessi, nei limiti della misura legale, cesserà alla data del deposito del progetto di riparto nel quale il credito sarà soddisfatto anche se parzialmente. La misura legale, alla quale rinvia l’art. 2749, comma 2, c.c. ai fini dell’individuazione dei limiti della collocazione privilegiata del credito per interessi, deve intendersi riferita non già al saggio d’interesse stabilito dalla legge che disciplina il singolo credito, ma a quello previsto in via generale dall’art. 1284 c.c. (Cass. Civ. n. 13458/2014; Cass. Civ. n. 16084/2012).

Principi espressi in un giudizio di opposizione allo stato passivo promosso dall’Agenzia delle Entrate, per conto di Banca del Mezzogiorno-Mediocredito Centrale che, quale gestore del Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese istituito con l. 662/96 – art. 2, comma 100, lett. a) – aveva garantito per il 50% il finanziamento erogato da un intermediario bancario alla società fallita (all’epoca in bonis).

Il Tribunale, sulla scorta dei superiori principi e in riforma dell’originario provvedimento del Giudice Delegato, ha ammesso il credito in privilegio ex art. 9, comma 5 del d.lgs. n. 123/1998, collocando in pari grado anche agli interessi dovuti per l’anno in corso alla data del fallimento e per l’anno precedente nonché a quelli maturandi, nei limiti della misura legale, sino alla data del deposito del progetto di riparto nel quale il credito sarà soddisfatto anche solo parzialmente.

(Massime a cura di Filippo Casini)




Decreto del 29 ottobre 2020 – Presidente: Dott. Gianluigi Canali – Giudice relatore: Dott. Stefano Franchioni

Posto che il decreto ingiuntivo acquista efficacia di giudicato formale e sostanziale solo nel momento in cui il giudice, dopo averne controllato la notificazione, lo dichiari esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c. e che tale operazione consiste in una vera e propria attività giurisdizionale di verifica del contraddittorio che si pone come ultimo atto del giudice all’interno del processo d’ingiunzione e a cui non può surrogarsi il giudice delegato in sede di accertamento del passivo, va esclusa l’opponibilità alla procedura fallimentare del decreto ingiuntivo non munito, prima del fallimento, della dichiarazione di esecutorietà ex art. 647 c.p.c., non rilevando l’avvenuta concessione della provvisoria esecutività ex art. 642 c.p.c. o la mancata tempestiva opposizione alla data della pronuncia di fallimento, eventualmente attestata dal cancelliere.

Il decreto ingiuntivo non munito, prima della dichiarazione di fallimento, del decreto di esecutorietà non è opponibile al fallimento, neppure nell’ipotesi in cui il decreto ex art. 647 c.p.c. venga emesso successivamente, tenuto conto del fatto che, intervenuto il fallimento, ogni credito deve essere accertato nel concorso dei creditori ai sensi dell’art. 52 l.f.

Se pure si concedesse che i titolari di un diritto d’ipoteca sui beni compresi nel fallimento costituiti in garanzia per crediti vantati verso debitori diversi dal fallito possano avvalersi del procedimento di verificazione dello stato passivo, l’accertamento avrebbe comunque ad oggetto esclusivamente la validità ed efficacia della garanzia ipotecaria e la misura di partecipazione al riparto delle somme ricavate dalla liquidazione dei beni gravati dall’ipoteca e non il credito del ricorrente ai fini della sua ammissione al passivo tra i creditori concorrenti.

Principi espressi nell’ambito di un procedimento di opposizione allo stato passivo in cui il creditore chiedeva il riconoscimento del privilegio ipotecario in mancanza di decreto ex art. 647 c.p.c. emesso in data anteriore al fallimento.

(Massime a cura di Giulia Ballerini)




Decreto del 3 settembre 2020 – Presidente: Dott. Gianluigi Canali – Giudice relatore: Dott. Stefano Franchioni

Ai sensi dell’art. 61, comma 2, l.f., il “regresso tra i coobbligati falliti può essere esercitato solo dopo che il creditore sia stato soddisfatto integralmente”. Ne consegue che il regresso verso il fallito è consentito non solo all’altro coobbligato fallito (come testualmente recita la norma), ma anche agli altri coobbligati (o fideiussori) in bonis che abbiano integralmente estinto le ragioni di credito del creditore comune, atteso che la posizione del creditore che, pur ricevendo parzialmente il pagamento da un coobbligato fallito, mantiene il diritto ad ottenere l’intero negli altri fallimenti, è sostanzialmente identica a quella del creditore che, dopo la dichiarazione di fallimento, riceve un pagamento parziale da un coobbligato (o fideiussore) in bonis.

L’art. 61, comma 2, l.f. risponde all’esigenza di assicurare la stabilità della situazione esistente al momento della dichiarazione di fallimento, mantenendola ferma fino a che il credito principale non scompaia per intero dal passivo, onde evitare che si creino, per effetto dei pagamenti da parte dei coobbligati e dell’esercizio dell’azione di regresso contro i falliti, duplicazioni di concorso dello stesso credito nel passivo, con conseguenti duplicazioni di accantonamenti in sede fallimentare a favore di una stessa pretesa creditoria, tali da comportare una diminuzione della massa ripartibile fra gli altri creditori. 

È rilevante, ai fini dell’ammissibilità tanto della surrogazione quanto del regresso, che l’adempimento risulti integrale ex parte creditoris, cioè idoneo ad estinguere la pretesa che il creditore comune abbia insinuato o possa insinuare al passivo del fallimento, indipendentemente dal fatto che, attraverso il pagamento, il coobbligato abbia totalmente assolto la propria obbligazione. Diversamente opinando, potrebbe risultare pregiudicato lo stesso diritto del creditore comune di vedere soddisfatto sul ricavato il credito che residua all’esito del pagamento effettuato dal coobbligato, in contrasto con il principio, ribadito dall’art. 61, comma 1, per l’ipotesi di fallimento di uno o più coobbligati e dall’art. 62, comma 1, per l’ipotesi di pagamento parziale eseguito anteriormente alla dichiarazione di fallimento, secondo cui nelle obbligazioni solidali il creditore può agire nei confronti di ciascuno dei coobbligati fino alla completa soddisfazione del proprio credito (conf. Cass. n. 3216/2012).

L’insinuazione del creditore rimane inalterata fino al suo integrale pagamento con conseguente irrilevanza, ai fini della partecipazione al concorso, degli adempimenti parziali eseguiti dal coobbligato (o dal fideiussore) successivamente alla dichiarazione di fallimento, ancorché idonei ad esaurire l’obbligazione del solvens (conf. Cass. n. 26003/2018). 

Principi espressi relativi al rigetto di opposizione allo stato passivo: il Tribunale ha affermato che l’art. 61 l.f. è disposizione speciale che disciplina il concorso tra i coobbligati in caso di fallimento del debitore comune, con la conseguenza che il pagamento solamente parziale (ex parte creditoris) è inidoneo a fondare l’ammissione al passivo tanto in via surrogatoria che in via di regresso, giacché l’adempimento deve essere  integrale e idoneo a estinguere le pretese che il creditore comune abbia insinuato o possa insinuare al passivo del fallimento, indipendentemente dal fatto che, con il pagamento, il coobbligato abbia assolto alla propria obbligazione.

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)