Tribunale di Brescia, ordinanza del 26 agosto 2024 – marchio, registrazione in malafede, decadenza, contraffazione

La registrazione di un marchio in malafede, prevista dagli artt. 19, 2° co., c.p.i. e 59, 1° co., lett. b), reg. UE n. 1001/2017, costituisce una causa di nullità del segno che si verifica laddove il registrante, consapevole della legittima aspettativa di tutela di un terzo su un determinato segno distintivo, proceda alla sua registrazione al precipuo scopo di arrecare pregiudizio a tale soggetto, senza un effettivo utilizzo commerciale del marchio.

La decadenza del marchio per non uso non impedisce al titolare di domandarne una nuova registrazione, purché nel frattempo non sia stata depositata, da parte di terzi, domanda di registrazione del medesimo segno per i prodotti o servizi originariamente contraddistinti dal marchio decaduto, o non sia intervenuto il legittimo utilizzo effettivo dello stesso segno da parte di terzi.

La reiterazione della registrazione di un marchio decaduto per non uso non integra automaticamente un’ipotesi di registrazione in malafede, posto che tale condotta può essere considerata illegittima solamente nel caso in cui sia finalizzata esclusivamente a eludere la decadenza stessa (cfr. Cass. n. 24637/2008).

Sussiste contraffazione di un marchio registrato, ai sensi dell’art. 20, 1° co., lett. b), c.p.i., in caso di utilizzo da parte di terzi di un segno identico o simile a detto marchio per prodotti o servizi identici o affini, qualora possa sussistere un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni. La riproduzione di un marchio con marginali variazioni fonetiche (ad esempio, l’aggiunta di prefissi o la sostituzione di lettere), prive di effettiva capacità distintiva, non è sufficiente a escludere il rischio di confusione laddove permanga una sostanziale somiglianza tra i segni.

L’utilizzo non autorizzato di un marchio registrato può compromettere lo sfruttamento economico dello stesso, integrando il requisito del periculum in mora necessario per l’adozione di misure cautelari.

Principi espressi nell’ambito di un procedimento di reclamo promosso avverso l’ordinanza che aveva accolto le istanze cautelari formulate da una società a responsabilità limitata, volte a ottenere la descrizione e l’inibitoria: i) della produzione e commercializzazione di prodotti recanti marchi costituenti contraffazione di segni registrati, nonché ii) dell’utilizzo di segni interferenti con i marchi di titolarità dell’istante. Il Tribunale di Brescia ha, in larga parte, confermato il provvedimento impugnato.

(Massime a cura di Andrea Di Gregorio)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 30 luglio 2024, n. 893 – marchio, malafede, registrazione del marchio

La malafede nella registrazione di un marchio si concretizza esclusivamente qualora ricorrano elementi oggettivi e concordanti che dimostrino l’intento di pregiudicare gli interessi di terzi o di ottenere un diritto esclusivo per finalità estranee alla funzione distintiva del marchio stesso. La malafede non può, dunque, essere presunta dal mancato svolgimento di un’attività economica corrispondente ai prodotti e servizi indicati al momento della presentazione della domanda di registrazione, in quanto il richiedente non è tenuto a specificare né a conoscere con esattezza l’uso che intende fare del marchio richiesto; il richiedente dispone, difatti, di un termine pari a cinque anni per dare avvio a un uso effettivo del marchio, conforme alla sua funzione essenziale (Corte Giustizia Unione Europea, Sez. IV, 29/01/2020, n. 371/18).

La nuova registrazione di un marchio identico a quello oggetto di decadenza per il mancato utilizzo del segno nel quinquennio non implica automaticamente la sussistenza di malafede nella registrazione del nuovo marchio: il titolare del marchio decaduto ha, difatti, la facoltà di riprendere l’uso del segno, qualora quest’ultimo non sia stato medio tempore registrato o utilizzato da altri soggetti. Coerentemente, egli potrà validamente procedere a una nuova registrazione del marchio stesso (cfr. Cass. civ., Sez. I, n. 7970/2017).

La malafede nella registrazione di un marchio deve essere ravvisata nel comportamento di chi, eventualmente a conoscenza dell’utilizzo altrui del segno, depositi una domanda di registrazione di marchio senza l’intenzione reale di voler utilizzare quel segno, ma, sostanzialmente, per precludere ingiustificatamente ad altri di poterlo utilizzare sul mercato.

Il rischio di confusione per il pubblico dei consumatori può derivare dall’identità fonetica o da minime variazioni grafiche, come l’aggiunta di prefissi privi di autonoma capacità distintiva, che non alterano il nucleo semantico del marchio registrato.

Principi espressi nell’ambito di un procedimento cautelare promosso da una società a responsabilità limitata per chiedere la descrizione e l’inibitoria della produzione e commercializzazione, nonché il ritiro dal commercio, di dispositivi farmaceutici contraffattori. I resistenti si costituivano eccependo, inter alia, la sussistenza di malafede nella registrazione del marchio da parte del ricorrente.

(Massima a cura di Andrea Di Gregorio)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 12 giugno 2024 – insegna, nome a dominio, contraffazione di marchio registrato, inibitoria ex art. 131 c.p.i.

Il diritto di un imprenditore di mantenere  il proprio cognome all’interno dell’insegna sotto cui esercita l’attività commerciale e nella pagina internet utilizzata per  pubblicizzare detta attività trova il limite degli artt. 20 c.p.i. e 2564 c.c., norma, quest’ultima, applicabile all’insegna in forza dell’espresso richiamo contenuto nell’art. 2568 c.c. Ne consegue che a costui è inibito l’utilizzo di un’insegna che riproduca il marchio registrato da un’impresa concorrente in epoca anteriore, quand’anche si tratti di un marchio patronimico, corrispondente al suo cognome.

È consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui i marchi denominativi e gli altri segni distintivi contenenti lo stesso cognome sono, di regola, confondibili, anche in presenza di prenomi diversi o di altri elementi di differenziazione: il principio deriva dalla regola di esperienza per cui, salvo il caso di cognomi molto diffusi e/o già ampiamente utilizzati nello specifico settore di riferimento, i consumatori tengono generalmente a mente il cognome piuttosto che il nome (Cass. n. 8119/2009; Cass. n. 14483/2002 e Cass. n. 7482/1995).

Nei segni distintivi costituiti da un patronimico, il cognome rappresenta il “cuore”, mentre il prenome e gli altri elementi distintivi del tipo di attività esercitata o di uso comune sono di regola privi di autonoma capacità distintiva, viepiù laddove la denominazione comune sia utilizzata con caratteri tipografici e modalità tali da aumentare il pericolo di confusione. Ne consegue che l’anteriorità dell’uso del segno distintivo contenente un patronimico comporta il venir meno della facoltà dell’omonimo imprenditore concorrente di usare l’identico patronimico quale segno distintivo o quale segmento del proprio segno distintivo, salva l’attuazione di una differenziazione tale da evitare la (altrimenti presunta) confondibilità tra imprese e relativi prodotti.

La funzione dell’art. 2563 c.c. non è in realtà quella distintiva dell’impresa rispetto alle altre concorrenti, ma quella indicativa del collegamento interno tra impresa e persona fisica dell’imprenditore, volta a tutelare l’interesse dei terzi creditori: poiché tale funzione non interferisce con la disciplina posta a tutela dell’interesse alla differenziazione delle imprese, si ritiene che il rispetto del c.d. principio di verità non possa mai comportare un’attenuazione della tutela del segno distintivo anteriore contro la confondibilità.

La confondibilità tra prodotti/servizi non è esclusa dalla differenza qualitativa tra gli stessi (Cass. n. 17144/2009), dalla circostanza che i prodotti del titolare del marchio siano più costosi e raffinati di quelli del contraffattore (Cass. n. 5091/2000) o dal fatto che tale marchio goda di maggiore rinomanza rispetto al segno distintivo del contraffattore, così come va altresì escluso che costituiscano validi elementi di differenziazione la diversità dei canali distributivi e il differente target di clientela (Cass. n. 17144/2009), o l’aggiunta da parte del contraffattore di un proprio segno o segmento distintivo sul prodotto recante il marchio contraffatto (Cass. n. 1249/2013; Cass. n. 14684/2007).

Principi espressi nell’ambito di un procedimento di reclamo avverso un’ordinanza cautelare con la quale era stato inibito ex art. 131 c.p.i. l’illegittimo utilizzo da parte del reclamante della denominazione presente nell’insegna e nel sito internet dello stesso, in quanto pressoché identica al marchio registrato da un’impresa concorrente. Nel rigettare il reclamo il Collegio precisa la portata della tutela che deve essere assicurata ai marchi patronimici.

(Massime a cura di Edoardo Abrami)




Tribunale di Brescia, ordinanza del 16 gennaio 2024, n. 60 – procedimento cautelare, azione di contraffazione, marchi, marchi di forma,  marchi non registrati e marchi registrati,  fumus boni iuris e periculum in mora della contraffazione, atti di concorrenza sleale

Differentemente dai marchi registrati, per i quali vale la presunzione di validità (presunzione comunque superabile mediante prova dell’invalidità), per i marchi di fatto è onere della parte che ne invoca la tutela allegare specificamente e dimostrare la validità del segno, dimostrandone il carattere distintivo e i tratti di novità e di originalità.

Con riguardo ai marchi di forma non registrati, l’individuazione del carattere distintivo, della novità e della originalità deve essere specifica, non potendosi ritenere assolto il relativo onere probatorio nel caso in cui la parte intenda fondare la propria pretesa sul mero esame visivo delle immagini raffiguranti il prodotto allegate nella documentazione offerta in giudizio.

Deve escludersi la sussistenza di una capacità distintiva “intrinseca” nelle forme comuni, non originali in sé né nuove.

Come recentemente affermato dalla giurisprudenza, «Può essere registrato e tutelato come marchio di forma quel prodotto la cui pubblicizzazione e commercializzazione ne abbiano favorito la diffusione tra il pubblico al punto da comportare la generalizzata riconducibilità di quella determinata forma dell’oggetto ad una specifica impresa, consentendo l’acquisto, tramite il c.d. “secondary meaning”, di capacità distintiva del marchio che ne era originariamente privo» (cfr. Cass. n. 30455/2022).

Sussiste “secondary meaning” quando «[…] il marchio, in origine sprovvisto di capacità distintiva per genericità, mera descrittività o mancanza di originalità, acquisti tale capacità in conseguenza del consolidarsi del suo uso sul mercato» (cfr. Cass. n. 53/2022). L’acquisto del carattere distintivo tramite il “secondary meaning” può essere desunto da elementi indiziari, quali indagini demoscopiche, sempre che «almeno una frazione significativa del pubblico destinatario identifichi grazie al marchio i prodotti o servizi di cui trattasi come provenienti da un’impresa determinata» (cfr. Trib. I gr. CE, 2 luglio 2009, T-414/07; analogamente Corte Giust. CE, 4 maggio 1999, C-108/97).

Configurano elementi indiziari anche le campagne pubblicitarie svolte e gli investimenti pubblicitari effettuati, relativamente ai quali è onere della parte fornire allegazioni specificamente riferibili ai prodotti contraddistinti dai marchi dei quali si invoca tutela.

Relativamente ai marchi registrati, ai fini della decadenza dai diritti sul segno per volgarizzazione (art. 26 c.p.i), la presenza sul mercato di prodotti aventi forme del tutto analoghe a quelle dei prodotti contraddistinti dai marchi di cui si invoca tutela è un dato di per sé neutro.

Nell’ambito di un giudizio cautelare instaurato nell’ambito di un’azione di merito tesa ad accertare la contraffazione di marchi registrati, ricorre il “fumus” della contraffazione ai sensi dell’art. 20, c.1, lett. b) c.p.i. non solo in caso di esatta riproduzione della forma, ma anche quando la stessa presenti un elemento inidoneo a conferire al prodotto un’impressione radicalmente differente rispetto a quella conferita dal segno oggetto di privativa, qualora tale elemento sia tradizionalmente irrilevante per il consumatore di riferimento.  

Nell’ambito di un giudizio cautelare instaurato nell’ambito di un’azione di merito tesa ad accertare la contraffazione di marchi registrati sussiste il “periculum in mora” quando l’interferenza censurata sia suscettibile di arrecare un pregiudizio al titolare del marchio in termini di svilimento dello stesso, in particolare laddove si consideri che i prodotti oggetto della contraffazione sono venduti a prezzi inferiori. Tale pregiudizio, suscettibile di assumere portata maggiore nelle more del giudizio di cognizione piena, non è adeguatamente ristorabile per equivalente.

La sussistenza del “periculum in mora” non è esclusa dall’inerzia protratta dal titolare del marchio nell’esercizio giudiziale delle sue ragioni, né dalla prolungata coesistenza sul mercato dei prodotti delle rispettive imprese, essendo dirimente in proposito l’imminenza del pericolo insita nell’attualità della produzione e commercio in violazione delle privative registrate. Tali circostanze rilevano, invece, nella modulazione temporale delle misure cautelari concesse, dovendosi accordare al resistente, compatibilmente con le esigenze cautelari, tempi ragionevoli per adeguare al provvedimento la sua organizzazione produttiva e commerciale in modo tempestivo, e possono eventualmente rilevare altresì in termini di riduzione del danno cagionato.

In tema di illeciti concorrenziali, il divieto di imitazione servile ai sensi dell’art. 2598, n.1 c.c. tutela l’interesse a che l’imitatore non crei confusione con i prodotti del concorrente, giacchè l’imitazione servile dei prodotti altrui che non integri violazione di diritti di privativa industriale può configurare atto di concorrenza sleale soltanto quando riguardi elementi estrinseci e formali dei prodotti stessi, che abbiano idoneità individualizzante.

In tema di imitazione servile non è idonea a ingenerare confusione la presenza, sulle confezioni dei prodotti, di marchi denominativi e figurativi radicalmente differenti che non condividano con i marchi oggetto di privativa né il nucleo concettuale, né alcun aspetto fonetico, stilistico o grafico significativo.

Ricorre appropriazione di pregi, ai sensi dell’art. 2598, n. 2 c.c., quando un’impresa, in forme pubblicitarie, attribuisca ai propri prodotti qualità non possedute, ma appartenenti ai prodotti dell’impresa concorrente.

È da ricondursi all’art. 2598 n. 3, stante l’utilizzo di mezzi non conformi alla lealtà commerciale suscettibile di danneggiare l’azienda altrui, il cd. “agganciamento parassitario”, fattispecie che può realizzarsi mediante l’utilizzo di un packaging che, sotto il profilo estetico, è del tutto simile a quello utilizzato per prodotti omologhi (ad esempio per combinazione di forma e di ingredienti) maggiormente noti, e quindi idoneo ad evocare il ricordo dell’immagine della confezione e del prodotto a marchio altrui, pubblicizzati a livello nazionale.

In tema di agganciamento parassitario, il vantaggio ingiusto ottenuto dal concorrente consiste nel realizzare un significativo risparmio in termini di investimenti necessari per accreditare autonomamente e commercializzare i propri prodotti sul mercato; a tale vantaggio corrisponde per l’impresa concorrente un indebito svantaggio, individuabile nella frustrazione dei suoi investimenti (produttivi, di marketing, pubblicitari), nella potenziale erosione di una quota di mercato in ragione dei prezzi più convenienti praticati dalla concorrente (condizione resa possibile anche grazie al risparmio conseguito, riconducibile ad un atteggiamento commerciale di tipo parassitario), nonché, potenzialmente, in uno svilimento dei suoi marchi.

Principi espressi nell’ambito di un giudizio cautelare funzionale ad un giudizio di merito volto ad accertare la contraffazione di marchi registrati e non registrati, instaurato da una società a responsabilità limitata, attiva nel settore della produzione e commercializzazione di prodotti alimentari, volto ad ottenere l’inibitoria di asseriti illeciti contraffattori e di concorrenza sleale (per imitazione servile, appropriazione di pregi e agganciamento parassitario).

(Massime a cura di Vanessa Battiato)




Tribunale di Brescia, sentenza del 28 dicembre 2023, n. 3416 – registrazione della denominazione, marchio, concorrenza sleale

In materia di società di capitali, l’imprenditore che per primo adotti una determinata denominazione sociale acquista il diritto all’uso esclusivo della stessa, con conseguente obbligo di differenziazione per chi, successivamente, utilizzi una denominazione uguale o simile idonea a generare un rischio di confusione.

Quando due società assumono la medesima denominazione sociale, il conflitto tra le stesse deve essere risolto sulla base del criterio temporale dell’anteriorità nella registrazione della denominazione sociale nel registro delle imprese. A tal proposito, non assume rilievo né il mero pregresso utilizzo della stessa denominazione da parte di altra società, che ha cessato da tempo di operare e che faceva capo a familiari del socio di una della società registrata per seconda, né il fatto che la denominazione di quest’ultima coincida con il cognome di uno di tali soci (cfr. Cass. n. 13921/2021).

La domanda risarcitoria per gli atti di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 c.c. deve comprendere gli elementi puntuali per quantificare il danno asseritamente subito. Il fatto che la società concorrente abbia assunto la stessa denominazione e operi nel medesimo mercato non è sufficiente a tali fini.

Princìpi espressi nell’ambito di un giudizio di merito promosso da una società a responsabilità limitata al fine di sentire accertare e dichiarare che l’utilizzo, da parte della convenuta, della medesima denominazione sociale costituiva una violazione di quanto previsto dall’art. 2569 c.c.

In particolare, l’attrice chiedeva – oltre al ritiro ed al sequestro dal commercio di tutti i prodotti della convenuta recanti il segno in oggetto – il cambio della denominazione sociale, l’inibitoria dell’utilizzo del segno oggetto di marchio registrato nonché il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, patiti in conseguenza della condotta di contraffazione.

(Massime a cura di Edoardo Compagnoni)




Tribunale di Brescia, sentenza del 24 ottobre 2023, n. 2699 – marchio, contraffazione, inibitoria

L’utilizzo di un segno simile al marchio registrato per prodotti o servizi identici o affini integra la contraffazione del marchio se a causa della somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni, secondo quanto disposto dall’art. 20, lett. b), c.p.i.

Il principio in questione è stato espresso nell’ambito di un’azione di accertamento di contraffazione di un marchio registrato e della sussistenza di atti di concorrenza sleale.

(Massima a cura di Cristina Evanghelia Papadimitriu)




Tribunale di Brescia, sentenza del 18 luglio 2023, n. 1843 – uso non autorizzato del marchio, contratto di licenza d’uso

L’art. 1591 c.c., non rappresenta un principio generale, almeno riferibile ai beni immateriali, poiché manca una pluralità di norme dalle quali potrebbe emergere l’esistenza di una norma generale che le accomuna. Inoltre, tale norma non può trovare applicazione analogica al contratto di licenza d’uso di un marchio per due ragioni principali. In primo luogo, nel contratto di licenza d’uso, che riguarda lo sfruttamento di diritti economici su beni immateriali, manca la ratio del contratto di locazione o affitto, che richiede la restituzione della cosa materiale come presupposto per concedere il diritto di sfruttamento, ben potendo coesistere l’utilizzo del medesimo bene immateriale contemporaneamente in capo a più soggetti. In secondo luogo, l’applicabilità analogica dell’art. 1591 c.c. è ammissibile solo quando la fattispecie non è disciplinata da una norma specificamente prevista, purché non sussista incompatibilità con la normativa speciale. (cfr. Cass. n. 2306/200). Nel caso del contratto di licenza d’uso, l’ordinamento fornisce una tutela speciale contro l’utilizzo non autorizzato del marchio. 

In particolare, nel contratto di licenza d’uso, avente ad oggetto lo sfruttamento di diritti economici su beni immateriali, al fine di impedire che l’utilizzo della privativa industriale si protragga, in modo non autorizzato, oltre i termini in cui lo sfruttamento è consentito, è prevista la possibilità per l’avente diritto di promuovere l’azione inibitoria ovvero l’azione risarcitoria ex art. 125 c.p.i. 

Principi espressi nell’ambito del giudizio promosso dal fallimento di una società a responsabilità limitata, che ha convenuto in giudizio una società per azioni lamentando l’inadempimento negoziale del contratto di licenza d’uso e l’utilizzo indebito di segni identici o simili a quello oggetto di privativa. In particolare, a fondamento della propria domanda, l’attrice deduceva di essere divenuta titolare del marchio a seguito della modifica dell’accordo di licenza d’uso, riconoscendo alla società convenuta l’esclusiva nello sfruttamento del marchio per una durata di dieci anni, verso pagamento di royalties.

(Massime a cura di Simona Becchetti)




Tribunale di Brescia, sentenza del 14 luglio 2023, n. 1825 – titolarità del marchio d’impresa, trasferimento del marchio, “preuso” del marchio

Solo colui che si vanta avente diritto alla registrazione può contestare la titolarità del marchio in capo a colui che lo ha originariamente registrato. Analogamente, la registrazione del trasferimento del marchio può essere contestata solo da colui che prova di esserne titolare.

Il fatto che determinati negozi giuridici siano conclusi al fine di eludere le ragioni dei creditori, non costituisce una causa di nullità dei contratti stessi ma, al più, motivo di revocatoria.

La scadenza di uno (solo) dei (molteplici) marchi che declinano, o ricomprendono, un determinato nome non determina la dismissione di tutti i marchi connessi a quel nome, ad opera del soggetto titolare di altri marchi che declinano lo stesso termine.

Non costituisce “preuso” di un marchio, ossia l’utilizzo di un marchio non registrato prima della sua registrazione ad opera di terzi, il suo impiego non per contraddistinguere i propri prodotti ma in ragione di licenza o su autorizzazione della licenziante. Infatti, per “preuso” bisogna intendersi l’utilizzo di un marchio come segno distintivo dei propri prodotti o servizi e, non di quelli di terzi.

Principi espressi nell’ambito di un procedimento volto a far accertare e dichiarare la contraffazione di marchi d’impresa con conseguente richiesta di ordine di inibitoria, condanna al risarcimento dei danni e pubblicazione della sentenza.

(Massime a cura di Edoardo Compagnoni)




Ordinanza del 28 luglio 2020 – Giudice: Dott.ssa Angelica Castellani

Per
ravvisare l’esistenza di un rapporto di concorrenza fra due imprenditori è
sufficiente la configurabilità di un’area di interferenza tra attività dagli
stessi svolte, non essendo necessaria la totale sovrapponibilità tra le
medesime.

La
valutazione della capacità distintiva di un segno registrato come marchio va
effettuata sulla base della percezione che di esso abbia il pubblico
destinatario dei prodotti o dei servizi contraddistinti, sicché un marchio
descrittivo, costituito da segni denominativi privi di capacità distintiva, può
essere considerato valido quando, a seguito del consolidarsi del suo utilizzo
sul mercato, risulti aver acquisito nel tempo una sua capacità distintiva
(conf. Cass. n. 8119/2009).

La
prova dell’acquisizione del secondary meaning può essere fornita non
solo per il tramite di apposita indagine demoscopica, ma anche mediante altri
elementi indiziari osservati nel loro complesso (campagne promozionali e
pubblicitarie realizzate dal titolare del segno, numero di visitatori del sito
internet, numero di operatori del settore con i quali l’operatore collabora sin
dall’inizio dell’attività).

In
caso di utilizzo indebito della componente denominativa del marchio di un
concorrente, integrante anche nucleo essenziale della denominazione sociale e
del nome a dominio di questo, anche laddove i segni distintivi non abbiano
assunto, con l’uso prolungato nel tempo e la rinomanza notoriamente acquisita,
i connotati di un marchio “forte”, si deve escludere che scarsi elementi di
differenziazione, di per sé privi di adeguato valore individualizzante,
aggiunti al nucleo fondamentale dei segni distintivi altrui siano idonei a
svolgere funzione di diversificazione.

Ai
sensi dell’art 22 c.p.i., che sancisce il principio dell’unitarietà dei diritti
sui segni distintivi, può costituire violazione dei diritti esclusivi spettanti
al titolare di un marchio registrato l’uso da parte di un terzo di un segno
identico o simile a detto marchio come ditta, denominazione, ragione sociale,
nome a dominio o insegna in presenza di un rischio di confusione che può
consistere anche in un rischio di associazione, ovvero, in caso di marchio
rinomato, allorquando l’uso contestato dia luogo ad un pregiudizio per il
titolare del marchio o a un indebito vantaggio per l’utilizzatore del segno.

A
prescindere da specifiche violazioni di diritti di esclusiva ex artt. 12, 20 e
22 c.p.i., si ritengono integrate le fattispecie di concorrenza sleale di cui
all’art 2598, nn. 1 e 3, c.c. qualora l’elevato grado di somiglianza tra i
segni utilizzati dalle imprese concorrenti generi da un lato, il rischio di
associazione tra le stesse in termini di confusione circa l’origine
imprenditoriale dei servizi da queste offerti e, dall’altro, determini
l’indebito sfruttamento del valore attrattivo dei segni dell’impresa di più
antica costituzione e, di riflesso, della notorietà della stessa.

Nell’ambito di un procedimento
cautelare per ottenere la tutela dei propri diritti di esclusiva, in punto
di  periculum in mora  le ragioni di urgenza vanno ravvisate nella
persistente utilizzazione da parte della resistente dei segni distintivi in
titolarità della ricorrente all’interno del proprio marchio, della propria
denominazione sociale e del domain name dalla stessa registrato, nonché
nel pregiudizio di natura economica – da apprezzarsi necessariamente in termini
delibativi e probabilistici – collegato all’indebito sfruttamento degli
investimenti della ricorrente. Tali condotte lesive, infatti, possiedono una
intrinseca attitudine a sviare la clientela della ricorrente e a cagionare di
conseguenza a quest’ultima un danno di difficile quantificazione e riparazione.
Inoltre, la pericolosità di tali condotte è aggravata dalla promozione dei
propri servizi tramite web, che consente per sua natura di raggiungere
in breve tempo un numero indefinito di consumatori.

Principi
espressi in sede di accoglimento di un ricorso promosso in via cautelare ex
artt. 131 e 133 c.p.i., 700 c.p.c. e 2564 c.c. da una società attiva nel
settore della pubblicità legale delle procedure esecutive e fallimentari per
ottenere nei confronti di una concorrente la tutela dei propri diritti di esclusiva
sul segno di cui è titolare, registrato come nome a dominio e integrante
componente denominativa del proprio marchio italiano ed europeo, nonché nucleo
essenziale della propria denominazione sociale.

(Massime
a cura di Giorgio Peli)




Ordinanza del 4 ottobre 2018 – Presidente: Dott. Raffaele Del Porto – Giudice relatore: Dott. Davide Scaffidi

Dal punto di vista metodologico, l’esame comparativo tra segni distintivi asseritamente identici o similari deve essere condotto non già mediante l’analisi parcellizzata dei singoli elementi di valutazione, ma in via unitaria e sintetica, attraverso un apprezzamento complessivo che tenga conto degli elementi dotati di capacità evocativa.

Ai fini della valutazione della confondibilità fra segni in conflitto il normale grado di percezione delle persone alle quali il prodotto è destinato deve essere parametrato allo specifico settore merceologico nel quale le imprese operano, ben potendosi ritenere quale consumatore medio di riferimento un consumatore qualificato, la cui diligenza e avvedutezza siano tali da ritenere che non si presenti in concreto un rischio di confusione o di associazione tra i rispettivi segni. 

Principi espressi dal Tribunale che, in accoglimento del reclamo, ha revocato l’ordinanza con la quale era stato inibito l’utilizzo di segni per presunta contraffazione di marchi comunitari (oggi marchi dell’Unione europea) registrati. 

In particolare è stato affermato che, pur potendosi ravvisare somiglianze non marginali tra i rispettivi segni, sia sotto il profilo grafico, che fonetico, simili analogie non investono la portata evocativa complessiva dei rispettivi segni, attenendo esse a profili funzionali ancillari privi di originalità e distintività. Il collegio ha precisato che ad una valutazione globale, ipoteticamente condotta dal consumatore medio sulla scorta della percezione visiva, i grafemi risultavano tra loro eterogenei e a livello semantico i claims dei segni veicolavano concetti differenti, in quanto il primo,sarebbe stato volto ad esprimere un messaggio di tipo esortativo, tipo slogan, mentre il secondo si sarebbe limitato a richiamare alla mente del pubblico il profilo della provenienza “creativa” del prodotto. 

(Massime a cura di Francesco Maria Maffezzoni)